Politica interna e democrazia (Transcripts FB)

1) LA SINISTRA E IL TEMA DELLA SICUREZZA

Di fronte a Salvini che è là ad aspettare il morto per poterci fare sopra una campagna, capisco la stizza di molti amici di sinistra, che tendono a tacciare le invocazioni di destra sul tema della sicurezza come ideologiche e retoriche.

Trovo così frequentemente nelle fila ‘progressiste’ argomentazioni che notano come dopo tutto siamo ancora un paese comparativamente piuttosto sicuro, e che concentrare l’attenzione su crimini e criminali è un modo per distrarre l’attenzione da quei fattori strutturali che favoriscono il crimine, come l’impoverimento di ampi strati della popolazione.

In ciò c’è molto di vero, ma fa spesso capolino anche qualcosa di alquanto ideologico, che rende le tesi sinistrorse indigeste a molte persone di buona volontà, e ad amplissime fette di popolazione che magari per altri versi potrebbero essere attratte da posizioni di sinistra.

Per cominciare, anche ammettendo che c’è un problema strutturale in cui la criminalità si radica, ciò non legittima a concentrarsi sul solo problema strutturale dimenticandone le conseguenze concrete in termini di insicurezza pubblica.
Sarebbe come se (rovesciando la prospettiva su un tema tipicamente di sinistra) di fronte all’aumento di famiglie alla fame dicessimo che però non è importante fornire le mense per i singoli poveri, ma solo concentrarsi sulle cause strutturali.
Gli sputeremmo in un occhio.

C’è poi chi dice, con convinzione che il problema dell’insicurezza è un mero problema di insicurezza percepita, ossia in definitiva un problema meramente mediatico.
Solo che anche questo è falso.
Mentre per acuni reati, come gli omicidi (e, per inciso, i femminicidi) le statistiche dell’ultimo decennio dicono che siamo di fronte ad un calo, per reati minori, ma molto più frequenti in termini assoluti, come furti, borseggi e rapine, assistiamo ad un aumento su base decennale. Per i borseggi abbiamo un aumento dal 2007 del 30% circa, per i furti in casa del 40%.

Ma questa è solo una metà della storia.
L’altra metà è data da due ulteriori aggravanti, ovvero: 1) dal fatto che solo una piccola parte di questi reati conducono di fatto ad un arresto (circa il 5% dei furti e il 25% delle rapine), e soprattutto 2) dal fatto che anche quando ad un arresto si perviene questo conduce di norma a pene effimere. Dati recenti dicono che tra scadenza dei termini di custodia cautelare, decreti svuotacarceri, e patteggiamenti, dopo un anno dall’arresto circa il 50% dei rei è a piede libero.

Ora, è giustissimo cercare di non cedere ad isterie securitarie, e ragionare concretamente intorno a cosa fare. Però non è né politicamente intelligente, né moralmente ammissibile che questo tema venga snobbato costantemente a sinistra come un’invenzione di Salvini e dei media. Non lo è, e colpisce, peraltro, in modo più odioso e frequente coloro i quali per questioni di reddito vivono in quartieri meno agiati.

Credo francamente che il tema della sicurezza sia uno di quei temi su cui la sinistra soffra ancora in maniera grave di un residuo ideologico postsessantottesco (e prima ancora legato al determinismo ambientale del socialismo di fine ‘800). Si tratta di un residuo che impedisce a molte persone di sinistra anche solo di parlare di questi temi per timore di essere inquadrati dai loro ‘compagni di strada’ come securitari, giustizieri, quando non addirittura come ‘fascisti’.
Si tratta invece di uno di quei temi (non l’unico purtroppo) che dimostrano il distacco radicale avvenuto tra la sinistra e quel ‘popolo’ che pretenderebbe di rappresentare.

 

2) NOTA SULLA LEGITTIMA DIFESA

Ecco ci sono temi su cui, mi rendo conto di avere grosse difficoltà ad esercitare una riflessione fredda ed obiettiva. La questione, cavallo di battaglia della Lega di Salvini, della legittima difesa è una di queste.

Cercando di fare uno sforzo analitico, qual è il punto?

Il punto è che io so bene:

1) Che è un argomento sollevato strumentalmente dalla destra per motivi elettorali;
2) Che sul piano strutturale e sui grandi numeri tale tema opera in gran parte come un fattore di distrazione rispetto a questioni di molto maggiore peso.
3) Che è un tema delicatissimo, come sempre quando ne va della vita e della morte delle persone, e dunque andarci con i piedi di piombo è doveroso.

In questo senso posso capire che una proposta di legge dell’IDV (che, incidentalmente, ho firmato), nonostante abbia raccolto tre milioni di firme, sia ferma in parlamento da anni. Dopo tutto c’è ben altro di cui occuparsi (non che ce se ne sia occupati, ma in teoria c’è).

Tuttavia, purtroppo, nonostante queste considerazioni, non riesco a non incazzarmi ferocemente sentendo, come nei casi recenti di persone accusate di eccesso colposo di legittima difesa, a fronte di effrazioni in casa:

1) Quelli (la maggioranza) che sono stati riconosciuti innocenti sono stati tra gli 8 e i 10 anni sotto processo, e ne sono usciti con spese legali intorno ai 50.000 euro.

2) Quelli che sono stati ritenuti colpevoli del medesimo reato (eccesso colposo di legittima difesa) sono stati tenuti a risarcire il ladro, se ancora in vita, o la famiglia del ladro, se ucciso.

Mi dispiace, ma per me questa roba risulta essere uno schiaffo inaccettabile.

Che una persona, chiusa in casa propria, spesso di notte, debba essere tenuto a fare una valutazione di fino di quanto, e in che misura, l’intruso presente sia o non sia in grado di nuocere, a me pare semplicemente fuori dal mondo. E per inciso, questo non ha neppure a che fare con l’uso o meno di armi da fuoco. Se hai per le mani un manico di piccone o una chiave inglese è proprio la stessa cosa: devi essere in grado di valutare con occhio di lince se hai davanti un ex mercenario russo o un bamba qualunque.

Ora, io, come tutte le persone con una formazione di sinistra, ho imparato precocemente e sistematicamente a fare uno sforzo per preoccuparmi anche delle ragioni di chi è legalmente dalla parte del torto. Conosco tutti gli argomenti noti (e molti ignoti ai più) che potrebbero essere usati da un buon avvocato difensore per spiegare le possibili ragioni o giustificazioni di un rapinatore (in cerca di attenuanti).

Solo che arrivato a questo punto so anche un’altra cosa.
Che la vita è dura per quasi tutti e regala ben poco (figli di papà, starlette e raccomandati di ferro a parte), ma che ciononostante la stragrande maggioranza delle persone fa uno sforzo (uno sforzo spesso reiterato e faticoso) per conservarsi persone decenti e persino per ‘giocare con le regole’, anche quando sono regole incomprensibili o frustranti.
E perciò, in ultima istanza, pur senza nessuna inclinazione a giocare al “ruolo più eccitante della legge, quello che non protegge, la parte del boia”, però per me è ben chiaro in queste situazioni da che parte voglio stare.

E così, se, come capita oggi, mi vedo in TV da una parte una signora piddina con capello pepe-sale laccato e occhiale intellettuale che spiega con aria di sufficienza che “comunque i reati sono in diminuzione”, e dall’altra un fascista doc, con mascella, pelata d’ordinanza e probabilmente neanche la scuola dell’obbligo, che dice “nessuno lo ha costretto a venire a svaligiare casa mia”, con grande tristezza mi trovo a solidarizzare con il secondo.

In sintesi, al netto delle mie scarsamente interessanti paturnie psicologiche, il nocciolo a me pare sia semplice. Dato per scontato che il problema dell’insicurezza non si risolve armando i cittadini, una legge che consenta la piena legittima difesa nel caso di effrazioni in casa propria mi pare una semplice questione di giustizia. Ed in quest’ottica, nel caso di effrazioni, il reato di “eccesso colposo di legittima difesa” va semplicemente e rapidamente abolito, passando poi a occuparsi di cose più interessanti.

 

3) LA CORRUZIONE È INODORE (da “Il Piccolo”)

Qualche tempo fa papa Francesco aveva lanciato la seguente colorita invettiva: “la corruzione puzza!” Di fatto, le parole di Francesco ci rimandano al senso concreto che accompagnava l’antico uso della parola ‘corruzione’, come putrefazione e marcescenza di un organismo. Purtroppo, fuor di metafora, la corruzione non puzza affatto: essa non produce evidenti segni esteriori a rivelarne esistenza e sgradevolezza.

Ciò che negli organismi statali e nelle società complesse chiamiamo corruzione è il lato oscuro di qualcosa che in comunità semplici e arcaiche era la forma ordinaria di gestione delle relazioni. Nelle piccole comunità indipendenti (villaggi, clan, città-stato, ecc.) trattare affari, transazioni e giudizi sulla base di lealtà personali e scambi di favori è sempre stata la norma, ed era una norma perfettamente gestibile. In queste sfere di relazioni comunitarie l’intreccio di favori e doni rappresentava il tessuto connettivo fondamentale del gruppo. Tale tessuto connettivo ha carattere essenzialmente personale e fiduciario, ed è importante capire come questo livello relazionale non sia mai cancellabile, neppure in organismi sociali di grandi dimensioni.

Ma allora, ci si potrebbe chiedere, dovremmo forse rassegnarci ai ‘doni’ del sistema Incalza o ai ‘favori’ per gli appalti del Mose? O addirittura considerarli come qualcosa di moralmente accettabile? Niente affatto. Ma è utile vedere precisamente dove sta il problema. La corruzione è la sovrapposizione di forme di funzionamento sociale arcaico, primitivo e intuitivo al funzionamento di organismi sociali complessi. La corruzione è la sovrapposizione di rapporti personali di mutuo aiuto su macrosistemi che possono funzionare solo attraverso l’esercizio di regole di condotta astratte e impersonali. Di per sé ciò che muove i fenomeni di corruzione è qualcosa di perfettamente umano e intellegibile: la priorità delle lealtà personali dirette. Purtroppo quando queste forme di vita entrano in un organismo sociale complesso esse fanno proprio ciò che fa l’ingresso della vita primitiva di un batterio nell’organismo complesso di un animale: portano alla malattia ed eventualmente alla decomposizione. In un sistema complesso come uno stato moderno, in cui nessuno può avere accesso alla conoscenza personale di tutti gli altri, una cooperazione efficace può avvenire solo seguendo regole di funzionamento astratte, generali e impersonali. Solo questo tipo di norme consente di far collaborare milioni di persone che non potrebbero mai coordinarsi su base personale. Ma anche un sistema di norme astratte ha bisogno di fiducia per funzionare, fiducia nel rispetto delle regole, che è in ultima istanza fiducia e apertura di credito tra esseri umani in quanto tali, anche se sconosciuti. Adottare lealtà personali particolari al posto di regole impersonali è più intuitivo, ma produce nelle società complesse l’esplosione dei costi di transazione e un crollo dell’efficienza sistemica. Inoltre, ciò mina la fiducia nelle regole pubbliche degli esclusi dalla transazione corruttiva (necessariamente i più), il che diffonde ulteriormente la disfunzione.

Ma è fatale che ciò accada? Fa parte del ‘DNA’ di un paese la sua propensione o meno alla corruzione? Molte sono state le spiegazioni tentate circa le cause profonde della corruzione nei paesi in cui è estesa, ma una questione è di norma largamente sottovalutata. Un sistema di regole astratte è intelligibile solo ad una popolazione estesamente capace di elaborazione astratta. Per chi non ha adeguato e consolidato accesso alla riflessione in termini generali, impersonali e astratti il funzionamento di una società moderna non può che apparire come un mostro estraneo e incomprensibile, rispetto al quale la scorciatoia personale appare legittima, innanzitutto perché comprensibile. Come prima approssimazione, chi volesse esaminare fianco a fianco tassi di scolarizzazione e indici di corruzione scoprirebbe tra di essi la più lineare tra le correlazioni disponibili.

 

4) PICCOLE PATRIE, GRANDI BUGIE

Negli ultimi due decenni si è sviluppata in Italia come in tutta Europa una diffusa propensione verso il costituirsi o ricostituirsi di ‘piccole patrie’. Rivendicazioni nazionalistiche, regionalistiche o localistiche spingono sempre più a ricondurre la sovranità politica verso territori più ridotti e (si suppone) più culturalmente omogenei. In Italia l’esempio paradigmatico di questa tendenza è la Lega Nord, ma in verità esiste una ricca pluralità di questi movimenti (i maggiori afferiscono al gruppo ELD nell’Europarlamento).

La visione di fondo che alimenta queste posizioni, sempre più influenti, potrebbe essere messa in parole come segue: “Solo riportando la sovranità ad un livello prossimo alle persone e alle tradizioni territoriali potremo riacquistare controllo sulle nostre vite e così accrescere il nostro benessere.” Questa visione generale si declina poi nelle forme particolari dell’antieuropeismo, del tradizionalismo territoriale (talora etnico), e spesso anche della xenofobia.

È importante notare quanto di autentico c’è sullo sfondo di queste rivendicazioni. È un dato di fatto che le esistenze dei cittadini occidentali sono frequentemente perturbate da eventi politici ed economici distanti ed imperscrutabili, che travolgono aspettative, generando ansia e senso di precarietà (le conseguenze della crisi subprime americana sono sotto gli occhi di tutti).

Ed è un secondo dato di fatto che la politica dell’Unione Europea degli ultimi vent’anni è risultata fallimentare nel porre rimedio o argine a queste tempeste: è sin troppo chiaro che l’edificio europeo attuale è cresciuto avendo al centro la tutela degli interessi del capitale consolidato, a partire dai sistemi bancari, e lasciando quasi tutto il resto alla fede nelle virtù taumaturgiche del libero mercato.

Il problema tuttavia è capire quali conseguenze dobbiamo trarre da questo quadro.

Chiediamoci innanzitutto, con questa rilocalizzazione della sovranità come immaginiamo si configurerebbero le relazioni economiche di queste nuove unità politiche? Immaginiamo una qualche forma di autarchia economica su base locale? Ci figuriamo il ritorno ai borghi di piccoli produttori artigianali in bucolica relazione con il contado? Beh, senza negare il fascino letterario di queste visioni, il problema è se qualcuno pensa davvero che l’industria italiana otterrà l’autosufficienza energetica con le quattro pozzanghere di idrocarburi della Basilicata, o immagina che i telefonini funzioneranno senza tungsteno, i cavi elettrici senza rame, le ali degli aeromobili senza titanio, ecc. Non c’è praticamente oggetto che ci circondi in cui non cooperino tecnologie e materie prime provenienti da tutto il mondo, e l’idea di creare o ricreare un’esistenza nazionale o regionale autarchica è semplicemente ridicola: chiunque provasse davvero ad implementare una simile proposta verrebbe spazzato via.

Ma allora, chiediamoci: cosa resta dell’idea di una ‘riconquistata sovranità’ una volta che vi sottraiamo l’indipendenza economica? È presto detto: a restare sarebbero entità politiche forti abbastanza da ‘disciplinare’ la popolazione al proprio interno, ma troppo deboli per poter porre condizioni ai mercati internazionali. Un tale scenario è il sogno proibito della finanza internazionale e delle multinazionali: staterelli utili buoni solo a fare la predica ai propri cittadini, ma in ginocchio verso le transazioni economiche che li attraversano.

In altri termini, che lo sappia o meno, chi predica la riconduzione delle sovranità politiche a dimensioni nazionali, regionali, locali sta di fatto proponendo un modello che aumenta l’esposizione dei popoli a politiche economiche che passano sopra le loro teste.

Non c’è nulla di male nella sagra della polenta o nella festa della bagna càuda; e non c’è nulla di male nell’apprezzare la vita nella sua dimensione locale e personale: dopo tutto a chi non piace il bucolismo della ‘Contea’ di Bilbo Baggins? Solo che dev’essere ben chiaro, una volta per tutte, che l’idea che nelle piccole patrie stiano le soluzioni all’invadenza della globalizzazione è plausibile quanto l’idea di fermare un treno in corsa costruendo una tenda sui binari.

 

5) LA POLITICA È UN MESTIERE
(Piccola notazione integrativa alla débâcle romana del M5S)

Al casino prodotto dalle dimissioni a Roma, la dirigenza pentastellata sembra reagire rimettendo una volta di più in primo piano la questione degli emolumenti ai politici.
C’è in effetti una battaglia, lanciata dai Cinque Stelle, e peraltro accolta e rilanciata da Renzi, che focalizza sugli stipendi dei politici come problema cruciale del paese. C’è una gara a chi si mostra più esigente nel richiedere morigeratezza alla classe dei legislatori ed amministratori pubblici.
Inoltre i politici di professione sono visti come una casta immonda, e dunque si alimenta un modello secondo cui le persone dovrebbero essere prese a prestito dalla ‘società civile’ per un breve giro di giostra, salvo poi tornare al loro posto ‘civile’.

In sostanza, il modello che sta emergendo in Italia attraverso queste prese di posizione è quello di una classe politica di dilettanti, che non vale la pena imparino più di tanto a maneggiare i ferri del mestiere, perché tanto si tratta di un impiego effimero.

Si potrebbe pensare di colmare questo dilettantismo chiamando esperti del settore privato, ma quanto è probabile che persone con autorevolezza, competenza e un buon reddito del settore privato decidano di ridursi drasticamente gli emolumenti per svolgere un ruolo pubblico da cui peraltro puoi aspettarti più sputtanamenti che onori? Passando l’idea che pagare chi fa politica sia uno sfregio morale, quale si pensa sarà il bacino di esperti cui poter attingere? Nel migliore dei casi qualche magistrato in aspettativa.

La verità è che, credo involontariamente, ma non meno colpevolmente, i Cinque Stelle (seguiti a ruota da Renzi) stanno facendo passare un modello dell’attività politica del tutto insostenibile, un modello dove vuoi trovare gente capace, entusiasta, e competente, ma al contempo vuoi che siano dei dilettanti, part-time, pagati mediocremente, moralmente disprezzati, e cui però tutti hanno il sacrosanto diritto democratico di chiedere soluzioni ai propri problemi.

Ma questa è solo metà del quadro.

Nell’altra metà bisogna notare come simultaneamente la cosiddetta ‘società civile’, quella dove girano i soldi veri, venga santificata moralmente, possa agire senza il pubblico scrutinio, e abbia tutti gli incentivi a investire le proprie competenze a lungo termine.

E poi quando ci troviamo come legislatori Roberta Lombardi o Paola Taverna o Calderoli, ecc. facciamo tanto d’occhi.

Ora, sappiamo tutti che la politica italiana aveva ed ha bisogno di darsi una robusta regolata etica, ma fare del mestiere politico un’attività buona solo per dilettanti spiantati con nulla da perdere mi sembra la classica toppa peggiore del buco.
I politici vanno severamente responsabilizzati, e pesantemente sanzionati quando delinquono o abusano del proprio potere. Ma se vogliamo che una democrazia continui ad esistere, i politici vanno anche pagati e rispettati, altrimenti nessuno si deve fare l’illusione che l’alternativa sarà che a governare sarà “il popolo”: a governare resteranno solo Confindustria, le multinazionali e il Vaticano.

 

6) UNA VERITÀ GENERALE SUL WEB E SULLA SOCIETÀ ITALIANA

Dopo prolungata frequentazione di persone in consessi pubblici e social media sono giunto alla seguente conclusione.
Con rare e commendevoli eccezioni, la stragrande maggioranza delle persone non è in grado di uscire da una logica valoriale binaria.

Questa logica si dispiega secondo il principio: chi non è con me dev’essere contro di me (o chi non è pro X dev’essere contro X). La cosa più importante da capire e dichiarare sembra essere “da che parte stai”.

Ora, finché il gioco è quello di rimpallarsi il medesimo giudizio tra favorevoli e contrari, tutto, a modo suo, funziona.

Se è un giudizio “contra” allora lo si rinforza vicendevolmente ammiccando, aggiungendo a turno palate di merda sull’avversario e ghignando per l’effetto ottenuto.

Se è un giudizio “pro“, lo si rinforza aggiungendo attributi positivi, espressioni di vicinanza e adesioni replicanti ad uno slogan (“Je suis…”).

Ma in tutti i casi dove la logica binaria bene-male, giusto-ingiusto scricchiola, dove fa capolino un giudizio problematico, una chiamata in correo, una pluralità di concause o corresponsabilità, una descrizione in chiaro-scuro, la reazione maggioritaria tende ad essere l’arroccamento.

Ci si crea un’immagine mentale stereotipata di ciò che il Dissenziente potrebbe intendere, ci si carica di sospetti irritanti contro questa immagine e si parte lancia in resta. Dopo di che, una volta partiti, anche se l’evidenza dovesse mettere in crisi l’immagine stereotipata di partenza, oramai ci si è impegnati in una posizione e diviene una questione di orgoglio personale mantenere il punto.

E’ difficile sopravvalutare i danni che questo atteggiamento crea. Gran parte della vicenda politica italiana dai Guelfi vs. Ghibellini a Grillo vs. Renzi è segnata da questo atteggiamento, fondamentalmente incapace di mediazione razionale e disinteressato ad essa.

Da quando seguo la politica ricordo che costantemente i migliori e più convincenti argomenti a favore di una posizione politica finivano per ridursi al fatto che l’alternativa faceva ribrezzo.

La DC faceva schifo a tanti, ma otteneva la maggioranza dei consensi come avversa al PCI, che a sua volta era per lo più identificato con immagini mentali tipo i cosacchi che si abbeveravano nelle acquasantiere di San Pietro. D’altro canto, molti erano consapevoli dei limiti politici del PCI, ma lo votavano perché “la DC faceva schifo”.

Oggi molti sono convinti della pochezza del M5S, ma lo votano perché almeno non è il PD. E molti vedono la tristezza politica del PD, ma lo votano perché almeno non è Grillo.
E così avanti nei secoli dei secoli, giù per lo scarico della storia.

 

7) DEMOCRAZIA

Questo paese ha un bisogno spasmodico che persone autenticamente preparate e oneste (anche intellettualmente oneste) si rimettano a fare politica.

Convengo, è uno sporco lavoro, ma qualcuno lo deve pur fare
(e non tra quelli che non saprebbero fare altro).

——

P.S.: Qualcuno ha ribattuto che “tanto non li eleggerebbe nessuno”.
Già.
Ora, personalmente sono lontanissimo da ogni ottimismo antropologico e dunque condivido senz’altro che sia ben possibile, ed anzi probabile che persone autenticamente preparate ed oneste non vengano affatto riconosciute ed elette.
Però ricordo sempre a me stesso il gramsciano ottimismo della volontà, di fronte al pessimismo della ragione. E dunque non posso non pensare a quanto segue.
In Italia si è innescato un meccanismo sociale che se non interrotto non può che portarci all’auto-annichilimento. L’elettorato (che mediamente sappiamo cos’è) premia nei candidati qualità spesso del tutto superficiali. Al contempo, i migliori tra i potenziali candidati a cariche pubbliche, schifati dal potersi veder superati da persone palesemente mediocri, finiscono per preferire di non perdere il proprio tempo in un gioco che, lungi dal portare prestigio, oramai porta soprattutto discredito. E ciò non fa che lasciare spazio in sempre maggior misura a candidati mediocri, che una volta eletti, contribuiranno a peggiorare la qualità delle aspettative pubbliche e la qualità stessa del popolo elettore.

Il gorgo, e questo dev’essere ben chiaro, finisce, nel migliore dei casi, con un uomo al balcone ed una folla cogliona e plaudente.

 

8) NOTA SULLA DEMOCRAZIA FORMALE E IL SUO FALLIMENTO STORICO

Eventi come la vittoria di Donald Trump credo portino alla luce, un buona volta, il dato di fatto del fallimento della democrazia formale così come abbiamo imparato a conoscerla, nel nostro glorioso occidente democratico,

Il popolo, lasciato a sé stesso, privo di istruzione, ed anzi di fatto incoraggiato a non farsene una, semplicemente non è in grado di esercitare la propria sovranità. Si finisce inevitabilmente per generare un ciclo autodistruttivo in cui le peggiori qualità dei leader vengono premiate, e pessimi leader producono pessime politiche pubbliche, in particolare sul piano culturale, politiche che abbassano ancora il livello del popolo sovrano.

La soluzione? Non ci sono soluzioni semplici, ma comincerei con il prendere in considerazione i seguenti due passi:

1) Introdurre a livello costituzionale (invece che boiate liberiste sul vincolo di bilancio e simili) l’obbligo primario degli stati di occuparsi attivamente ed approfonditamente del raggiungimento di un buon grado culturale (e non meramente tecnico) da parte della propria popolazione. Di ciò dovrebbero far parte interventi come l’educazione permanente dei cittadini (modello adottato in diversi paesi scandinavi) e l’accesso libero ad almeno un paio di testate giornalistiche (scelte dal cittadino da un novero di testate qualificate, non quotidiani sportivi please).  A questo compito degli stati dovrebbe corrispondere un dovere dei cittadini a sfruttare le possibilità di istruzione fornite.

2) Una volta che quanto richiesto dal passo 1) fosse implementato si potrebbe anche procedere ad una restrizione del diritto di voto ai soli cittadini che, con cadenza diciamo quinquennale, si sottopongano ad un esame di cultura generale, comprensione testuale, ed elementare capacità di computo, e siano in grado di superarlo. (Niente di più di ciò che potrebbe rientrare in un esame di terza media, se i programmi fossero presi sul serio.) Sarebbe qualcosa di affine al periodico esame della patente di guida (solo che in tale caso sarebbe una sorta di “patente di guida democratica dello stato”).

Il senso di questo esame naturalmente non sarebbe quello di garantire che chiunque lo passi sia un cittadino intelligente e maturo. Per ciò non ci sono ricette. Neppure una laurea garantisce che chi la possieda non sia ottuso e immaturo. Ma almeno ciò consentirebbe di sapere che un potenziale elettore ha i mezzi di fondo per acquisire attivamente informazioni semplici ed elaborarle, e ciò di per sé sarebbe un incentivo alla classe politica a ridurre gli appelli semplicistici e retorici alle reazioni di pancia e ad aumentare, almeno un po’, il livello argomentativo.

Finché qualcosa del genere non accade è difficile immaginare che il processo di progressivo involgarimento, menzogna, falsificazione del dibattito pubblico abbia termine: l’incentivo a ottenere il plauso delle folle a colpi di battute ad effetto e sputtanamenti dell’avversario è troppo grande.

 

9) IL SUFFRAGIO UNIVERSALE E I SUOI PROBLEMI

Luciano Canfora è un eccellente storico ed uno stimato intellettuale, ma qui

http://www.linkiesta.it/it/article/2016/07/01/luciano-canfora-la-tentazione-dei-liberali-e-togliere-il-voto-alla-gen/31033/

mi pare non cogliere il punto. Il vecchio argomento contro l’estensione indiscriminata del suffragio era legato al timore delle classi più abbienti di perdere il proprio potere, giacché benessere economico e cultura andavano di pari passo.
Oggi tuttavia la situazione è, o dovrebbe essere, molto differente: se fosse vero che il diritto allo studio è tutelato pienamente e ovunque e ad ogni livello (come la Costituzione vorrebbe), allora la richiesta di far votare solo persone culturalmente qualificate sarebbe ragionevole (per quanto la determinazione di quali siano i parametri per stabilire la soglia potrebbe presentare problemi davvero ardui).
In altri termini: una democrazia, prima di sollevare l’istanza di una riduzione degli aventi diritto al voto su base culturale, devo farsi carico di mettere tutti i suoi cittadini nelle condizioni di studiare. E questo, a ben vedere, dovrebbe essere una priorità in una democrazia anche per diversi altri motivi.
Detto questo, se davvero il diritto allo studio per tutti i cittadini fosse pienamente, e non solo formalmente, garantito, la richiesta di una restrizione del suffragio su base culturale e cognitiva sarebbe del tutto giustificata.

 

10) POSTILLA SUL TEMA SOLLEVATO DA LUCIANO CANFORA

Credo sia opportuno riformulare il punto centrale che intendevo sottolineare sopra.

Come alcuni hanno giustamente notato, la premessa
Se davvero il diritto allo studio per tutti i cittadini fosse pienamente, e non solo formalmente, garantito”,
rende l’implicazione
“sarebbe giustificata la richiesta di una restrizione del suffragio su base culturale e cognitiva” un’implicazione politicamente irrilevante, un ‘pour parler’, un’istanza di fantapolitica.
Come i logici ci insegnano, da una premessa falsa può seguire qualunque cosa.

Non fa una grinza.
Ma in effetti, la questione di principio che volevo sollevare non è politicamente sterile, tutt’altro. Non lo è, perché ciò che davvero desidererei è togliere di mezzo, dal discorso pubblico un argomento diffuso quanto pericoloso, che può suonare più o meno così:

“I cittadini, a prescindere da quanto siano acculturati, a prescindere da quanto siano informati o da quale capacità abbiano di interpretare le informazioni, sanno benissimo quali sono i loro interessi, sanno scegliere e il loro voto è per definizione giusto. L’elettorato non è stupido, vivaddio, e chi pretende di ‘educarlo’ è un fottuto paternalista, quando non un criptofascista antidemocratico.”

Ecco, questo argomento, che ha numerose versioni, circola da anni come se fosse un nobile argomento democratico, un argomento di chi sinceramente ama il popolo e lotta per esso contro gli insopportabili elitisti che pensano altrimenti.

Purtroppo, questo argomento è, con rispetto parlando, una pericolosa boiata.
La gente, il popolo, i cittadini, gli elettori, o come vogliamo chiamarli non sanno affatto quali sono i loro interessi nel momento in cui questi interessi sono incarnati in specifiche scelte pubbliche.

La ‘gente’ sa che non vuole i ladri in casa o che non trova posto all’asilo nido o che suo figlio non trova lavoro. Questo sa. Ma non sa per scienza infusa quale nesso c’è tra i ladri, l’asilo o il lavoro, e le cause di questi fenomeni o il nesso tra questi fenomeni e possibili interventi legislativi. Per capire qualunque di queste cose, che sono la totalità dell’attività politica di un governo democratico, ha bisogno di informazione e di capacità culturale e cognitiva di elaborare quell’informazione. Almeno.

Invece blandire il popolo dicendogli quanto è saggio in quanto popolo elettore, che ha il sacrosanto diritto alle proprie opinioni in quanto sono sue opinioni, e che per ciò stesso esse hanno la stessa importanza di chiunque altro, le classi dirigenti dovrebbero avere il coraggio di porre la questione di petto. Infatti questo esercizio di retorica e blandizia consente da decenni alle classi dirigenti di fregarsene del problema della formazione della cittadinanza.

Far credere alla gente che non ha bisogno di sapere nulla per decidere in maniera adeguata è un po’ come quella che si dice essere stata la più grande astuzia di Satana: aver convinto tutti che non esiste.
Le decisioni di inetti che eleggono inetti, si crogiolano nella propria inettitudine, e tacciano chi la pensa diversamente di ‘elitarismo’, ‘paternalismo’, ‘stato etico’, ‘antidemocraticità’, ecc. sono una delle principali piaghe delle moderne democrazie. E sono la negazione del senso del processo democratico.

 

11) UNA MODESTA PROPOSTA
(meno truculenta di quella di Swift)

Riflettendo sulla possibilità di stabilire sistemi elettorali capaci di mettere fuori gioco, o almeno limitare, le chance di vittoria dei demagoghi più sfacciati.

Allo stato attuale si è proceduto un po’ dappertutto a limitare l’efficacia dei voti ‘minoritari’, ritenendo che ciò potesse tagliare fuori gli ‘estremi’, portando al governo le ‘forze responsabili’. Questo è il senso dei collegi uninominali, delle soglie di sbarramento al proporzionale, dei ballottaggi, di tutte le forme di maggioritario.

Solo che l’effetto ‘responsabilizzazione’ non è avvenuto.
Tutt’altro.
Ci ritroviamo con forze politiche che tendono ad ottenere popolarità titillando gli istinti peggiori della popolazione, aizzando la rabbia, estremizzando gli argomenti, scatenando l’odio contro l’avversario dipinto con retorica più o meno offensiva. Il risultato è un confronto tra populismi marcatamente divisivo all’interno del paese (e questa dinamica non è affatto solo italiana).

Per affrontare questo punto un’idea discussa, e criticata, è quella della limitazione del suffragio universale su base culturale. E’ un’idea che personalmente trovo sensata, ma che ha indubbiamente molti problemi.
Forse però si può escogitare un’alternativa più semplice.

Immaginiamo un sistema elettorale in cui l’elettore non abbia un solo voto a disposizione, bensì due.
Un voto positivo, a favore della propria forza politica prediletta, ed un voto negativo, contro la forza politica che ritiene peggiore e più pericolosa per il proprio paese.
Per il resto il voto potrebbe essere un proporzionale classico senza sbarramenti di sorta.

Quale sarebbe l’esito di un voto sotto queste condizioni? A occhio e croce (ma sarebbe utile poter fare delle simulazioni) direi che ciò decreterebbe la fine dell’utilizzo delle argomentazioni puramente ‘contro’, di quelle prodotte solo per aizzare gli animi dei ‘propri’ contro gli ‘altri’. Nelle discussioni pubbliche non sarebbe più il miglior polemista, a prescindere dai contenuti, a prevalere, perché ogni colpo basso sferrato alla ‘controparte’ gli porterebbe non solo simpatie, ma anche pesanti antipatie da parte di chi, simpatetico con la controparte, si sentisse offeso da toni e capziosità degli argomenti stessi. Gli argomenti ‘ad personam’, che regnano incontrastati nelle odierne campagne elettorali tenderebbero a cadere. Venendo a cadere l’efficacia degli argomenti più ferocemente polemici, aggressivi e divisivi, il ceto politico sarebbe spinto all’utilizzo di argomentazioni più oggettive.

Credo che l’effetto netto di un tale sistema elettorale sarebbe di tagliare le gambe al populismo e alla degenerazione personalistica della politica, rasserenando le discussioni. Le forze che emergerebbero come maggiormente premiate, non avendo ottenuto la vittoria a colpi di sberle morali e ridicolizzazione degli avversari, avrebbe più chance di formare coalizioni funzionanti.

Questo potrebbe essere un modo per riqualificare la politica senza passare per una restrizione ‘qualificante’ degli aventi diritto.

 

12) L’ONESTA’ COME CATEGORIA MORALE E POLITICA

http://mimesis-scenari.it/2016/12/17/lonesta-come-categoria-morale-e-politica/

L’appello all’onestà ha sempre trovato qualche spazio nel dibattito politico, ma in Italia esso è diventato tema pressante, e persino preminente, a partire dai primi anni 1990. Le inchieste ricordate sotto il nome di ‘Mani Pulite’ avevano portato alla luce una trama corruttiva sistematica con al proprio centro il finanziamento illecito dei partiti e, collateralmente, svariati arricchimenti privati.

A capitalizzare lo sdegno di allora fu in prima battuta principalmente la Lega Nord, che si fece alfiere di una campagna moralizzatrice ed anti-establishment, e che alle elezioni del 1992 passò da 2 a 80 parlamentari. Molti ricordano ancora il cappio fatto penzolare alla Camera dei deputati dal deputato leghista Orsenigo, che invocava la forca per i malfattori. Così, alle elezioni amministrative del 1993 Democrazia Cristiana e Partito Socialista si ritrovarono ridotti elettoralmente ad un quarto di ciò che erano prima di Tangentopoli; e, alle elezioni politiche del 1994, a incassare i dividendi dello scandalo furono, oltre alla Lega di Bossi, il neonato partito di Silvio Berlusconi, cui riuscì magistralmente di accreditarsi come imprenditore anti-establishment.

Da allora, tuttavia, l’appello moralizzatore all’onestà ha subito alcune interessanti metamorfosi. Esso è trascolorato in appello alla ‘società civile’ in contrapposizione alla ‘casta politica’, e si è convertito in un generale movimento di sfiducia nelle istituzioni pubbliche, accompagnato da privatizzazioni di servizi e riduzione del perimetro dello Stato. Inavvertitamente l’attacco iniziale alla politica disonesta è divenuto attacco alla politica, ricettacolo di disonestà, e poi alla politica come dimensione pubblica tout court, rispetto alla quale l’azione individuale e autointeressata dei privati è stata vista come unico orizzonte percorribile e modello di trasparenza. In pratica, il fallimento morale della classe politica si è convertito in un ridimensionamento della sfera del pubblico a favore del privato.

In questo quadro brilla per la sconcertante assenza di risorse politiche la Sinistra, che ha passato gli anni successivi alla svolta della Bolognina (1989) in un’interminabile e patetica crisi di identità, crisi che ha lasciato orfana di riferimenti politici un’ampia parte della popolazione italiana.

È interessante notare che, in concomitanza con questo trascolorare della spinta moralizzatrice in semplice denigrazione del ‘pubblico’, dinamiche di corruttela diffusa, di finanziamento obliquo della politica, di indistinzione tra interesse privato e interesse pubblico hanno ripreso rinnovato vigore. È in questo quadro che vediamo passare forze come la Lega dal supporto animoso al pool Mani Pulite e dalle veementi accuse di ladrocinio alla politica nazionale (“Roma ladrona”), a dubbie contiguità politica-finanza (caso Credieuronord) e a vicende come il caso Belsito, che portò nel 2012 alle dimissioni di Bossi.

Tra i partiti che hanno tratto dall’appello all’onestà la loro propulsione iniziale merita una menzione particolare l’Italia dei Valori, cresciuta attorno al più noto dei magistrati di Mani Pulite, e finita travolta ingloriosamente da reiterati e devastanti cambi di casacca di suoi parlamentari (De Gregorio, Scilipoti, Razzi, ecc.).

Recentemente, a vent’anni da Mani Pulite, lo scontento e il disgusto della popolazione nei confronti della ‘disonestà della casta’ ha portato alla ribalta il movimento di Beppe Grillo, come nuovo alfiere di una moralizzazione del paese. Il grido “Onestà! Onestà!” reiterato dai politici pentastellati in Parlamento e nei comizi si propone in certo modo come il marchio di fabbrica del movimento. Mentre i programmi politici pentastellati sono stati spesso accusati di vaghezza, quando non di velleitarismo, l’appello all’onestà si è stagliato come un fattore qualificante e univoco. È presto per dire se anche il M5S tenderà a seguire la parabola di allentamento morale che in varie forme ha coinvolto altre forze politiche nate nel nome dell’onestà. Vicende recenti come quella delle firme false alle elezioni comunali in Sicilia sembrerebbero suggerire questa direzione, ma è prematuro formulare giudizi.

Ciò su cui invece è necessario riflettere è sulle ragioni profonde di questa manifesta difficoltà per il ceto politico italiano di preservarsi onesto, anche quando apparentemente mosso da vivido sdegno contro l’altrui disonestà. Si potrebbe qui procedere a richiamare lontane origini culturali, il familismo amorale, il concetto di peccato cattolico piuttosto che protestante, ecc., ma forse è opportuno concentrare lo sguardo su qualcosa di più semplice e più vicino.

Chiediamoci: cosa si intende per lo più nel dibattito politico quando si invoca l’onestà, o si stigmatizza la disonestà? In questo contesto, di norma ciò che viene inteso con onestà è un comportamento che si astiene dal commettere reati, con particolare riferimento all’appropriazione indebita di risorse pubbliche.

Questa concezione dell’onestà è però singolarmente riduttiva. Se prendiamo a caso un po’ di definizioni dai dizionari più diffusi, troviamo che onestà primariamente significa:

  • “La qualità umana di agire e comunicare in maniera sincera, leale e trasparente, in base a princìpi morali ritenuti universalmente validi.”

Oppure,

  • “Qualità morale di chi rispetta gli altri e agisce lealmente verso il prossimo.”

O ancora:

  • “Di chi agisce con rettitudine, con lealtà, con giustizia, astenendosi dal commettere il male; che non inganna, coscienzioso, scrupoloso.”
  • “Comportamento conforme a principi morali giudicati validi; non ispirato a volontà d’ingannare; obiettivo, imparziale, non fazioso.”

E se si va all’etimologia latina si trova una conferma di questo senso comprensivo del termine, che abbraccia le aree semantiche dell’onore, dell’integrità, della lealtà, e anche del decoro.

Curiosamente, nel dibattito pubblico del nostro paese il senso autentico di onestà si ritrova rimosso e inscatolato nella locuzione, un po’ pretenziosa e alquanto marginale, di ‘onestà intellettuale’. Ma in effetti l’onestà ghettizzata nell’espressione ‘onestà intellettuale’ è propriamente la forma fondamentale dell’onestà. Onestà è agire in modo da non creare artatamente vantaggi per sé o per la propria parte; è comportarsi in modo di preservare la pari dignità degli interlocutori, di trattarli con reciprocità; è comunicare in modo sincero, leale, astenendosi dall’inganno e dal trattare gli altri come mezzi per i propri fini.

Ora, avendo davanti agli occhi il senso autentico dell’onestà, forse possiamo comprendere meglio la dinamica che ha condotto e conduce rappresentanti del ceto politico, anche quando hanno fatto dell’onestà la loro bandiera, a scivolare in direzione opposta.

Pensiamo alle giustificazioni sollevate negli anni 1990 da vari personaggi politici coinvolti nella rete corruttiva scoperchiata da Mani Pulite. Una delle giustificazioni canoniche e reiterate è stata quella di dire che “lo avevano fatto per il partito”, per metterlo in grado di competere politicamente. Occasionalmente, quando i magistrati facevano notare a taluni che parte significativa di quanto sottratto gli era rimasto attaccato privatamente alla dita, si giungeva ad una variante dell’argomento: anche i denari di cui si erano appropriati in prima persona erano destinati in ultima istanza alla loro attività politica, magari per finanziare le proprie campagne elettorali future, ecc. Dobbiamo pensare che si trattasse di pura e semplice malafede? Forse sì; ma non è da escludere la sincerità di un tacito ragionamento di questo tipo:

<Siccome il mio partito, o la mia corrente, o invero io stesso, siamo rappresentanti delle ‘idee giuste’, allora ogni mezzo per aiutare l’imporsi del mio partito, della mia corrente o di me stesso è, in ultima istanza, moralmente giustificabile, insomma, onesto.>

Questo tipo di giustificazione fraintende così radicalmente il senso dell’onestà, da rendere concepibile che i rei non abbiano neppure capito come dal ‘fare la cosa (per loro) giusta’ siano potuti passare senza soluzione di continuità a ‘fare una cosa indegna’.

Naturalmente, nel momento in cui reciprocità, equanimità, sincerità, ecc. vengono subordinate all’ottenimento del potere per una parte o un individuo, il passo alla corruzione o al furto vero e proprio è solo questione di tempo e di opportunità. Se attribuisco al mio successo politico più valore rispetto al trattare il prossimo secondo criteri che valgono sia per me che per gli altri (lealtà, obiettività, reciprocità, ecc.), allora ovunque sarà opportuno adotterò l’inganno, la menzogna, la distorsione, il sotterfugio, che si tratti di fondi neri o firme false, di mazzette per me o di ‘favori agli amici’.

L’onestà non è ‘non rubare’. L’onestà è primariamente e fondamentalmente ciò che abbiamo liquidato come ‘onestà intellettuale’.

Chi è disposto a cambiare opinione su qualcosa perché gli fa contingentemente gioco;

chi è disposto a usare qualunque mezzo retorico, qualunque menzogna (o ‘post-verità’) che possa mettere l’avversario in cattiva luce;

chi confonde sistematicamente passione politica con faziosità;

chi pur di farsi dar retta è disposto a manipolare, mentire e distorcere; ecc.

chi fa così è fondamentalmente disonesto, non in senso vago e metaforico. Questa è gente che, quando l’occasione si presenterà, agirà pro domo sua e a scapito degli altri, senza alcuna remora.

In questo senso, sia detto di passaggio, l’odierna classe politica pentastellata mostra un livello di onestà non superiore a quello, già deprecabilmente basso, del ceto politico consolidato.

Non c’è alcun dubbio che la politica italiana abbia bisogno di onestà come i pesci dell’acqua. La disonestà in politica, infatti, implica l’incapacità dei cittadini di fidarsi di ciò che i politici dicono. Ma ciò che i politici dicono è l’essenziale punto di mediazione tra politica e opinione pubblica: in concreto il cittadino non è mai in condizione di sorvegliare l’operato del ceto politico, se non occasionalmente e marginalmente, e dunque il suo legame con chi esercita il potere politico passa innanzitutto attraverso la fiducia in ciò che il politico dice. La sfiducia nei politici è dunque già di per sé la morte della politica, e, incidentalmente, della democrazia.

Tuttavia, sarebbe sbagliato concludere il discorso limitandosi a mettere in croce, una volta di più, ‘i politici’. Anche l’attuale ceto politico non viene fuori dal nulla. In effetti, finché comportamenti faziosi, menzogneri e distorsivi sono esercitati contro la fazione politica avversa, l’elettorato italiano, lungi dallo stigmatizzarli, li apprezza. Il leone da Talk Show che emerge vincitore con battutine ganze e impetuoso vociare, che travolge l’avversario a colpi di denigrazioni o irrisioni, ecc. riceve il plauso dell’elettore ‘informato’, che, lui per primo, subordina l’onestà alla ‘vittoria’. In questo senso, il ceto politico ‘di potere’ è in buona parte il risultato ‘darwiniano’ della selezione prodotta dalla subordinazione popolare dell’onestà alla vittoria.

Ma proprio questo è il punto cruciale.

La tolleranza dei cittadini, e poi degli ‘opinion makers’, dei giornalisti, ecc. per la disonestà in senso proprio (la ‘disonestà intellettuale’) porta con sé fatalmente un processo degenerativo della politica. Il problema non sarà mai, e non può essere, quello di espellere dal dibattito pubblico ogni traccia di disonestà. Sarebbe utopico. Cruciale però è l’espressione della condanna pubblica nei confronti della disonestà – nel suo senso autentico – quando si manifesta palesemente. Così, la faziosità senza remore non può essere trattata come una ‘legittima espressione della passione politica’, proprio no: si tratta di abuso della ragione per fini di bottega, e deve essere stigmatizzata, se intendiamo salvare qualcosa della pratica democratica.

Va infine sottolineata una cosa ricordata più sopra, su cui devono meditare soprattutto le forze politiche che rivendicano una qualche ‘idealità sociale’. La percezione della disonestà politica non colpisce in modo simmetrico ed equivalente tutte le forze e tutte le ‘ideologie’. La disonestà, sfociando in un logoramento della fiducia dei cittadini nella ‘sfera pubblica’, finisce regolarmente per spingere l’orientamento delle aspettative dal pubblico al privato, dall’iniziativa collettiva all’interesse personale, dal senso di una comunità all’orizzonte individualistico. La sfiducia nei rappresentanti politici, percepiti come essenzialmente disonesti (sleali, manipolatori, opportunisti, ecc.) conduce inesorabilmente allo scetticismo nei confronti di ogni appello all’azione collettiva, dunque tende a minimizzare il perimetro dello stato, a delegittimare obblighi come la raccolta delle imposte, in definitiva a immaginare un’esistenza conforme al detto thatcheriano: “La società non esiste, esistono solo individui.”

Ogni politico disonesto è un rintocco funebre per qualsivoglia ideale storico sovraindividuale, è un chiodo sulla bara della ‘comunità’, della ‘società’, dello ‘Stato’.

In ultima istanza, perciò, la disonestà è un problema marginale solo per le prospettive politiche inclini al liberalismo individualista e al liberismo. È invece un problema catastrofico per ogni prospettiva politica che voglia legittimare una dimensione storica e sociale al di là degli individui e del proprio tornaconto.

 

13) SULLA PUBBLICAZIONE DEL ‘MEIN KAMPF’ COME ALLEGATO AL ‘GIORNALE’

Premesso che:

  1. a) penso tutto il male possibile sul piano della qualità giornalistica e dell’orientamento culturale del “Giornale” di Sallusti;
  2. b) l’intento scandalistico-commerciale dell’operazione è tanto scoperto quanto sgradevole;Ciononostante, non trovo niente di sbagliato nella pubblicazione in questione.
    Da quanto ho capito dai resoconti che mi sono pervenuti (non ho avuto l’oggetto in mano) il Mein Kampf viene qui venduto in un’edizione critica commentata, dunque con note critiche che lo contestualizzano e spiegano; esso è inoltre in vendita unito alla “Storia del Terzo Reich” di Shirer (testo di grandissima qualità storiografica, la cui lettura non posso che consigliare).Ora, pensare che ci si sottragga alle abiezioni del futuro ignorando le abiezioni del passato è una delle tesi tipiche dei reazionari di tutte le epoche, nonché una delle tesi più ottuse e meglio confutate che esistano. (Inutile ricordare, credo, come proprio il nazismo sia stato uno dei maggiori rappresentanti di questa opinione, bruciando le opere ‘degenerate’ sulla pubblica piazza.)Sinceramente in questo paese io non mi preoccuperei di chi legge il Mein Kampf, ma di chi, e sono la vasta maggioranza, non legge proprio nulla.

 

14) IL PARADOSSO DEL SORITE, OVVERO IL MISTERO MISTERIOSO DEL TIFO CALCISTICO
(riflessioni di un ex-tifoso)

C’era un tempo remoto in cui le squadre che giocavano nei campionati nazionali erano rappresentanze sportive delle realtà urbane che davano loro il nome. In esse confluivano prevalentemente i giocatori del proprio vivaio. Facile capire come i tifosi potessero identificarsi con i colori della propria squadra, che era a tutti gli effetti una rappresentanza del ‘campanile’.
In Italia negli anni 1910-1920 i ‘trasferimenti’ dei giocatori (dilettanti) avvenivano in forma di trasferimenti lavorativi (il celebre terzino De Vecchi si trasferì dal Milan al Genoa attraverso un trasferimento aziendale, come fattorino.)
Talvolta questi ‘trasferimenti’ di lavoro e residenza venivano facilitati dai presidenti delle società.
Tuttavia i passaggi da una squadra all’altra portavano con sé uno stigma. Il passaggio di Emilio Santamaria (1912) dal Doria (poi Sampdoria) al Genoa venne visto come uno scandalo che portò ad una squalifica pluriennale del giocatore, bollato come ‘traditore’).
Negli anni ’20, tuttavia, si sviluppò già un abbozzo di mercato con il trasferimento di ‘oriundi’ dal Sud America.
Nel dopoguerra, (anni ’50) nasce il calciomercato vero e proprio e in un paio di decenni, secondo le leggi del mercato, cominciano ad emergere valutazioni milionarie (lire) per i trasferimenti dei calciatori. E alla fine degli anni ’70 iniziano ad esserci i primi trasferimenti miliardari. Nel 1980 si riapre il mercato ai giocatori stranieri (ma con limitazioni numeriche severe per diversi anni: 1, 2 e poi 3 al massimo per squadra). I prezzi aumentano ancora, la frequenza delle compravendite pure.

Dagli anni ’90 il mercato si liberalizza a tappe forzate e completamente: i giocatori nazionali e stranieri possono trasferirsi in numero illimitato e più o meno quando vogliono, le squadre maggiori diventano società per azioni quotate sul mercato. Un giocatore può giocare all’andata in una squadra e al ritorno nella squadra avversaria, il tutto sulla base di un’ordinaria attività di compravendita.
Naturalmente, come sempre accade quando si tratta di mero business si succedono in un crescendo frenetico scandali che rivelano accordi per concordare i risultati delle partite (il primo scandalo scommesse è del 1980, poi nel 1986, 2011, 2015).

L’altro giorno per la prima volta nella partita Inter-Udinese in campo nessuno dei 22 giocatori titolari era italiano. Intanto sulle tribune il magnate indonesiano Thohir esponeva la merce (Inter) per l’acquisto da parte di investitori cinesi.

E tuttavia, bizzarramente, i tifosi continuano a sgolarsi allo stadio, e occasionalmente a randellarsi a sangue, per le sorti del ‘proprio’ club.

Ecco, a me sembra che questo sia un fenomeno sociologico degno di nota, un fenomeno che rivela gli infiniti margini di inganno ed autoinganno cui gli umani possono essere assoggettati.

Il paradosso del Sorite è un paradosso filosofico noto, che suona più o meno come segue: prendiamo un mucchio di sabbia; se togliamo un granello di sabbia al mucchio esso resta evidentemente un mucchio. E così anche se ne togliamo due o tre. Ma se continuiamo a togliere granelli, alla fine possiamo rimanere con un solo granello. Dobbiamo dire che è ancora un mucchio? E se non è così, quando si è passati dall’essere un mucchio a non esserlo?

Per il tifo calcistico sembra essere la stessa cosa. Il tifo parte come identificazione campanilistica con la squadra, ma progressivamente pezzo per pezzo tutto ciò che rappresentava in qualche forma un aggancio alla realtà urbana della squadra è sparito. Resta però un simulacro vuoto costituito da nome e forse il colore delle maglie, al di sotto del quale di muove un’attività di mercato, un mercato tra gli infiniti altri. Eppure questo simulacro vuoto continua ad essere oggetto di dedizione appassionata.
Un tifoso oggi è come qualcuno che si appassioni violentemente di fronte alla conquista comparativa di quote di mercato tra varie marche di shampoo in concorrenza. Peraltro, essendo egli stesso calvo.

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