A cent’anni dall’Armistizio di Villa Giusti: una breve riflessione storica

Ieri (3 novembre) ha avuto luogo a Trieste una contrapposizione (pacifica) tra due manifestazioni, quella di Casapound da una parte e quella promossa da Anpi e Cgil dall’altra. L’occasione ufficiale sarebbe l’anniversario dei cent’anni dall’armistizio di Villa Giusti, che per l’Italia significò la fine della prima Guerra Mondiale.
 
Diversamente da alcuni amici (libertari a giorni alterni) io non credo affatto che bisognasse vietare la manifestazione di Casapound. Fino a quando una forza politica si muove nella cornice della legalità e dei processi democratici deve potersi esprimere anche se la maggioranza la detesta.
 
In questo senso la risposta democratica giusta è stata data da chi, opponendosi alle posizioni di Casapound, ha dato luogo ad una contromanifestazione massiccia e civile. (Certo, sarebbe stato bello avere una manifestazione antifascista unita sotto uno slogan tipo: “Giù le mani dalla Patria! La Patria e la sua Costituzione sono roba nostra!”; purtroppo questo oggi non sembra possibile; e non è l’ultimo dei nostri problemi).
 
Quello che però alla fine di questa, come di molte altre manifestazioni, lascia rammaricati è che queste mobilitazioni, che dovrebbero essere ‘eventi commemorativi’ o ‘manifestazioni simboliche’ finiscano per non rammemorare davvero nulla e per simbolizzare ben poco.
 
Lasciare la memoria di quell’intricato dramma, tragico ma anche eroico, che fu la prima guerra mondiale a un’opposizione di slogan, come se si trattasse di scegliere pro o contro la Patria, o pro o contro il Fascismo (lasciando peraltro pensare che le due opposizioni coincidano), è solo l’ennesima occasione perduta.
La Patria non verrà salvata da slogan patriottardi e retorici, il Fascismo non verrà sterilizzato da demonizzazioni prive si retroterra storico.
 
Commemorazioni e monumenti (da ‘monere‘ = ricordare) sono la forma in cui la civiltà umana ha cercato di tenere ferma la propria unità e continuità storica. E la prima lezione di uno storico o di un (buon) insegnante di storia dovrebbe essere che la storia non è il luogo adatto né a condanne né a glorificazioni.
Quando una commemorazione diviene una delle due, un gesto stantio di censura e biasimo, o un gesto retorico di esaltazione e glorificazione, la storia è già scomparsa, e con essa anche il più fondamentale dei suoi contenuti.
 
E quale sarebbe questo contenuto?
Per dirla in un fiato: è l’amore per la storia umana in quanto errore. Questa espressione può essere spiegata, almeno in una forma iniziale, scomponendola in due parti distinte.
 
La prima componente è la comprensione che la Storia è, in un senso profondo, una storia di errori. Nella storia non c’è altro. Ci sono essenzialmente errori perché, come osservava Martin Heidegger, la storia è un errare innanzitutto nel senso primario dell’andare, e cercare, senza meta, e secondariamente anche nel senso dello sbagliare. La storia è un processo di ricerca senza garanzie di trovare nulla, ma con la sicurezza che interrompere questa ricerca (questo perenne errare) è impossibile, equivale a lasciarsi morire.
 
La seconda componente però qualifica la prima. Da che punto di vista la storia passata appare (a chi cerchi di conoscerla) sempre come una sequela di errori, anche se di maggiore o minore entità? L’erroneità del passato ci si dà perché lo abbiamo superato e lo guardiamo con la sufficienza di chi è cresciuto attraverso e oltre quell’errore. Noi vediamo l’errore passato nella misura in cui ne abbiamo incontrato traumaticamente i limiti, e già questo semplice riconoscimento ci pone al di sopra dell’errore. Talvolta la reazione allo scontro con un limite passato ci ha lanciato su una strada che stiamo ancora percorrendo, non avendo incontrato nuove mura invalicabili, e questo lo chiamiamo ‘giusto‘, e da qui guardiamo l’errore che fu.
 
Ma perché il passato dia i suoi frutti non bisogna trattarlo come mero luogo di abiezione senza scampo, da un lato, o come soprannaturale intuizione del ‘giusto’ dall’altro. Tutti, anche gli eroi che mitizziamo, hanno passato la vita nell’errore, e tutti, anche coloro che aborriamo, hanno vissuto a lungo confidando di percorrere la strada giusta. L’errore continuo che il nostro passato è (e che noi saremo per chi ci seguirà) non va trattato né come una mitizzazione, depurata a posteriori del male, né come una abiezione, deprivata a posteriori del bene.
 
L’atteggiamento giusto, giusto perché fecondo, verso la storia, è che la sua erroneità deve muovere la piĕtas, la misericordia simpatetica, una forma di amore compassionevole verso chi ha vissuto, cioè sbagliato, in buona fede.
 
E’ sterile pensare di ‘trarre lezioni’ dal passato esercitandovi un ‘giudizio morale’ fuori tempo massimo. Il giudizio morale serve nel presente a guidare le azioni future, ed esercitarlo su azioni già compiute è perfettamente privo di senso.
Per imparare dal passato non bisogna dunque esercitarsi nel separare le ragioni dai torti, i buoni dai cattivi, magari addirittura operando cancellazioni e censure retrospettive.
Al contrario, ciò che bisogna fare, l’unica cosa davvero utile, è comprendere quanto di inebriante, promettente, vitale, umano c’è stato anche in ciò che riconosciamo come gli errori più nefasti; e al contempo, riconoscere quanto di casuale ed occasionale c’è stato nei percorsi che si sono rivelati più fertili (perché ancora li percorriamo).
 
Si tratta naturalmente di un’operazione che ha in sé la difficoltà di non poter essere ridotta a slogan, battute, sentenze tranchant o titoli di giornali. Richiede la piĕtas dello studio, della riflessione. Ma crea le condizioni per il riconoscimento reciproco, per la pazienza nel costruire un futuro comune, per il senso di continuità dell’avventura umana che nutre il nostro di senso.
 
La storia non è il luogo di giudizi morali. Ogni iniziativa nella sfera pubblica promossa in buona fede è in qualche modo comprensibile e recuperabile. L’unica eccezione è rappresentata da coloro i quali si sono mossi nella sfera pubblica per mero interesse privato: questi e solo questi, ora e sempre, meritano la damnatio memoriae.

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