Pillole di filosofia della storia corrente (Transcripts FB)

1) LA PATOLOGIA OCCIDENTALE

In un bell’articolo sull’Espresso di qualche tempo fa (“Avanti tutta, verso il passato”) il giornalista Marco Pacini proponeva una diagnosi impietosa quanto realistica di ciò che ci attende nell’anno in corso (2017). La tendenza storica corrente appare all’autore all’insegna di una sorta di “grande rinculo”, di retromarcia forzata all’affannosa ricerca di valori identitari, di “radici ancestrali”, “nazionalismo, razzismo, protezionismo, rigurgiti teocratici”, ecc.

L’analisi svolge molte considerazioni che qui non riprendo e che lascio alla lettura diretta dell’articolo, reperibile in rete.
C’è però un punto d’analisi che mi pare cruciale e che mi pare richieda una lettura diversa.

Il taglio scelto nell’articolo sembra propendere verso una sorta di lettura ‘psicologica’ della fase storica. Ci trovereremmo di fronte ad una specie di pendolo nostalgico della storia, una ‘fase di riflusso’, come una sorta di alternanza sonno-veglia, attività-riposo, o se vogliamo, di fase depressiva che segue una precedente fase maniacale.
Dopo un periodo innovativo staremmo ora vivendo un periodo psicologicamente complementare in cui le coscienze occidentali si rifugiano in una dimensione ripiegata e conservatrice.

Questa lettura non mi convince e temo veicoli una forma di fatalismo non necessario.

Più che ricorrere alla sfera psicologica mi pare sia necessario richiamare un punto antropologico fondamentale.

La ricerca dell’identità, il tentativo di radicarsi in una tradizione e in una comunità, non sono tratti accidentali, contingenze umorali della psiche umana. Si tratta di forme di vita essenziali, forme in cui gli esseri umani prosperano, ed in mancanza di cui appassiscono.
Il presente ‘riflusso’ o ‘rinculo’ storico non è un accidente psicologico, ma l’acquisizione di spessore politico di una ‘coscienza infelice’ maturata almeno negli ultimi cinquant’anni e generata dall’egemonia di istanze liberali nella società, liberiste nell’economia, e globalizzanti nelle relazioni transcomunitarie.

Non si tratta di un processo psicologico ordinario, ma di un processo antropologico straordinario, che ha un solo drammatico antecedente, nella storia europea degli anni che vanno dal 1870 al 1914 circa, antecedente che sfociò nel più massiccio ritorno ad istanze identitarie, tradizionaliste, comunitarie, degli ultimi secoli (e che, come noto, prese tragicamente forma xenofoba e sciovinista prima, e bellica infine).

Ciò che c’è di patologico e potenzialmente drammatico nel ‘riflusso’ odierno non sta né nella ricerca identitaria, né in quella della protezione economica rispetto ai marosi del libero mercato, né nel tentativo di radicamento, né nelle istanze comunitariste, e neppure nell’attenzione alla tradizione.

Tutto ciò è semplicemente umano, ed è solo la drammatica povertà dell’antropologia liberale ad aver rimosso tutto ciò, interpretando l’uomo come individuo, come un ‘eroe solitario’ guidato da razionalità economica e sogni privati. Non è puntando i piedi contro questi processi, o vagheggiando una qualche riscossa liberaldemocratica che potremo evitare gli sviluppi più minacciosi delle tendenze attuali (incidentalmente, gli stessi che hanno dato così tragica prova di sé all’inizio del secolo scorso).

Invece che pensare alla storia nella forma di un’alternanza ciclica dovremmo forse ricordare la lezione dialettica: non un pendolo tra opposti inconciliabili, ma un superamento (Aufhebung) che faccia proprie le istanze di identità, tradizione, radicamento, comunità senza porle come alternativa polemica alla libertà e al diritto degli individui.

Sciaguratamente la nescienza delle attuali classi dirigenti occidentali, il convenzionalismo liberaldemocratico degli intellettuali più ascoltati, e i processi economici globali stanno invece ricreando esattamente, una volta di più, le condizioni che trasformeranno profonde istanze umane in articolazioni di un nuovo processo distruttivo: xenofobo, nazionalista, sciovinista, razzista, ed in ultima istanza, temo, anche bellico (con nemici ancora tutti da eleggere).

 

2) POPULISTI, FIGLI NOSTRI (da “L’Espresso”)

L’elezione di Donald Trump alla presidenza USA, insieme alla Brexit e alla crescita di movimenti populisti in tutte le democrazie occidentali, è stata letta da più parti come un segnale di crisi democratica. Il problema qui non sta nell’orientamento politico di questo o quel movimento, che potrà essere gradito a taluni e avverso a talaltri, com’è giusto sia in una democrazia. Al di là della collocazione politica, il problema sta nella natura virulentemente demagogica di queste forze, dove argomenti ed analisi hanno da tempo lasciato il terreno ad una gara a contendersi la ‘pancia’ dell’elettorato. Ciò che accomuna queste forze non è un contenuto, ma uno stile. Esso consiste nel far balenare l’esistenza di soluzioni semplici a problemi complessi, soluzioni tratteggiate con frasi tranchant, parabole edificanti e blandizie rivolte alla ‘gente’. Il tutto alimentato da stilemi popolari che vanno dalla battuta di spirito all’uso del ‘politicamente scorretto’, per accreditarsi come ‘parte del popolo’. Che persino a un noto multimiliardario conservatore come Trump sia riuscito il giochino dell’accreditamento presso il popolo segnala un processo storico oramai giunto ad una sua preoccupante maturazione.

L’ascendente onda populista è però tutto meno che un fulmine a ciel sereno. Sta qui maturando un processo che è in moto da tempo, un processo cui hanno contribuito anche forze che oggi si stracciano le vesti davanti al populismo montante. Molte di queste forze sono state semplicemente superate in quello stesso gioco da chi era disposto a perseguirlo in modo più spregiudicato. Nel nome della ricerca di una doverosa ‘sintonia con il popolo’, chi più chi meno, tutte le forze politiche hanno alimentato un dibattito pubblico a colpi di slogan, attacchi personali, battute ad effetto, sotterfugi dialettici, distorsioni retoriche, semplificazioni fuorvianti. E chi non ha accondisceso a questi stilemi è risultato perdente in questa competizione verso il basso.

Ora, l’interrogativo, angosciante ma indifferibile, è se questo processo non segnali un problema strutturale del meccanismo democratico in quanto tale. Dopo tutto, anche se alcuni paesi hanno pensato persino di ‘esportare la democrazia’ – confidando nelle arti persuasive dei mortai –, la democrazia del suffragio universale è un esperimento storico piuttosto recente, nonché ampiamente minoritario nella storia umana.

Ora, il meccanismo che sembra essersi instaurato nelle democrazie occidentali da una quarantina d’anni almeno, può essere descritto come una competizione al massimo ribasso, dove la necessaria ricerca dell’approvazione della maggioranza è divenuta in modo crescente ricerca del plauso e della persuasione purchessia. Questo meccanismo ha trovato amplificazione in tre fenomeni distinti: l’imporsi della cultura dell’immagine (dall’avvento della televisione in poi), la crescita della complessità reale del mondo moderno, e infine, il paradossale decremento delle competenze formative nella popolazione in generale. Sull’avvento della cultura televisiva, con la tendenza a uccidere i tempi di riflessione, è stato già detto tutto. Meno ovvio è l’effetto combinato degli altri due elementi. In primo luogo, la crescita delle comunicazioni e della globalizzazione economica hanno reso il mondo molto più complicato di come poteva apparire nel 1920 o nel 1945. Effetti indiretti, preterintenzionali, e originati a distanza sono la norma, non l’eccezione, nel mondo contemporaneo. Per dire, remote decisioni nella deregolamentazione del settore finanziario americano stanno all’origine della crisi dei mutui subprime, che ha poi travolto, come un cataclisma naturale, decine di milioni di ignare famiglie europee. Oggi percepire un problema come problema raramente implica avere idea di cosa si possa fare per risolverlo. In secondo luogo, questo incremento di complessità, è stato affrontato dagli stati democratici con un’attenzione decrescente alla formazione della cittadinanza (cioè alla capacità di giudizio di chi detiene la sovranità). Nel migliore dei casi ci si è concentrati sull’acquisizione di ‘basic skills’ spendibili sul mercato. Come noto, l’analfabetismo funzionale è divenuto un problema serio in molti paesi occidentali – Italia in testa, con il suo orgoglioso primato del 41% di popolazione in condizioni di minorità cognitiva. Ma anche dove non ci si trovi di fronte a forme conclamate di incapacitazione culturale, la formazione necessaria a seguire discorsi anche modestamente astratti è tendenzialmente bassa e decrescente. Sotto queste premesse nell’agone politico le battaglie si sono combattute mirando al minimo comune denominatore, a ciò che ‘tutti possono capire’, incentivando così la proliferazione di leoni da Talk Show, candidati fotogenici, spot pubblicitari e tutto il costoso strumentario del marketing elettorale. Questa tendenza è da tempo sotto gli occhi di tutti.

E a chi ha provato a mettere in guardia contro di essa, il ceto politico occidentale ha imparato a rispondere secondo un canone accreditato, uno schema dove spontaneismo sessantottardo, lasciafarismo liberista e anti-intellettualismo ecclesiastico si sono trovati d’accordo. Il canone è consistito nel tacciare di ‘paternalismo’ chi richiamava la necessità di ‘educare il popolo’; poi nel santificare l’istintiva ‘saggezza del popolo’, che “magari-non-saprà-esprimersi-ma-sa-cosa-vuole”; e infine nel proclamare d’ufficio l’avvedutezza dell’elettore, che, come il cliente, per definizione ha sempre ragione.

Questa spazzatura demagogica, che accomuna culture altrimenti molto diverse come quella nordamericana e quella mediterranea, è stata ripetuta infinite volte, fino a diventare senso comune. Purtroppo, però, non esiste alcun miracolo che traduca la competenza nelle relazioni quotidiane in competenza nella valutazione di processi complessi. E constatarlo non è elitismo, ma puro e semplice realismo. Non è qui lo spazio per proporre soluzioni, anche se curarsi della formazione ed informazione, qualificata e permanente, del ‘popolo’ dovrebbe essere un’ovvia priorità per qualunque democrazia che voglia dirsi tale. Quali che siano le soluzioni percorribili, l’unica cosa che non si può fare è continuare a raccontarci fiabe consolatorie. Le democrazie hanno un problema, e non è un problema contingente. Se si vuole prendere sul serio l’idea dell’autogoverno del popolo, bisogna abbandonare finzioni hollywoodiane sull’‘intelligenza emozionale’ e la ‘saggezza del cuore’. Il buon senso che poteva funzionare in tribù e villaggi non funziona più in società aperte transnazionali. Chi ha a cuore la democrazia deve guardare il problema in faccia. L’alternativa è lasciarla in mano a proprietari di tabloid, a miliardari o istrioni. Occasionalmente a tutte queste cose assieme.

 

3) L’IDENTITÀ OCCIDENTALE E I SUOI NEMICI

http://mimesis-scenari.it/2015/03/13/lidentita-occidentale-e-i-suoi-nemici/

  1. La chiamata alle armi

A commento dell’attentato a Charlie Hebdo sulla prima pagina del Corriere della Sera del 10/01/2015 campeggiava un articolo del noto editorialista Piero Ostellino, dal titolo “Il buonismo che ci accieca”. Secondo l’autore l’Occidente (e l’Italia in particolare) soffrirebbe di “un’identità ambigua e compromissoria”, e il nostro “buonismo retorico, politicamente corretto” sarebbe incapace di guardare la realtà, portando solo a “patetiche invocazioni al dialogo”. I responsabili di questa nostra identità fragile e inetta di fronte all’aggressività teocratica dell’Islam sarebbero innanzitutto una “sinistra che non sa e non vuole darsi un’identità” e, in seconda battuta un “Papa pauperista”, che, si inferisce, non farebbe quanto in suo potere per difendere la nostra identità. Il messaggio di fondo lo si trova riassunto verso la chiusa del pezzo: “Non siamo noi che dobbiamo riscoprire le nostre radici. Sono loro che devono rinunciare alle loro.

La posizione di Ostellino, peculiarità stilistiche a parte, non è affatto idiosincratica. Pur giocando su toni che vogliono apparire ‘contro corrente’ si tratta di una posizione per certi versi esemplare di un orientamento culturale da tempo crescente, e non solo in Italia. Una variazione del medesimo tenore argomentativo possiamo trovarla, ad esempio, nelle pagine di Giuliano Ferrara (Il Foglio, 05/09/2014), per cui la tremula identità occidentale si manifesterebbe nella sua “tenerezza e misericordia”, e nelle sue “nevrosi leopardiane e pasoliniane”, a cui si contrapporrebbero nell’Oriente islamico “giustizia e violenza purificatrice”, “più sesso, matrimonio, figli e coltelli seghettati”. E per essere all’altezza di questa sfida, che a Ferrara appare senz’altro sotto la specie della guerra di religione, andrebbero rigettati esangui richiami allo “stato di diritto”, alla “polizia internazionale”, alla “denuncia della violenza”. Al contrario “l’unica risposta” starebbe nel reagire con “una violenza incomparabilmente superiore”.

Al netto della retorica provocatoria, questi autori si iscrivono in una posizione politica di grande successo in Occidente, che possiamo chiamare ‘liberismo tradizionalista’: essa abbina istanze liberiste sul piano socioeconomico a rivendicazioni identitarie forti, legate ad istanze tradizionali come la nazione, la religione, la famiglia, ecc. Non è difficile trovare nei nostri editorialisti la versione in sedicesimo di quell’abbinamento politico vincente tra liberismo economico e tradizionalismo sociale di cui personaggi come Thatcher o Reagan sono stati alfieri. È importante però comprendere bene il senso e la portata di questa posizione politica.

 

  1. Nobili antecedenti

Leggendo quegli editoriali, vista anche la ricorrenza del centenario, è difficile non richiamare alla mente le celebri invettive di molti intellettuali alle soglie dell’ingresso nella Prima Guerra Mondiale. Penso al Papini che inneggiava alla guerra come a un “caldo bagno di sangue nero dopo tanti umidicci e tiepidumi di latte materno e di lacrime fraterne”, guerra che saremmo chiamati ad “amare con tutto il nostro cuore di maschi”. O magari a Filippo Corridoni, per cui il tema dell’intervento o meno in guerra, veniva risolto dal lapidario: “La neutralità è da castrati”.

Al netto delle numerose differenze tra il contesto odierno e quello di cent’anni fa vi è un nucleo comune, che va compreso: si tratta dell’idea che un’identità solida ed ideali degni possano propriamente esistere solo quando difesi aggressivamente, con virile durezza, refrattaria ad ogni molle mediazione. Il dispregio del ‘buonismo’ non è una prerogativa dei giorni nostri. Si tratta di una costante che riemerge puntualmente nelle generazioni che nel corso della loro vita hanno conosciuto solo la pace. Oggi, come sulle “Riviste fiorentine” prima del 1915, il buonismo è tedioso e stucchevole, mentre il ‘cattivismo’ è ardito e ‘cool’.

Nelle posizioni di Ostellino, Ferrara & Co. echeggia inoltre un tema che fu centrale alle soglie della Prima Guerra Mondiale, il tema dell’identità. Allora esso fu giocato in termini nazionalisti e sciovinisti. Nella versione odierna invece si gioca sul contrasto tra un’identità islamica, che sarebbe vigorosa e fiorente, ed un Occidente dall’identità infiacchita. È a causa di quest’identità illanguidita che non saremmo in grado di rispondere all’Islam con un virile ricorso alla legge del taglione, perdendoci invece in patetici tentativi di ‘dialogo’. Diversamente da cent’anni fa l’identità invocata non sarebbe un’identità nazionalista, quanto piuttosto ‘cristiana’ e ‘liberale’.

Ma, chiediamoci allora: siamo davvero di fronte ad un logoramento dell’identità occidentale? Se sì, in che senso? E come identificare i nemici di tale identità?

 

  1. Digressione filosofica: elogio e portata dell’identità

È un dato di fatto che i valori identitari siano stati realmente sottovalutati, quando non osteggiati, nella visione prevalente tra i ‘progressisti’. Questa diffidenza, diffusa nella riflessione di sinistra e liberaldemocratica, è comprensibile nella misura in cui i richiami identitari, nella storia più o meno recente, hanno avuto spesso connotazioni nazionaliste, razziste e scioviniste.

Tuttavia il tema dell’identità è inaggirabile sul piano etico. La possibilità di identificarsi in qualche misura con istanze, idee, progetti e realtà che travalicano la nostra esistenza finita di individui è una pulsione morale fondante. Chi davvero rigettasse ogni forma di identità sovraindividuale rimarrebbe schiacciato sul proprio presente privato, precludendosi l’accesso a tutto ciò che rende speranze e azioni storiche dotate di senso. Beninteso, ‘identità’ non è un concetto monolitico: noi abbiamo tante identità possibili quanti sono gli attributi che ci identificano. Possiamo nutrire le nostre identità di letterati, musicisti, italiani, credenti, europei, filosofi, socialisti, interisti, cinefili, cinofili, ecc. Sostenere un’identità sovraindividuale non significa dissolvere la propria identità individuale in un monolite onnicomprensivo quanto astratto.

Proviamo brevemente ad esaminare meglio il concetto di identità, nel senso dell’azione storica. È utile distinguere tra un’identità formale ed un’identità materiale.

L’identità formale consta dell’adesione a certi tratti esteriori, o certe regole, semplicemente perché essi sono condivisi dal nostro gruppo di appartenenza. Dal taglio dei capelli, agli indumenti, al rispetto di norme comportamentali tacite o scritte, tutto ciò conferisce un’identità, che però passa perlopiù inavvertita da chi la incarna. Nel mondo occidentale il ruolo giocato dalle tradizioni formali, tra cui la sfera delle regole istituzionali, è comparativamente più ampio che in ogni altra società storica. La cultura occidentale ha introdotto mediazioni impersonali in relazioni che altrove erano (o sono) lasciate all’accordo o conflitto personale. Così, per dire, la vendetta e la rappresaglia hanno lasciato il posto al diritto affidato a giudici terzi; la legge deve applicarsi impersonalmente, a prescindere dalla stima o meno per l’imputato; lo stato si incarna in un corpus di regole istituzionali (Costituzione) e non nella persona del sovrano, ecc. Questo ‘formalismo’ delle relazioni ha ragioni profonde e se ne potrebbero mostrare i vantaggi pratici rispetto ad alternative più intuitive (la faida, il rapporto personale col giudice, la venerazione del sovrano, ecc.). L’identità formale è però ‘emotivamente fredda’: tacita ed inavvertita. Salvo in un caso: la sfera identitaria formale diviene saliente quando viene esplicitamente sfidata. ‘Tolleranza’ e ‘libertà d’espressione’ erano formule retoriche fino ad un minuto prima dell’attacco a Charlie Hebdo, divenendo salienti un istante dopo.

Da tutto ciò segue che una civiltà che conoscesse solo un livello di appartenenza identitaria formale sarebbe destinata a percepirsi e riconoscersi soltanto nella forma della sfida e del contrasto.

Tuttavia in ogni società, e quella occidentale non fa eccezione, esiste un’identità materiale. Di un’identità materiale fa parte tutto ciò che di bello, buono, giusto e vero apprendiamo, e attivamente perseguiamo, nelle nostre vite. Dell’identità materiale dell’Occidente fanno parte Bach quanto i Beatles, Newton come Galileo, il Rinascimento come l’Impressionismo, Socrate e Gesù Cristo, Monteverdi e Brahms, il Cognac e il Chianti, ecc. Questo è un piano identitario ‘caldo’, dove la partecipazione di ordine emotivo-affettivo trova spazio e che non ha bisogno di alcuna opposizione o sfida per trovare riconoscimento.

 

  1. I nemici dell’identità occidentale

Chiediamoci ora, ripensando ai nostri valenti editorialisti: cosa rappresenta davvero una minaccia identitaria?

In prima battuta ci sentiamo naturalmente minacciati in senso diretto da aggressioni e intrusioni che supponiamo plausibili. A seconda di come gira il vento mediatico ci possiamo fare l’immagine minacciosa dell’attentato islamico, ma anche di una guerra atomica in Ucraina, di un’effrazione in appartamento, di una sparatoria mafiosa, ecc. Ma tutto ciò, pur essendo davvero temibile, non mette di per sé in campo questioni di identità.

Tuttavia alcuni di quegli eventi minacciosi possono essere interpretati secondo chiavi di tipo identitario. Possiamo così leggere un attentato come un’istanza di “teocrazia che sfida la democrazia” o di “sharīʿah che aggredisce lo stato di diritto”, o senz’altro come attacco dell’Islam al Cristianesimo, ecc. Si tratta, si noti, in tutti questi casi di interpretazioni collocate sul piano dell’identità formale, inclusa la presunta sfida dell’Islam al Cristianesimo. Infatti, per quanto a molti piaccia agitare lo spettro della guerra di religione, nessuno dei contenuti caratterizzanti del messaggio cristiano o coranico, nessun contrasto dottrinale, è o è stato mai, a tutt’oggi, oggetto di rivendicazione. Di fatto Islam e Cristianesimo sono usati da entrambe le parti come stendardi, strumentali a definire un’identità formale.

Ma sono queste realmente minacce alla nostra identità formale? Agli ordinamenti dello stato di diritto, o delle costituzioni democratiche, o della libertà di culto, ecc.? Un momento di riflessione a mente fredda basta a palesare queste minacce come risibili. Nessuno davvero crede neanche per un momento che l’Occidente verrà convertito a colpi di attentati ad adottare la sharīʿah.

E tuttavia, forse una seria minaccia alla nostra identità, e più precisamente alla nostra identità materiale, sussiste per davvero. In effetti, quando veniamo a sapere che più di 3000 cittadini europei si sono arruolati nelle fila dell’Isis, qui sembra che il tema di una fragilità dell’identità occidentale sia effettivamente in campo. A maggior ragione se supponiamo, fondatamente, che l’area dei simpatizzanti sia ben più ampia di quella dei combattenti. Ma a quale livello si troverebbe qui il problema identitario? Di primo acchito, sembrerebbe che in questo caso il problema identitario stia a monte piuttosto che a valle: non gli atti bellicosi dei foreign fighters minacciano la nostra identità, quanto piuttosto un problema della nostra identità motiva i foreign fighters. Sia come sia, per i rappresentanti del liberismo tradizionalista, come gli editorialisti di cui sopra, si tratterebbe di rispondere ergendo orgogliosamente le bandiere del tradizionalismo sociale e della ‘libertà economica’: da un lato levare alti gli stendardi della ‘famiglia tradizionale’, della ‘religione tradizionale’, dei ‘costumi tradizionali’, e dall’altro rivendicare la libertà occidentale come libertà di transazione e contratto.

Ora, però, qui sorge una domanda che non possiamo ulteriormente rinviare. In che senso i 3.000 foreign fighters rappresenterebbero precisamente una criticità dell’identità occidentale, mentre, per dire, un numero decine di volte superiore di hooligans europei (come i 5.000 recentemente radunatisi a Köln, nel nome della lotta all’Islamismo) non segnalerebbero una crisi dell’identità occidentale? O, similmente, in che senso nelle periferie delle città europee gli immigrati rappresenterebbero una minaccia identitaria, mentre gli altrettanto numerosi gruppi neonazisti o neofascisti, che quegli immigrati vogliono cacciare, non andrebbero conteggiati tra i segni di crisi dell’identità occidentale?

In verità ciò che differenzia hooligans e foreign fighters, neonazisti e stranieri emarginati è molto meno di ciò che li accomuna.

Ciò che li differenzia sono le bandiere di identità formale sotto cui accidentalmente prediligono riunirsi: che si ritrovino sotto lo stemma della croce uncinata o della bandiera nera dell’Isis, con addosso i tatuaggi del fascio littorio o quelli della simbologia esoterica delle gang di ‘latinos’, si tratta sempre comunque di gusci vuoti. Chi si prenda la briga di chiederne le motivazioni ai diretti interessati trova una verniciatura di istinto aggregativo con sotto il nulla.

Ciò che li accomuna, tuttavia, insegna davvero qualcosa a tutti noi. Essi sono accomunati dall’essere da sempre e, plausibilmente, per sempre, estranei ai contenuti che definiscono l’identità materiale dell’Occidente. Essi ne vedono da lontano le manifestazioni, Musei e Teatri, Biblioteche e Scuole, Palestre e Club, Chiese ed Università, come potrebbe fare una tribù esotica: con timore, sospetto e disprezzo. Sono fortemente sensibili ed esposti alle sollecitazioni delle loro identità formali (gesti, simboli, tatuaggi, rituali) proprio perché le loro identità materiali sono sottili fino all’annullamento. Sono estraniati e si sanno estranei.

Ma in effetti hooligans, foreign fighters, gangs, così come la varia umanità degli emarginati delle periferie sono solo la manifestazione più palese di qualcosa che riguarda, a livelli variabili, tutti i cittadini occidentali, non solo quelli economicamente deprivati. C’è davvero un senso in cui l’identità occidentale si va svuotando. Solo che non si tratta di qualcosa cui si possa rispondere con chiamate alle armi e richiami tradizionalisti. L’estraniazione degli esclusi è solo l’aspetto più manifesto di una tendenza ben nota e più generale.

Società basate eminentemente sulle relazioni astratte del libero mercato, in assenza di compensazioni, generano sempre pressioni verso la strumentalizzazione di ogni valore culturale, verso la subordinazione dei contenuti alla loro capacità di muovere denaro, o, nel migliore dei casi, verso fruizioni culturali effimere, che non richiedono alcun dispendio di risorse per prepararne la fruizione. L’estraniazione culturale degli esclusi è solo il caso limite di un processo ordinario, un processo che richiede costantemente che sempre più risorse umane vengano impegnate nella riproduzione di sempre più risorse economiche. I ‘perdenti’ in questo processo non hanno le risorse economiche per sviluppare le proprie risorse umane. I ‘vincenti’ nello stesso processo invece erodono le proprie risorse umane (tempo e capacità) nel tentativo di conservare l’accesso alle risorse economiche.

L’idea che scuola ed istruzione debbano essenzialmente produrre produttori, e non cittadini, è una manifestazione esemplare di questo processo. Che poi i cittadini non si sentano più affatto membri di alcunché e, nel migliore dei casi non vadano a votare, nel peggiore sparino sui vignettisti, sta nel prevedibile ordine delle cose. Ma ciò naturalmente non riguarda solo l’istruzione in senso stretto. In una società che privilegia le relazioni di mercato, ogni valore sociale condiviso, ogni contenuto bello, buono, vero o giusto ha sopra un cartellino del prezzo (come costo reale e come costo-opportunità), e chi non può pagare quel prezzo non accede a quei valori. In tutte le città occidentali per ogni cittadino che può (e sa) apprezzare, ad esempio, l’Opera o il Teatro di Prosa ve ne sono 50 che non ne hanno mai avuti i mezzi (formativi, economici o entrambi); e tutti questi, chi più chi meno, finiscono per guardare a quella sfera culturale con sospetto, se non con disprezzo. Quanto minori le risorse (umane ed economiche) disponibili, tanto più queste disposizioni si esacerbano, ampliano ed estremizzano.

In questo quadro possiamo apprezzare la collocazione storica del liberismo tradizionalista, in tutte le sue declinazioni.

Esso da un lato promuove la sistematica mercificazione di valori sociali, relazioni, tempo, risorse umane, e così facendo alimenta la costante erosione dell’identità materiale dell’Occidente. Dall’altro si spaccia come terapia della distruzione identitaria che ha indotto, inneggiando ai simboli dell’identità formale, del tradizionalismo più vuoto e ottuso, nel nome dei ‘valori occidentali’.

I rappresentanti del liberismo tradizionalista, tra gli intellettuali come tra i politici, si trovano così nell’invidiabile e virtualmente invincibile posizione di chi si propone, alla luce del sole, come baluardo contro i danni che egli stesso, nell’ombra, provoca. Essi continuamente rivendicano quelle ricette socio-economiche disgreganti che conferiscono plausibilità alle proprie ricette culturali reazionarie.

In conclusione, siamo ora in grado di rispondere alla domanda di cui sopra, circa dove si possano trovare i principali nemici dell’identità occidentale: essi sono nascosti in piena luce, dissimulati dall’apparire come i più rabbiosi avvocati di quell’identità stessa.

 

4) SENSI DI COLPA FUORI LUOGO

In questi giorni, dopo gli attentati di Parigi, si sono sprecate in rete considerazioni di questo tipo: “Ecco, voi cittadini europei ipocriti, sepolcri imbiancati, tutti qui a piangere i morti di Parigi, ma dove eravate quando questo succedeva a Beirut, o a Mogadiscio, o a Baghdad, ecc.”
La conseguenza che se ne trae è sempre molto diretta: la vostra emozione, il vostro sdegno, sono essenzialmente finzioni o ipocrisie, in ogni caso non sono niente da cui trarre alcuna giustificazione morale.

Ora, questa considerazione è una sciocchezza, ma una sciocchezza che richiede un po’ di riflessione per essere smascherata.

Il pensiero che implicitamente sottostà a questo tipo di giudizio è qualcosa del genere: “Tutti i morti sono eguali, dunque non può essere davvero la morte di qualcuno a muovere lo sdegno o la rabbia, bensì qualche altra leva motivazionale (manipolazione mediatica, falsa coscienza, ecc.).”

Questo ragionamento però confonde due cose toto coelo differenti.
Pensare che i morti siano tutti uguali è solo una bella illusione liberale, ed è un’asserzione che è ovviamente priva di senso, e che tutti sanno essere priva di senso. Qui si fa confusione tra il piano del riconoscimento di diritti formali e il piano motivazionale ed empatico.

E’ solo sul piano del riconoscimento di diritti formali che noi possiamo dire, e giustamente diciamo, che ogni vita umana ha eguale dignità e che dunque ogni morte ha eguale valore. Questo è un principio ideale, la cui universalità è molto utile per costruire accordi capaci di vincolare collettività di persone in astratto. Documenti come la carta universale dei diritti dell’uomo assumono questa visione come sfondo doveroso.

Tutto ciò va benissimo e ha la sua funzione, ma ciascuno di noi sa perfettamente che persino la morte del cane di famiglia conta infinitamente di più sul piano affettivo ed empatico di quella di un anonimo essere umano all’altro capo del globo. L’affettività, l’emozione, l’attaccamento, l’empatia se ne fregano altamente dei vincoli formali di giustizia ed equanimità.

Ed è giusto che sia così, e sarebbe disumano pensare che possa essere altrimenti.

La capacità di immedesimazione non dipende da astratti giudizi di appartenenza ad una specie biologica (homo sapiens), ma dalla capacità di correlare il soggetto che consideriamo con noi stessi; e dunque con le cose che ci sono care, i valori che onoriamo, i modi di vita che riconosciamo come nostri, i gesti, gli atteggiamenti, i costumi in cui ci ritroviamo. Le sorti di persone che ci sono personalmente care sono portatrici di maggiore carica affettiva rispetto a quelle di persone ignote, e le sorti di persone che presentano tratti comportamentali e valoriali per noi riconoscibili sono portatrici di maggiore potenziale empatico rispetto ad altri esseri umani in astratto (co-soggetti formali).
Naturalmente può magari bastare un’immagine o il racconto di una storia ad avvicinarci emotivamente persone che prima erano semplicemente numeri, ma questo non deve far pensare che quella pulsione era già sempre presente, già sempre ‘disponibile’, solo coperta o rimossa. Quella pulsione empatica viene ‘creata’ dal nulla, e per la prima volta, nel momento in cui l’immagine e la storia mi vengono raccontate (e valgono quanto la veridicità o verisimiglianza di quell’immagine e quella storia).

Non c’è nessuna ipocrisia e nessun doppiopesismo etico: per ciascuno di noi, emotivamente, da sempre e per sempre, non tutti gli uomini sono uguali e l’onere della prova di spiegare che le cose starebbero diversamente è nelle mani di chi ritiene che così non debba essere.

 

5) ICONOCRAZIA

Due giorni fa l’immagine di docce usate per rinfrescare i visitatori all’ingresso di Auschwitz fa il giro del mondo.
Sdegno unanime per la violazione della memoria dell’Olocausto.

Ieri dei rifugiati giunti in Repubblica Ceca vengono contrassegnati con delle scritte a pennarello sul braccio.
L’associazione suggerita con i numeri tatuati sulla pelle delle vittime dei campi di concentramento muove a indignazione l’opinione pubblica mondiale; dopo la dura e fulminea richiesta di chiarimenti dalla Commissione Europea le autorità Ceche sostituiscono i pennarelli con striscioline di carta.

Oggi l’atroce immagine di un bimbo siriano morto sulle spiagge turche sconvolge le digestioni in milioni di case europee. Immediate dichiarazioni di alti esponenti europei (e persino britannici!), unanimi nel dire che “Questo è troppo” e che “Ora non è più possibile tacere”.

Ora, francamente, chiedo scusa in anticipo per il giudizio tranchant, ma a me tutto ciò sembra una forma di delirio e di distruzione patologica della ragione.

Non è possibile che, a ragione o a torto, a proposito o a sproposito, le coscienze occidentali vengono mosse solo se e quando viene presentata un’immaginicola.
Il livello di ipersensibilità, confinante con l’isteria, legata alla circolazione delle immagini è la devastante controparte della totale incapacità di muoversi a fronte di dati e ragioni.

L’anno scorso di migranti la cui morte è stata accertata nel Mediterraneo ce ne sono stati 3409 (più tutti quelli di cui si ha solo notizia indiretta). Almeno il 10% erano bambini.
Quest’anno i numeri sono nettamente superiori.
Tutto ciò è noto, certificato e discusso da mesi e mesi, nell’inerzia, quando non nella noia, generale.

Ma le dirigenze politiche occidentali si muovono soprattutto annusando gli umori delle plebi; e le plebi si muovono solo se gli ‘mostri le figure’; ed ecco che uno scatto ben assestato, ed una didascalia che crea un’associazione mentale, mettono in moto grandi reazioni, proclami, sdegni, iniziative, persino soldi.
Solo che ovviamente la natura costitutivamente effimera di queste emozioni postprandiali fa sì che tutto sfoci nel buco nero della memoria a breve termine. Infatti quelle stesse classi dirigenti sanno bene che basta agitarsi un po’ per qualche giorno, facendo ammuina e aspettando la prossima foto, così che un nuovo empito di indignazione, più o meno sensato, si avvii, relegando nel dimenticatoio l’emozioncella precedente.

Questo modo di creare ‘cambiamento sociale’, dev’essere chiaro, non è un ‘sostituto prossimo’ della scelta razionale. Non lo è in nessuna misura.
Si tratta di una seria patologia della ragione collettiva, che si presta ad essere infinitamente manipolata e che, salvo accidentali eccezioni, sfocia solo in commediole ad uso delle prossime telecamere.
E’ anche questa una tragedia, ma scarsamente telegenica.

 

6) DOPO LA STRAGE DI NIZZA (14 LUGLIO 2016)

Restando a quel che sappiamo, il primo, debole nesso tra l’omicida di Nizza e lo jihadismo è il fatto che i genitori o magari i nonni dell’attentatore provenivano dalla Tunisia, un paese a maggioranza araba e islamica. Un secondo nesso è il suo modus operandi, che evoca uno dei tanti modi in cui gli jihadisti nella loro propaganda suggeriscono di “colpire gli Occidentali”, qualunque cosa significhi.

Per il resto il profilo dell’attentatore assomiglia a quello del co-pilota tedesco omicida-suicida Lubitz, che fece schiantare al suolo il proprio velivolo uccidendo 149 persone, o quello di Breivik, il neonazista norvegese che nel luglio del 2011, con un’uniforme paramilitare, armato, prima seminò la morte nel centro di Oslo, quindi con un gommone raggiunse l’isola di Utoya, dove era in corso la festa estiva della gioventù del partito socialdemocratico, e dopo aver radunato tutti nello spiazzo centrale cominciò a uccidere sparando all’impazzata.

Si tratta di personaggi che vogliono essere “eroi” per un giorno. Sentirsi potenti, o liberati dalla loro condizione di impotenza, anche soltanto per un attimo, magari l’ultimo. Ora, non esiste sistema di sicurezza capace di prevenire l’azione omicida di squilibrati isolati del genere. Certo, interventi come un posto di blocco che impedisca a un Tir di infilarsi indisturbato nelle Promenade des Anglais in pieno 14 luglio sarebbero auspicabili.

Ma il punto è che, per fare quello che il loro cupio dissolvi li spinge a fare, questi personaggi possono andare alla ricerca di un movente persecutorio purchessia, magari politico o religioso. Si tratta di norma di un’adesione strumentale, isolata e superficiale. Nella maggioranza dei casi, quindi, sarà qualcosa di difficilmente tracciabile, e dunque prevedibile, perché non li farà chiaramente emergere dalla massa delle persone genericamente contigue a quel certo ordine di idee o ambiente. Più di Charlie Hebdo, più del Bataclan, quindi, Nizza ci suggerisce di smetterla di dire che “Siamo in guerra” come se si trattasse di difendere manu militari un confine da un misterioso nemico, che peraltro, fatalmente, non può che assumere la veste spesso fuorviante dell’immigrato o del profugo. Di fatto, dati alla mano, sono cittadini europei a uccidere cittadini europei. Essi rivelano un disagio individuale con radici sociali, politiche e culturali, che rivestono con una bandiera ideologica: la più prossima a disposizione, ma niente di più.

Non siamo in guerra, quindi.

Siamo malati.

E la cura non può essere semplicemente uno stato d’emergenza antiterroristico più d’emergenza del precedente. La cura, se una cura è possibile, passa per l’affermazione di un diritto, che è insieme dovere, da parte delle comunità di cittadini che soffrono una condizione di marginalizzazione riconducibile alla loro appartenenza etnica o religiosa, di porsi come le prime protagoniste della lotta contro la violenza ideologica, politica o religiosa. Con la collaborazione e la denuncia attiva. E anche di contro, con un ascolto attivo e fattivo di quello che hanno da dire. Non ci sono altre strade.

Possiamo bombardare la Siria e la Libia quanto ci pare. O schedare in massa fette sempre più grandi della popolazione, cittadini o meno. Senza quel passo cruciale, tutti questi provvedimenti di “guerra” in definitiva sarebbero controproducenti: non farebbero che trasformarci in una grande Israele, senza peraltro una comune Torah e Shoah alle spalle. Cose che fanno sul piano civile e militare una certa differenza. Imploderemmo, semplicemente.

 

7) SULL’ACCESO DIBATTITO SE LE ONG SIANO BUONE O CATTIVE

Il punto cruciale da comprendere di tutta questa discussione è che essa si svolge su di un piano completamente artefatto e fittizio. E ciò avviene perché il piano semantico reale è indicibile.

Possiamo dibattere infinitamente se, in punta di diritto, il procuratore Zuccaro si stia muovendo in modo corretto o scorretto nei suoi dubi sull’operato di alcune ONG. Non è questo il punto autentico.

Il punto fondamentale, quanto indicibile, è che una grande parte dell’opinione pubblica (e i politici più opportunisti sono là a sfruttarne l’onda) sta andando alla disperata ricerca di un punto di giunzione dove poter strangolare il flusso migratorio.
Il tacito (e illusorio) desideratum di tutto questo dibattito sulle ONG è che ciò possa avvenire impedendo i salvataggi in mare a chi se ne fa carico: si spera insomma di poter trovare qualche cavillo per poter dare una giustificazione legale a ciò che è in effetti uno schietto e univoco desiderio.

Ma prima di dare fiato all’infinita catena degli sdegni, delle contestazioni e dei proclami di diritto, credo sia importante apprezzare un fatto fondamentale.

Nella storia esistono ricorrentemente scelte tragiche, cioè scelte in cui qualunque cosa si scelga si produrranno conseguenze orribili.
Pensare che nella storia ci sia sempre una via d’uscita dove l’applicazione di un po’ di ingegno garantirà una soluzione positiva per tutti è infantilismo intellettuale.

La questione migratoria attuale, salvo rivolgimenti strutturali non presagibili, è una tale situazione tragica.

Al netto di tutte le distinzioni di fino tra migranti economici o rifugiati politici (ricordo che comunque i benestanti dei paesi in guerra non arrivano da noi con i barconi, ma più semplicemente spostano la residenza in un paese confinante) il punto di fondo ha valenza generale.

Ci sono aree del mondo, in particolare l’intera Africa subsahariana, dove viene adottata di fatto una forma di gestione demografica “malthusiana”: si fanno tradizionalmente (e per ragioni strutturali) molti figli contando che un numero sufficiente sopravvivrà.
Non si tratta di un approccio né “abietto”, né “primitivo”: era l’approccio prevalente in gran parte d’Europa fino a poco più di un secolo fa. Ma questo approccio porta oggi di fatto in quelle aree ad un tasso di crescita demografica intorno al 3.5% annuo.

In Europa, dove vige un sistema di controllo demografico su base volontaria, dettato dalle possibilità di mantenimento, accudimento ed investimento nei figli, si ha notoriamente una forte autolimitazione delle nascite, che porta ad un tasso di crescita intorno allo 0,7% annuo.

Ora, se mettiamo a contatto due gruppi dove il primo cresce ad un tasso cinque volte superiore al secondo, senza che le risorse crescano proporzionalmente (sistema di riproduzione sociale ‘malthusiano’), è semplicemente fatale che il primo cerchi di riversare la propria popolazione eccedente dove la sopravvivenza è più probabile.
Questo accade e continuerà ad accadere, anche laddove Siria, Libia, Mali, Mozambico, Nigeria, Congo, Somalia e Sudan fossero pacificati.

Come sempre, i processi storici di migrazione sono strettamente legati ai tassi di spostamento per unità di tempo.
Finché i tassi migratori sono facilmente metabolizzabili sul piano sociale, culturale, economico, ecc. è difficile che sorgano gravi problemi.
Quando invece i tassi migratori cominciano a logorare i meccanismi di funzionamento delle società ospitanti, quali che siano le buone opinioni prima prevalenti, i valori proclamati, gli auspici formulati, il conflitto diventa inevitabile.

In sunto, credo che sia utile comprendere che, se non cambia qualcosa in modo radicale, e al momento non pronosticabile, noi tutti siamo destinati a breve a fare scelte tragiche, cioè scelte dove qualunque cosa decideremo di fare avrà conseguenze drammatiche per qualcuno.

 

8) UN NAUFRAGIO PROGRAMMATO

L’unica cosa che si capisce in modo chiaro del naufragio del CETA (trattato di libero scambio tra EU e Canada) è che non puoi simultaneamente conferire il potere di porre veti dal basso a regioni e gruppi di pressione locali, e nel contempo continuare a non spiegare un tubo alle popolazioni interessate.

Questa sembra però essere oramai una tendenza dominante in Europa. Da un lato (e in ciò la Germania si è fatta valere) si esige che tutti, non solo gli stati, ma anche le regioni, abbiano diritto di esprimersi su quasi tutto. Dall’altro la popolazione viene lasciata totalmente all’oscuro di cosa sta succedendo, di quali siano le clausole dei trattati, di quali siano le conseguenze di certe norme o scelte, ecc. L’esito naturale è il crescere di timori incontrollati nella popolazione, timori che poi trovano sempre un qualche politico disponibile a cavalcarli per la sua battaglia di visibilità protempore.

Sono certo che ci saranno critici dell’UE che si fregheranno le mani di fronte a questo ennesimo scacco, a questa paralisi infinita dell’Europa, pensando che la ‘volontà dei popoli’ abbia ottenuto voce contro i burocrati di Bruxelles. Chi pensa così però non vede che qui non si tratta di incidenti di percorso. Non si tratta dell’ordinario ‘gioco democratico’.
Si tratta in effetti di un naufragio programmato dall’alto, di un naufragio che fa gioco a chi il potere politico ed economico ce l’ha già e vede nell’attività del parlamento e della commissione europei solo un onere ed un fastidio.

Chi si illude che queste siano ‘vittorie dei popoli’ contro i ‘poteri forti’ non ha proprio capito cosa sta succedendo. Il fallimento dell’Europa è in effetti dietro l’angolo, e fa quasi sorridere vedere come esso sia sostenuto al tempo stesso, tacitamente dal grande capitale, e rumorosamente sia dalla destra che dalla sinistra europea (che, astuti come volpi, pensano di fare un dispetto al grande capitale).

Uno spettacolo penoso.

 

9) DUBBIO

In questi mesi tramite i media abbiamo seguito la tragedia di Aleppo.
In moltissimi, giustamente, hanno sentito l’impulso empatico a ‘fare qualcosa’, a cercare di porre rimedio a quella carneficina di innocenti.
Questo mi sembra sano e umano.

Ma c’è un secondo livello di reazione che mi lascia perplesso. In molti hanno fatto seguire alla rabbia e allo sdegno la conclusione che “ad Aleppo l’Occidente/l’Europa è morto/a”, che “siamo tutti colpevoli”, che “doveva intervenire l’Onu”, e simili giudizi.
E io qui non capisco.
Non capisco perché, al netto della sacrosanta reazione di empatia e di rabbia, mi sfugge precisamente quale reazione pratica possibile sarebbe stata la soluzione adeguata. Bisognava intervenire militarmente contro Isis? Contro Assad? O poi contro la Russia? Interporre scudi umani con le casacche dell’Onu sul terreno?

A me pare, ma forse sono ingenuo, che le pressioni diplomatiche che potevano essere fatte sono state fatte, e che nessuno fosse nelle condizioni di intervenire militarmente in un modo che avrebbe salvato più vite.
A me pare, ma, di nuovo, forse sbaglio, che in questo caso, come molto spesso nella storia, fossero a disposizione solo scelte tragiche, solo scelte con esiti comunque disastrosi. Ed è certamente un’illusione da ottimismo storico pensare che la coscienza di un problema, e della sua intollerablità morale, comporti di per sé che esso possa essere risolto.

E allora, se (e sottolineo il se) le cose stanno così, deprecare la “morte dell’Occidente” e stigmatizzare la colpa morale di “chi sapeva e non ha fatto nulla”, mi sembra un esercizio di fustigazione non solo sterile, ma anche piuttosto pericoloso: quel tipo di esercizio mentale che partendo da giudizi sconsolati sulle qualità della civiltà europea e della politica occidentale finisce in un generico cinismo e scetticismo, quando non in un’antipolitica da bar.
10) TERRORISMO E TRAPPOLA DELL’INSICUREZZA

Una facile, quanto amara, previsione

Quante probabilità ci sono che gli attentati terroristici in Europa smetteranno d’un tratto di verificarsi?
A occhio e croce poche.

Quante probabilità ci sono che il tentativo di migrazione da paesi impoveriti o in guerra (o entrambe le cose) verso l’Europa nel breve periodo cesserà o rallenterà drasticamente?
Anche qui molto poche.

Quante probabilità ci sono che tra le centinaia di migliaia di migranti disperati e abbrutiti non ci sia una percentuale eguale o superiore alla media europea di tagliagole, criminali, fanatici, ecc.?
Di nuovo, probabilità davvero infime.

E allora, in un quadro in cui si profila dunque una migrazione crescente, e senza apparente fine, di uomini disperati e abbrutiti, migrazione abbinata (non c’è necessità che sia individuabile un chiaro nesso causale) ad atti terroristici, magari sporadici, e a criminalità associabile a gruppi non autoctoni, ebbene quante probabilità ci sono che nelle popolazioni europee gli appelli alla civiltà, alla compassione, alla comprensione umanitaria abbiano alla lunga la meglio?
Ecco, questa la so: la probabilità è zero.

Dato questo quadro tendenziale è solo una questione di tempo (non molto tempo) perché ogni patina residua di umanitarismo, diritto internazionale, diritti umani, ecc. venga spazzata via.
E chi si collocherà dalla parte dell’umanitarismo, dei diritti umani, ecc. verrà spazzato via anche lui (almeno politicamente).

Tra gli istinti relazionali, la pulsione di autodifesa è la più primitiva pulsione presente nel regno animale. Non c’è bisogno neppure di una corteccia cerebrale funzionante perché si attivi. E quando si attiva, ogni altra considerazione di bene o male, giusto o ingiusto, nobile o volgare, legale ed illegale sparisce.
E sparirà.

 

 

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