Della ragione senziente

Per quanto siano passati più di due secoli da Hegel, sembra ancor oggi di vivere nel bel mezzo di un impenitente fiorire di dualismi rousseauiani.
 
Non c’è infatti ammiccante consiglio per gli acquisti, star televisiva alla ricerca di qualcosa di intelligente da dire, o giovane aspirante intellettuale, che non sguazzino gai e inconsapevoli nel dualismo tra ‘Ragione‘ e ‘Sentimento‘. E in tutta la serie di stantie opposizioni che vi si attaccano a catena.
 
Così dalla parte della Razionalità troviamo l’aridità della regole, la severità delle norme, la meccanicità delle deduzioni logico-formali, la tristezza del principio di realtà, l’utilitarismo, la scienza, ecc.
 
E dall’altra parte, dalla parte del Sentimento troviamo la spontaneità, il genio e la sregolatezza, la gioiosa infrazione delle regole, la sfrontata sfida alle norme sociali, l’originalità purchessia, l’empito dionisiaco dei sensi e via poetando.
 
Ecco, fino a quando continueremo a prendere per buona questa spazzatura concettuale non avremo alcuna speranza di cominciare ad orientarci davvero nel nostro mondo. Chiunque si sia preso la briga di riflettere un po’ su queste cose sa (o dovrebbe sapere) che:
 
1) Tutta la razionalità, senza alcuna eccezione, poggia sempre su passaggi ultimi di ordine intuitivo, mai esplicitabili, mai totalmente governabili, mai definitivamente in nostro possesso. Anche l’archetipo delle trivialità razionali, ovvero che 1 + 1 sia eguale a 2, è qualcosa che può essere compreso solo sulla base del funzionamento di una moltitudine di facoltà di sintesi mentale che semplicemente sono presenti in forma intuitiva a chi è in grado di intuirle. Ad un certo punto, in ogni ragionamento, noi semplicemente ‘sentiamo’ che è giusto, che è evidente, e lo sentiamo se e perché lo sentiamo. Se non abbiamo accesso a questa intuizione siamo e saremo per sempre esclusi da quella sfera razionale. Gli esempi potrebbero essere moltiplicati indefinitamente: tutta la nostra razionalità poggia su sfere intuitive, pervase da orientamenti e inclinazioni non ulteriormente analizzabili. (Per gli addetti ai lavori: una lettura intelligente del processo di apprendimento delle regole descritto da Wittgenstein dice già tutto).
 
2) Di contro e simmetricamente, il nostro ‘sentire’ ha sempre una propria logica, ha nessi funzionali e coerenze interne senza di cui non sarebbe che insignificanza e confusione. Il ‘sentire’ dell’istinto ha palesemente una sua coerenza, ed è solo perché ha tale coerenza che può essere appagato o frustrato, compiuto o incompiuto. Esso guida sequenze comportamentali rivolte funzionalmente a cose che poi la ragione riflessa battezzerà come nutrizione, sessualità, ecc.
E se andiamo al ‘sentire’ delle emozioni riflesse (speranza, nostalgia, orgoglio, vergogna, ambizione, ecc.) qui il nesso con ordinamenti che riconosciamo facilmente come razionali è manifesto: la speranza è un moto dell’animo che si nutre di una dimensione rappresentativa e che ha condizioni di razionalità per poter conservare la propria capacità di motivare, o per perderla. Così per l’ambizione, l’orgoglio, ecc.
 
Morale.
Il suddetto dualismo non esiste da nessuna parte nell’universo (salvo che, suppongo, negli spot rivolti ai gggiovani). L’unica differenza concreta e rilevante è quella tra la qualità maggiore o minore della ragione e del sentimento.
 
Il sentimentalismo che crede di poter celebrare il proprio trionfo contro il tedioso razionalismo e il grigio realismo, glorificando il sentire corrente e vagheggiando palingenesi sregolate sta in effetti solo mettendo in scena una sua specifica insofferenza a questa o quella regola, questo o quel vincolo. Ribellioni comprensibili, magari sacrosante, ma concettualmente del tutto fuori bersaglio.
 
Di contro, il razionalismo che pensa di tenere in tasca il mistero del mondo perché ne ha accuratamente ridotto il perimetro al proprio cortile mentale, cortile misurato e passeggiato infinite volte, esercita in effetti una forma sottile e drammaticamente inconsapevole di irrazionalismo.
 
La fatica del pensiero, ciò per cui vale la pena filosofare, è quel processo in cui la ragione conquista continuamente i propri limiti, riconoscendoli, e adattando l’esercizio della ragione in modo da far posto alla comprensione del computo come a quella del desiderio, alla comprensione del percepito come del presagito, del contingente come del sacro, dell’accertato e dell’infinitamente possibile.

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