Il capitalismo come patologia storica. Parte seconda: eversione (i.e., entropizzazione)

Nella prima parte di questo intervento [http://antropologiafilosofica.altervista.org/capitalismo-patologia-storica-parte-nichilismo/] abbiamo rilevato alcune cautele e precisazioni che è opportuno adottare nell’uso del termine ‘capitalismo’. Non ci ritorno sopra. Dandole per acquisite, in linea di massima per capitalismo intendo qui un sistema di autoriproduzione sociale, storicamente emerso nel XVIII secolo, che tende ad estendere indefinitamente lo spazio degli scambi competitivi monetizzati.

Come abbiamo avuto modo di notare in precedenza, il capitalismo conduce preterintenzionalmente ad esiti nichilistici. Questo tipo di esito concerne il lato soggettivo delle sue implicazioni. Il quadro però va completato con una visione di un secondo lato, oggettivo, di tali implicazioni. Se soggettivamente il capitalismo induce un logoramento di ogni sfera assiologica, oggettivamente esso conduce ad una peculiare e storicamente inedita forma di ‘rivolgimento sistematico’ della realtà storica, rivolgimento che può essere catturato da termini come ‘eversione’, ‘dissoluzione’ o ‘entropizzazione’.

Come Marx osservò per primo, uno dei caratteri fondamentali del capitalismo è di essere sistematicamente rivoluzionario. Questo aspetto caratterizzante è stato poi spesso rimosso o frainteso alla luce del richiamo marxiano alla rivoluzione. Il carattere eversivo del capitalismo non ha niente a che vedere con, e non dipende da, un qualche carattere eversivo dei ‘capitalisti’. Chi detiene i mezzi di produzione, essendo già in una relativa condizione di favore, di norma è interessato al mantenimento dello status quo ed è dunque ben lontano dall’auspicare rivolgimenti. Ciononostante, quali che siano le opinioni private dei singoli capitalisti, il capitalismo come sistema di autoriproduzione sociale ha una tendenza interna costitutiva verso il rovesciamento di ogni status quo e verso la dissoluzione di ogni ordinamento, identità, struttura, tradizione.

Il carattere rivoluzionario che Marx ascrive al socialismo e al comunismo non va interpretato come una libera scelta, una decisione elettiva: non è il prodotto di un desiderio positivo di eversione, distruzione, ‘violenza creatrice’ (e chi così lo ha interpretato non ha capito nulla della lezione marxiana). L’auspicata rivoluzione anticapitalista è (doveva essere) semplicemente l’esito, nell’interpretazione marxiana l’unico esito disponibile, di contraddizioni interne all’autoriproduzione capitalistica; in altri termini, la prospettata rivoluzione anticapitalista era parte (terminale) del processo di sviluppo capitalistico stesso, un esito obbligato dal carattere costitutivamente eversivo del capitalismo stesso.

In questo senso, pochi fraintendimenti sono stati più profondi dell’identificazione del capitalismo con la conservazione. Si tratta di una confusione fatale. La rivoluzione prevista da Marx è l’esito tragico della forma internamente eversiva propria del sistema capitalistico. Pensare alla rivoluzione come ad una sorta di ‘appagamento finale’, di ‘festa popolare’, di ‘trionfo emancipativo’ in cui il popolo si libererà è una delle tante visioni popolari fuorvianti di cui si è spesso nutrita, per finalità propagandistiche, la tradizione socialista e comunista. La rivoluzione, così come Marx la pronostica, doveva essere l’esplosione terminale di un meccanismo che produceva simultaneamente pauperizzazione di massa e concentrazione del potere economico, un sistema che perciò costringeva le masse degli oppressi ad un atto finale distruttivo come unica alternativa ad una vita (o una morte) di stenti.

È per questo motivo che nel periodo di momentanea riduzione della forbice sociale nel ‘900 (tra la Seconda Guerra mondiale e i primi anni ‘70) si è potuto pensare ad una obsolescenza del modello ‘apocalittico’ marxiano. Ed è invero per lo stesso motivo che il violento riaffacciarsi dell’ampliamento della forbice sociale, dovrebbe indurre a ripensare la possibilità (che non significa desiderabilità) di eventi rivoluzionari.

Marx fu il primo a comprendere al tempo stesso il carattere intrinsecamente rivoluzionario del capitalismo e il suo carattere storicamente dissolutivo. Ma quali sono le ragioni sistemiche di questa tendenza? Per chiarirne i tratti principali bisogna ricordare alcune dinamiche, piuttosto note se prese una ad una, ma raramente esaminate nel loro concerto, del processo di produzione ed autoriproduzione sociale che chiamiamo ‘capitalismo’.

Le dinamiche in questione sono enumerabili come segue:

1) Il capitalismo funziona a prescindere da ogni pianificazione (questo come abbiamo visto è un suo elemento di forza);

2) Il processo capitalistico esige costantemente crescita economica e non può sopravvivere ad una perdurante stasi di crescita;

3) Il sistema di divisione del lavoro e di scambio che definisce il capitalismo pone ciascun agente economico in ideale e obbligata competizione con ogni altro;

4) Nel sistema capitalistico esiste un premio fondamentale associato all’ottenere profitti con priorità temporale rispetto ai competitori;

5) Il sistema spinge ciascun agente economico a innovare il prodotto e/o i modi di produzione, in modo da poter competere efficacemente.

Prima di vedere quale effetto complessivo produce l’interazione di queste istanze, proviamo ad illustrarle brevemente.

Ad 1) Il capitalismo come ‘ordine spontaneo’.

Questo fattore è già stato brevemente discusso nella prima parte dell’intervento e dunque ci limitiamo a ricordarne il profilo generale. Il sistema di scambi in regime capitalistico consente ed incentiva esplicitamente la libera iniziativa individuale, e permette, grazie alle potenzialità della pratica monetaria, di ottenere vantaggi individuali che prescindono sia dal buon funzionamento relazionale, sia dall’efficacia di una visione collettiva di lungo periodo. Questo punto, naturalmente, non significa affatto che il libero gioco delle iniziative economiche tenda ad avere esiti ottimali (questa sarebbe la tesi del ‘mercato perfetto’ come ideale normativo). In verità è ben noto che in tutti gli ambiti dove è richiesta una visione dell’interesse comune di lungo periodo, le iniziative brade di singoli portatori di interessi risultano ampiamente subottimali. Ben note sono le insufficienze di fronte a iniziative come la creazione di sistemi infrastrutturali di trasporti, o di sistemi di comunicazione collettiva (quali la prima istituzione di Internet), o di organismi di ricerca di base, ecc.;tutti casi dove l’intervento di una direzione collettiva centralizzata risulta generalmente decisivo. Il punto qui non è dunque che un sistema lasciato a libere iniziative individuali dia risultati ottimali (dubito che oggi neppure il più ideologico dei liberisti possa sostenere qualcosa del genere). Il punto cruciale è che, diversamente da epoche passate, nell’epoca del capitale l’assenza di coordinamento degli individui in un progetto comune invece che portare il sistema al collasso gli conferisce elasticità e potenza produttiva (capacità di adeguarsi a domande capillari e variabili).

Ad 2) L’imperativo della crescita.

Si sottolinea spesso, e giustamente, l’associazione tra sistema capitalistico e crescita economica. È indubbio che l’imporsi del sistema capitalistico abbia incrementato in modo decisivo sia la produzione totale che le produttività particolari dei singoli agenti economici. Ciò che però di norma si omette di dire è che questo carattere in un sistema capitalistico non si presenta propriamente come una scelta. Si tratta, più propriamente, di una necessità, di un meccanismo indispensabile alla sopravvivenza del sistema medesimo. Noi tutti siamo stati educati, sin dal nostro primo contatto con questioni di politica economica, a percepire come normale il fatto che un’economia che non sia in crescita rappresenti un male. Un’economia senza crescita suscita disappunto ed allarme: si parla di ‘economia stagnante’ o ‘recessiva’. Ma perché mai? Naturalmente, se il senso di un’economia capitalistica fosse il medesimo di un’economia precapitalistica, ovvero quello di organizzare la produzione per venire incontro ad un appagamento di bisogni, allora non ci sarebbe niente di problematico nel fare spazio ad un’economia a crescita zero. Si potrebbe ammettere senza difficoltà che un’economia possa essere fiorente anche se statica: se infatti in un certo momento i bisogni risultassero appagati, o quantomeno appagabili redistribuendo il prodotto totale (cfr. principio di Kaldor/Hicks), non ci sarebbe necessità, in linea di principio, per esigere un aumento di produzione futura.

Ma il capitalismo non è governato dall’intento circoscritto di appagare bisogni, bensì dalla pulsione infinita ad accrescere il capitale inizialmente investito nella produzione. Il sistema funziona dunque fino a che, una volta introdotte nel processo produttivo N risorse, il processo produttivo (inclusa la vendita del prodotto) genera N1 risorse, dove N1 > N. Per comprendere questo punto è importante capire cosa accadrebbe al sistema economico nel momento in cui dovesse riconoscere di essere impossibilitato a crescere. Facciamo il seguente esperimento mentale. Immaginiamo il caso teorico in cui si diffondesse la certezza che l’economia (qui equiparabile al PIL) non fosse nelle condizioni di crescere mai più di ora . Cosa accadrebbe del sistema economico fondato sul capitale? Molto semplicemente l’intero sistema del credito, l’intero mercato finanziario e l’intero sistema degli investimenti collasserebbero. Infatti, in assenza di alcuna prospettiva di crescita l’erogazione capitalistica del credito non avrebbe più nessun senso, giacché non ci si potrebbe aspettare, in media, un ritorno superiore a quanto prestato. Similmente non avrebbe senso acquistare titoli o azioni senza la prospettiva di un loro aumento di valore. La spinta economica residua convergerebbe perciò verso una metamorfosi del capitale virtuale in capitale reale, trasformando il primo in beni dotati di valore d’uso o beni di prestigio (tesaurizzazione). Con ciò non ci ritroveremmo più dentro un processo storico basato sulla capacità di autoriproduzione del capitale, ma ci ritroveremmo su di una traiettoria di ritorno ad un sistema economico centrato su beni, merci e potere politico, strutturalmente simile a quello del ‘600 europeo, o a quello del mondo romano antico.

Il capitalismo è per così dire come un ciclista che per riuscire a mantenersi stabile deve continuare a muoversi, eventualmente a muoversi periodicamente a ritroso, ma a muoversi comunque; e questa corsa perpetua deve continuare anche laddove esso si stesse dirigendo, con piglio ottimistico e brezza nei capelli, verso un precipizio.

Ad 3) Le gioie della libera competizione

Il sistema di produzione capitalistico chiama ciascun agente economico a prodursi in una libera competizione per l’accesso, diretto o indiretto, ai prodotti. Gli individui, le uniche identità ad avere legittimazione metafisica in una visione liberale, rappresentano gli agenti economici primari; ciò definisce anche il nesso, innegabile, tra rivoluzioni liberali e sviluppo della democrazia moderna (democrazia intesa, diversamente da quella greca, come democrazia formale di diritti e responsabilità individuali).

Idealmente nella visione liberale ciascun individuo è lasciato alle proprie forze e risorse per ottenere accesso alla sfera dei beni e servizi. Contrariamente a quanto spesso ripetuto, questa forma di idealizzata lotta di tutti contro tutti non ha precedenti né storici, né antropologici. Solo in condizioni di contorno e tutela legale molto particolari, condizioni storiche divenute possibili solo recentemente, un individuo può anche solo concepire di affidarsi alle proprie sole risorse per confrontarsi con il mondo esterno. Naturalmente, nonostante l’implausibile astrattezza di questa idea di agente economico come cavaliere solitario, il modello promuove ed alimenta efficacemente tale profilo come ideale normativo. Il modello tende perciò a divenire una profezia autorealizzantesi, tende cioè ad imporsi progressivamente, a diffondersi, ad incarnarsi in numeri crescenti di persone e, nella stessa persona, in numeri crescenti di comportamenti. In altri termini, per quanto l’individuo in libera competizione economica con ogni altro individuo sia un’astrazione, di fatto il sistema di relazioni capitalistiche tende a produrre, in modo crescente, persone che approssimano quel modello, ovvero persone per cui le relazioni con il prossimo tendono ad essere di solo due tipi: ostili o strumentali. Relazioni ostili se l’altro è un potenziale concorrente per ottenere ciò che l’individuo desidera (posto di lavoro, bene, servizio); relazioni strumentali se l’altro è una potenziale risorsa che mi avvicina a ciò che desidero.

Ad 4) First-come, first-served.

Sotto condizioni di competizione capitalistica la priorità temporale nell’accesso di qualunque prodotto al mercato è una variabile cruciale. Attendere coscienziosamente che un prodotto (bene o servizio) abbia eventualmente raggiunto una qualità ottimale prima di metterlo in vendita è sempre una strategia irrazionale, giacché attendere più dei competitori può limitare in maniera irreparabile la conquista di una fetta di mercato. Infatti, il profitto realizzato rappresenta un aumento di disponibilità di capitale, e la disponibilità di capitale è la principale delle variabili che dà accesso a futuri incrementi di profitto. In sostanza, la disponibilità attuale e pro tempore di profitti è ciò che consente sia di ottenere capitali supplementari (ad es. come vendita di azioni o concessione di crediti), sia di accedere a investimenti (marketing, aggiornamento tecnologico, economie di scala, ecc.) che producono ulteriori incrementi dei profitti. In ogni stadio di un’attività economica la disponibilità di capitale pregresso rappresenta un supporto decisivo (il più decisivo) per ottenere ulteriori incrementi di capitale. Chi primo arriva nell’accaparramento di una fetta del mercato, e dunque del relativo capitale disponibile, ha per ciò stesso un vantaggio comparativo sui competitori per conservare ed ampliare successivamente quella fetta di mercato. I vantaggi relativi diventano tendenzialmente vantaggi assoluti, in quanto in un sistema di libero mercato il detentore di maggior potere economico ha anche maggior potere contrattuale e quindi riesce ad imporre migliori condizioni per sé agli agenti economici con cui effettua transazioni. Chi ha una migliore posizione economica in un tempo t(1) è perciò anche nella posizione più favorevole per ottenere una fetta maggiore del profitto complessivo in un tempo successivo t(2).

Questo premio costitutivo assegnato alla priorità temporale nella vendita (guadagno) rappresenta il segreto della tipica pulsione capitalistica all’accelerazione.

5) Esiti sistemici: flessibilizzazione, frammentazione, entropizzazione.

Il quadro generale che presenta un sistema di relazioni capitalistico è dunque tale che:

a) l’iniziativa economica procede costitutivamente in modo pluralistico, ‘anarchico’ e privo di indirizzo generale;

b) il sistema nel suo complesso mira strutturalmente alla crescita del prodotto (in senso economico, includente i servizi);

c) ciascun agente economico è in competizione ideale con ogni altro;

d) la competizione per vantaggi relativi spinge ad accelerare tutte le attività di produzione e di consumo.

La sinergia di queste tendenze conduce ad un esito storico particolare, ovvero ad una tendenza strutturale verso mutamenti costanti, frenetici, e miopi.

In cosa si sostanzia tale tendenza? In una pluralità di fenomeni, individualmente noti, ma che di norma non vengono percepiti come accomunati da alcunché; ne nomino a seguire i tre principali.

I) Il primo fenomeno in questione è la dinamizzazione forzosa dei rapporti economici, con conseguente tendenza alla ‘flessibilizzazione’ e alla ‘precarizzazione’. In sostanza una competizione generalizzata e non coordinata, richiede innovazioni di prodotto e modi di produzione, nonché accelerazioni dei tempi di produzione per ‘stare sul mercato’. Ciò comporta la richiesta (perfettamente razionale da parte dei datori di lavoro) della massima flessibilità di mansioni e di orari, e del minimo impegno contrattuale a lungo termine da parte dell’azienda, che deve poter cambiare in modi rapidi, e al momento imprevedibili, forme, modi e anche luoghi di produzione. Questo processo è oggi troppo manifesto da richiedere particolari commenti.

II) Il secondo è la frammentazione progressiva di ogni società o comunità, in quanto nessuna identità sovraindividuale ha più né dignità, né oggettiva capacità di autoriprodursi, a meno che non rivesta una funzione di produzione economica (come azienda, ditta, corporation). In questo senso un sistema di produzione capitalistico tende ad estinguere progressivamente ogni forma di politica, nel senso originario di cura della polis, della comunità civile. La rappresentanza politica tende così a trasformarsi o in fattore collaterale ad alcuni processi produttivi, in quanto creatore di norme sussidiarie al processo produttivo, o direttamente in impiego in senso ordinario, ambito come mera fonte di reddito.

• NB: Può essere curioso notare come tutt’oggi nella rappresentazione pubblica (soprattutto cinematografica) l’Arcinemico continui ad essere identificato con una qualche incarnazione del Leviatano di Hobbes, nella veste di uno Stato fanaticamente votato al controllo di individui che tenderebbero virtuosamente a sottrarvisi. Mentre in realtà lo Stato è sempre di più ridotto ad un comitato d’affari privati, ancorché pubblicamente eletto, davanti alle coscienze individuali si continua a far balenare con insistenza l’immagine minacciosa di entità sovraindividuali oppressive e fanatiche (anche le corporation private, quando viene loro attribuito un ruolo malvagio, presentano questi tratti appartenenti al classico format Leviathan/Hitler/Stalin). Questa paradossale dissonanza tra rappresentazione e realtà non è priva di interesse. La tendenza storica dominante è quella per cui nessuna entità sovraindividuale in una società occidentale moderna tende a possedere alcuna solidità o identità che non sia quella conferita eventualmente da una convergenza provvisoria di interessi economici. Possono esistere naturalmente istituzioni oppressive e anche violente, senza che ciò implichi nulla circa la loro solidità a lungo termine: ciascuna entità sovraindividuale occidentale tende ad essere, di fatto, in perenne vendita al miglior offerente.

In ultima istanza, ad essere ‘solido’ nel sistema capitalistico non è nessun aggregato di individui, nessuna comunità, nessuna azienda, nessuno stato; ad essere ‘solido’ è solo il sistema stesso, la cui elasticità e liquidità gli consente di reincarnarsi, come novello Proteo, in nuove forme sociali provvisorie.

III) Ricordiamo infine, tra le manifestazioni strutturali delle condizioni di cui sopra, la spinta all’innovazione forzosa del prodotto e dei modi di produzione, che comporta la continua introduzione ‘sperimentale’ di novità nella sfera dei prodotti e dei modi di produrli, sotto pressione temporale. Per ogni prodotto presente sul mercato, dal cibo, ai cosmetici, ai medicinali, ecc. vengono costantemente introdotte variazioni nei modi di produrli e/o nella loro composizione, senza che vi sia il tempo materiale (né l’interesse) per valutarne l’impatto a lungo termine. In pratica noi produciamo continuamente ‘cose nuove’, nuovi cibi, cosmetici, medicinali, modi di conservazione, ecc. con processi di produzione nuovi, i cui effetti a lungo termine, a maggior ragione se combinati, ci sono ignoti. Occasionalmente scopriamo che questo o quel prodotto ha effetti collaterali gravi (DDT, talidomide, coloranti, addensanti, emulsionanti, parabeni, ecc.). Ma per un paio di prodotti di cui faticosamente qualche ricercatore accerta la dannosità, ne vengono prodotti simultaneamente centinaia altri dagli effetti ignoti. Anche nel caso dei farmaci, dove pure esistono agenzie che ne valutano la possibile introduzione sul mercato, i tempi di sperimentazione e test sono ampiamente inadeguati a valutarne davvero gli effetti nell’uso a lungo termine, o gli effetti combinati.

L’idea di fondo del liberismo come teoria del sistema capitalistico è che queste variazioni, se dovessero avere effetti negativi, verranno sanzionate dal rigetto consapevole da parte dei consumatori. Si tratta tuttavia di una foglia di fico argomentativa manifestamente priva di plausibilità, al di fuori dei manuali di microeconomia. Il consumatore non è quasi mai nelle condizioni cognitive per accertare gli effetti reali di questa variazione forzosa della propria esposizione ambientale.

• NB: Può essere interessante notare come le affezioni e malattie che caratterizzano maggiormente la nostra epoca (allergie, intolleranze, tumori, stati infiammatori di origine ignota, malattie autoimmuni, ecc.) non si presentano secondo la forma tradizionale dell’invasione di un intruso (batteri, funghi, virus, parassiti), ma nella forma della rottura di un equilibrio interno all’organismo stesso. L’azione dissolutiva, entropizzante del sistema si traduce, in modo tutt’altro che metaforico, nella malattia come rottura dell’equilibrio organico. Il mondo cui siamo esposti materialmente è un mondo che, rispetto ad ogni epoca passata, presenta un tasso di variazione inedito: variazione delle condizioni in cui operiamo, di credenze ed aspettative, di relazioni (sempre più effimere), fino alla variazione costante delle molecole cui siamo esposti. Ogni mutamento nelle condizioni di relazione ambientale o consentono un adattamento nei limiti di adattamento ontogenetico disponibili all’individuo, o degenerano in malattia (organica, ma anche mentale). L’esposizione a condizioni di mutamento che travalicano i margini di adattamento ontogenetico non conducono a mutamenti adattivi (alla Lamarck), ma semplicemente alla patologia e all’estinzione. Può essere utile ricordare, a titolo di suggestione, come condizioni con elevato tasso di variazione ambientale siano favorevoli solo ad organismi semplici, con genomi meno strutturati e variazioni intergenerazionali rapide. Un mondo come quello che andiamo creando è un mondo premiale per batteri, moscerini e scarafaggi, un po’ meno per i mammiferi in generale, ancora meno per quei delicati e pretenziosi mammiferi che siamo…

  • Limitandosi a questi tre aspetti principali, il quadro che emerge è quello di una tendenza progressiva e costante all’isolamento e all’esposizione ad un ambiente circostante in continuo cambiamento, sia dal punto di vista ambientale che sociale. Il risultato netto di questo processo è la crescita di una forma di vita che gravita intorno a due disposizioni di fondo: l’angoscia sul piano esistenziale (vedi prima parte) e la paura sul piano operativo. L’angoscia come destrutturazione identitaria e assiologica, e la paura come incapacità costante di pre-occuparsi in maniera sufficiente ed efficiente (è sempre ‘prudente’ pre-occuparsi più di quanto già si faccia).

Il sistema di autoriproduzione del capitale è dunque un sistema che genera sistematicamente insicurezza, nel senso più estensivo del termine.

Sarebbe a questo punto interessante procedere a mostrare come questa forma crescente di insicurezza si ripercuota concretamente sul piano politico ed economico. Questo sarebbe tema per un’analisi successiva, ma senza la pretesa di avviare qui un ragionamento a proposito, possiamo limitarci, assertivamente, a identificare due tendenze politico-economiche prevedibili:

  1. Un incremento delle richieste di sicurezza agli Stati, il cui ruolo si allontana sempre di più dal modello patriarcale antico (lo Stato come versione ampliata dell’organismo e della famiglia), avvicinandosi invece costantemente al modello liberale dello “Stato Sentinella”. Gli Stati si ritraggono sempre di più da tutti quei compiti che appartenevano alle comunità su base personale (assistenza, educazione, cura, ecc.), mentre vengono chiamati in sempre maggior misura ad assumere oneri di sorveglianza, controllo, eventualmente repressione.
  2. Un’esacerbazione di uno dei tipici, e più studiati, meccanismi autodistruttivi della produzione capitalistica, ovvero le crisi di sottoconsumo (o come si chiamavano una volta, di ‘sovrapproduzione’): il bisogno di sicurezza si converte infatti in modo crescente in forme di tesaurizzazione, con parziale uscita di capitali dalla circolazione,  ovvero in varie forme di eccesso di ‘risparmio’ (per gli agenti economici che sono in grado di risparmiare). Tale risparmio, concepito in funzione di cuscinetto di ‘sicurezza’ è di fatto scarsamente interessato all’investimento, e disposto persino a sopportare l’erosione inflattiva, pur di mantenersi disponibile. Queste forme di tesaurizzazione di sicurezza sottraggono grandi quantità di capitale dalla circolazione, e dunque dal consumo, innescando o incrementando le tendenze al sottoconsumo, con ciò che ne segue (disoccupazione, sottoccupazione, ecc.).

 

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.