Rimetti a noi i nostri debiti

Il tema che campeggia quotidianamente sui media e viene agitato per indurre a miti consigli il popolo capriccioso è il tema del Debito Pubblico. Nell’idea di Debito si fondono senso di colpa e terrore civile. Di fronte ad ogni pretesa esosa, come scuole funzionanti, ospedali efficienti, pensioni decenti o simili oscenità la risposta automatica, oramai da decenni, passa da un doveroso appello al Debito Pubblico.
Ma cos’è il Debito Pubblico? Lasciamo da parte le specificità del debito italiano, originate dalla separazione tra Ministero del Tesoro e Banca d’Italia e, in misura minore, dall’inefficiente allocazione della spesa pubblica negli anni ’80, e riflettiamo sull’ammontare odierno del Debito. La prima cosa da notare è come l’incremento del Debito Pubblico negli ultimi 30 anni non è affatto una peculiarità italiana.

1) Debito Pubblico: I debiti pubblici di tutti i paesi industrializzati (con la sola eccezione della Germania) sono aumentati drasticamente negli ultimi decenni. Ad esempio: il Debito pubblico della Spagna è passato dal 60% del Pil nel 1995 al 99% odierno, quello statunitense è passato nello stesso periodo dal 63% al 105%, la Francia è passata da un rapporto Debito/Pil del 30% nel 1988 ad un 97% odierno, il Regno Unito nello stesso periodo (1988-2018) dal 25% all’85%, quello del Giappone dal 70% al 253%, e quello italiano dal 90% del 1988 al 132% odierno.

2) Debito Privato: Questi dati però vanno letti in abbinamento a quelli del Debito Privato. Se la crisi del 2008, con i fallimenti bancari e la restrizione del credito, ha forzosamente ridotto l’esposizione del debito privato negli ultimi anni, la sua tendenza è comunque negli ultimi decenni verso una colossale espansione. In UK si passa dal 60% del PIL nel 1995 al 230% del PIL odierno. Per gli USA si passa dal 161% del 1995 al 202% odierno. Per la Francia dal 163% del 1995 al 234% odierno. Per la Spagna dal 136% al 200%. Per l’Italia dal 120% del 1995 al 165% odierno. Il Giappone ha invece di fatto ridotto nel tempo il suo debito privato, che però rimane su livelli molto elevati (nel 2018 il 230% del Pil).

3) Il meccanismo. Quali sono le ragioni di questa tendenza generale verso l’aumento del debito, pubblico e/o privato? Per capirlo è utile pensare alla dinamica vista in occasione della crisi subprime. La crisi del 2008 è preparata dalla necessità per l’economia americana di consentire ad un ceto medio, con salari stagnanti dai primi anni ’80, di continuare a consumare. Per ottenere questo risultato le banche hanno allargato le opzioni di credito al consumo, tra cui la possibilità di accedere a mutui con garanzie flebili (subprime) era una delle opzioni. Quando questa ‘generosa’ concessione di credito è esplosa nelle mani del sistema bancario, questo ha fatto saltare i creditori (banche) che sono stati salvati dallo Stato, cioè a spese del debito pubblico.
Bisogna guardare al debito pubblico e al debito privato come due aspetti complementari, che segnalano una tendenza di fondo, perdurante dagli anni ’80. Il sistema produttivo ha naturalmente bisogno di domanda. Se per la maggior parte delle persone il potere d’acquisto risulta stagnante, anche la domanda, e con ciò i profitti, dovrebbero esserlo; perché ciò non accada, avviene una compensazione in forma creditizia, con forme di credito al consumo e/o con spesa pubblica.
Ma perché il potere d’acquisto medio risulta stagnante nonostante la produzione di beni, il Pil, sia aumentato considerevolmente nei paesi industrializzati?

4) La quadratura del cerchio. Ciò che è venuto a mancare negli ultimi 30-40 anni è stata banalmente la capacità da parte delle democrazie liberali di far pagare adeguatamente i possessori di grandi capitali. Come mostrato eloquentemente da Piketty, un’esigua minoranza della popolazione (inferiore allo 0,5%) ha visto incrementare enormemente sia la propria possibilità di eludere il fisco, sia la possibilità di estrarre profitti dal capitale finanziario.

La quadratura del cerchio per il grande capitale è rappresentato da due mosse.

La prima concerne la circolazione monetaria e il consumo. Per mantenere consumi (e profitti) in crescita senza far crescere significativamente i salari, il trucco consiste nel mettere la liquidità in eccesso a disposizione come debito, privato o pubblico, capace di fornire il potere d’acquisto altrimenti mancante. Questa mossa consente poi di rivalersi sui debitori, gratificati dalla disponibilità di credito, in forma di interessi.
La seconda mossa è quella decisiva sul piano politico. La finanziarizzazione dell’economia in forma di aumento di debiti/crediti estende il numero delle persone coinvolte, a vario titolo, nel sistema finanziario. Così facendo anche comuni lavoratori vengono resi ‘partecipi del sistema’ e sono indotti (di norma a sproposito) a sentirsi ‘solidali’ con, o almeno preoccupati per, le ‘sorti del capitale’: per la salute delle istituzioni finanziarie, per gli andamenti di borsa, per i tassi di interesse interbancario, per lo ‘spread’, ecc.

Di fronte a qualunque minaccia anche solo potenziale che si profili contro le sante pretese del capitale, è facile per quest’ultimo cooptare i propri portavoce prezzolati per diffondere la percezione che le sorti del capitale siano senz’altro le sorti di tutti (un grande classico è l’appello alla necessità di “tutelare i risparmi delle famiglie”).

Così, piccoli creditori, come chi cerca di tenere in piedi una pensione privata per non crepare in tarda età, o piccoli debitori, come chi si svena in ‘prestiti d’onore’ per studiare, o chi sottoscrive a fatica un mutuo trentennale per non dormire sotto i ponti, tutti questi vengono chiamati implicitamente in soccorso quando sono minacciate le sorti dei Warren Buffett o delle Liliane Bettencourt.

(Per avere un’idea delle proporzioni, i 2400 miliardi del debito pubblico italiano sono nelle mani di famiglie e imprese per una percentuale del 5,1%; il resto sono banche private e banche centrali, fondi di investimento, assicurazioni e fondi monetari. – Quanto al credito, al risparmio privato, dei 4168 miliardi di risparmio, l’80% è nelle mani dell’1% della popolazione).

Ecco, ora c’è un punto, molto radicale, e tuttavia semplice nelle sue linee di fondo, che bisognerebbe sempre tenere davanti agli occhi. La ricchezza reale è legata tutta essenzialmente alle persone, a quello che sanno fare (anche gli strumenti per lavorare sono fabbricati e mantenuti da persone). Il capitale finanziario (il denaro in generale) è il frutto di un patto sociale, sostenuto dall’autorità legale dello Stato. Niente di più. Il rispetto verso il capitale e la proprietà dipende da quel patto sociale, implicitamente sottoscritto da tutti noi sulla base di una promessa: il comune rispetto di queste convenzioni, la fiducia attribuita alle transazioni finanziarie, è giustificata dal contributo di quelle convenzioni al benessere comune. Ma nel momento in cui questo non accade, nel momento in cui una ristretta élite finanziaria utilizza il rispetto comune per il sistema al fine di aggirarlo, in modo da sottrarre il proprio contributo al bene comune, in quel momento stesso il patto sociale è violato ed è da ritenersi invalido. Con ciò viene meno ogni rispetto per chi non ha avuto pudore di ritirare il proprio contributo alla vita comune, ritagliandosi un privilegio fuori da ogni ragione e proporzione.
Il denaro, il capitale, il debito, i suoi interessi, tutto ciò ha il potere che ha sulle nostre vite solo finché ha il nostro rispetto. Quando lo perde, restano solo pezzi di carta.

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