Che fine ha fatto la filosofia nell’era del caos? (da “L’Espresso” 18/06/2017)

‘Filosofia’ è stata per gran parte della storia occidentale quasi sinonimo di scienza e sapienza. L’opera maggiore di Isaac Newton porta ancora il titolo di ‘Principi matematici di filosofia naturale’. Ma da allora, e con particolare intensità dal secondo dopoguerra, le cose sono drammaticamente cambiate. Oggi la funzione e l’autorevolezza un tempo evocate dal termine ‘filosofia’ sembrano essere monopolio delle scienze naturali. Ci si potrebbe chiedere, a questo punto, quale possa essere (o se ancora debba esservi) uno spazio della filosofia nel mondo odierno, nell’“Epoca della scienza”. Il fatto che più o meno tutte le scienze oggi note, dalla fisica alla biologia, dalla psicologia alla sociologia siano nate come ‘costole’ della riflessione filosofica può richiamare glorie passate, ma non dice molto delle possibilità presenti. Dovremmo forse risolverci a considerare la filosofia come una forma di conoscenza superata, da gettare ‘nella pattumiera della storia’, accanto all’alchimia, alla frenologia, all’astrologia, e ad altre ‘pseudoscienze’?

Di fatto, l’autorevolezza conquistata dalle scienze naturali ha finito per esercitare sulla filosofia una pressione sia concreta, in termini di riduzione degli spazi accademici e di ricerca, sia per così dire psicologica, creando una sorta di crisi identitaria. Questa crisi ha indotto nel ‘900 l’attività filosofica a cercare di ridefinire la propria identità. L’esito di questo processo è stato l’emergere di quattro orientamenti primari; la filosofia si è concepita in sempre maggior misura o come ‘riflessione sulla scienza’ (epistemologia, metodologia, ecc.), o come ‘cultura critica’ (ermeneutica, ‘postmodernismo’, decostruzionismo, ecc.), o come preservazione della tradizione (storia della filosofia), o traendo senz’altro ispirazione e stilemi dalle scienze naturali (filosofia analitica). Questa classificazione è naturalmente approssimativa e non esaustiva, ma fatta ammenda per la necessaria approssimazione, queste tendenze sono nei loro tratti generali facilmente accertabili.

Ora, chiediamoci: tale ridefinizione degli orientamenti è tutto ciò che ci si può attendere dalla tradizione filosofica? È utile soffermarci a questo proposito sul decisivo rapporto con la scienza. Qual è la forma di conoscenza che la scienza moderna de facto finisce per consentire e proporre? Al netto di analisi di dettaglio, il problema macroscopico che l’epoca della scienza naturale non può evitare di proporre è quello della frammentazione dei saperi. La divisione del lavoro, e l’interesse prioritario per l’efficacia causale, hanno fatto sì che oggi nessun fisico possa dire di conoscere senz’altro ‘la Fisica’, nessun biologo di conoscere ‘la Biologia’, nessun economista di conoscere ‘l’Economia’, ecc. Il sistema di produzione delle verità scientifiche è un sistema che si giova delle virtù della divisione del lavoro e la raccomanda. Articoli scientifici generalisti sono scarsamente apprezzati a livello accademico, mentre la specializzazione perseverante è costantemente premiata.

Tutto ciò ha ottime ragioni nella capacità di questo modello metodologico di far crescere le competenze operative (si pensi agli straordinari progressi della medicina nell’ultimo secolo). E tuttavia, la Scienza, quando ancora non si distingueva dalla Filosofia, faceva qualcosa di essenzialmente diverso. Accanto all’attenzione per il governo locale dei processi materiali era essenziale la ricerca di una ‘visione vera’ del mondo. Di ciò nella prassi delle scienze contemporanee non è rimasta sostanzialmente traccia. La frammentazione in oggetto non coinvolge infatti solo le partizioni interne alle singole scienze, ma in modo ancor più radicale le relazioni tra scienze diverse. Non esiste una concettualità comune, anzi neppure una concettualità compatibile tra, ad esempio, fisica, psicologia, economia, storia, biologia evoluzionistica, ecc. Ciascuna scienza organizza i propri saperi in cornici parzialmente, o talvolta integralmente, incompatibili con i quadri proposti da altre scienze. Concetti irrinunciabili in un campo risultano inconciliabili con concetti irrinunciabili in un campo diverso.

Si potrebbe dire che questo è un necessario sacrificio al progresso scientifico. Questa frammentazione dei saperi non è però un incidente senza vittime. Il suo risultato complessivo è una forma storica inedita di irrazionalità. Un mondo sommerso di saperi specialistici, e di informazioni particolari irrelate, produce un disorientamento cognitivo profondo e diffuso. L’esito paradossale è che in un mondo apparentemente dominato da paradigmi scientifici lo spazio per pregiudizi vaghi, leggende metropolitane, credenze settarie, sapienze ‘alternative’, dogmi incoercibili, ecc. è più ampio che mai.

È in questa giunzione che la filosofia, intesa in senso classico, ha la possibilità di esercitare un ruolo essenziale. Gli orientamenti filosofici novecenteschi menzionati più sopra, pur preziosi e fecondi, mancano programmaticamente di un aspetto che fu invece al cuore del ruolo tradizionale della filosofia. Ciò che accomuna paradossalmente orientamenti filosofici così diversi come la riflessione epistemologica, la storia della filosofia, la critica culturale e l’indagine analitica (se intesi in senso ‘specialistico’) è la tendenziale rinuncia all’orizzonte della sintesi, al tentativo di produrre ‘visioni del mondo’, o loro abbozzi. La propensione tradizionale alla sintesi sistematica, al ‘sistema filosofico’ è stata progressivamente percepita dal secondo dopoguerra come qualcosa di indebitamente ambizioso, di ‘inattuale’, di pretenzioso, addirittura di ‘violento’. L’influenza del modello organizzativo delle scienze ha finito per gettare implicitamente discredito proprio su quel tipo di sintesi razionale di cui oggi si sente acutamente la mancanza. Alla paradossale condizione odierna, di un irrazionalismo grondante di informazioni irrelate, oggi finiscono per ‘porre rimedio’, guru autopromossi, tuttologi da Talk Show, promotori di fedi, e fondamentalisti vari. Occasionalmente (su appello dei media più scrupolosi) viene convocato qualche scienziato in pensione, la cui autorevolezza settoriale viene spesa per farlo esprimere su ‘massimi sistemi’ di cui, nel migliore dei casi, è un tardivo dilettante.

In questo contesto, invece, l’indagine filosofica è l’unica forma culturale nota ad aver elaborato metodi e forme riflessive adatti a produrre sintesi razionali (scientificamente informate), quadri sistematici, ‘mappe’ e ‘visioni’ che consentano una lettura del presente e un orientamento razionale nel mondo. Una visione che miri alla comprensività e coerenza d’insieme non ha né rigore né statuto razionale inferiore a una visione analitica. La filosofia ha il diritto, ma anche il dovere, di porre un argine a questo pluralismo brado che, lungi dall’essere un contributo alla ragione, rappresenta una paradossale e strisciante abdicazione ad ogni intelligenza.

 

 

 

2 Risposte a “Che fine ha fatto la filosofia nell’era del caos? (da “L’Espresso” 18/06/2017)”

  1. Tristemente vero. E lo dico da (ex) scienziato in scienze fisiche. Sono lontani i giorni in cui la comunita’ scientifica si occupava di filosofia della scienza.

    PS Bellissimo blog. Complimenti all’autore.

  2. In generale l’articolo mi ricorda molto una frase di Marc Bloch presente nell’introduzione de “l’apologia della storia” nel quale le varie branche del sapere (tra cui appunto la storia) sono affiancate da un sapere capace di scrutarne i metodi.

    Ma la parte che mi ha colpito molto è stata questa:

    “Questa frammentazione dei saperi non è però un incidente senza vittime. Il suo risultato complessivo è una forma storica inedita di irrazionalità. Un mondo sommerso di saperi specialistici, e di informazioni particolari irrelate, produce un disorientamento cognitivo profondo e diffuso. L’esito paradossale è che in un mondo apparentemente dominato da paradigmi scientifici lo spazio per pregiudizi vaghi, leggende metropolitane, credenze settarie, sapienze ‘alternative’, dogmi incoercibili, ecc. è più ampio che mai.”

    In effetti da qualche tempo in testa mi balenava in testa una questione. Quando si parla di vaccini a volte ho incontrato persone che, totalmente a caso, davano la colpa al non credere agli esperti all’eccesso di cultura umanistica italiana, quasi sottolineando che aumentare la massa di cultura scientifica fosse una risposta sufficiente ad arginare il problema.

    Ma in effetti, tralasciando che l’affermazione in se è abbastanza una “corbelleria”, sarebbe questa una soluzione? Certamente sarebbe utile conoscere qualche dato di biologia in più e qualche teorema in più, però alla fine riempire la testa di sapere scientifico è effettivamente utile per evitare questi fenomeni?

    D’altra parte 5 anni fa c’era gente impanicata con i Maya ed il 2012, ma per evitare quella credenza sarebbe stato necessario introdurre ore di Antropologia e storia delle americhe precolombiane?

    Il fatto è che secondo me il meccanismo che porta al diffondersi di credenze irrazionali (quelle che comunemente chiameremmo stronzate) colpisce un livello più profondo. Non è la carennza in questo o quell’altro campo la cosa principale è la mancanza di un metodo generale di approccio alla notizia, di capacità di ragionamento critico di fronte ad essa. Terra terra è quella che ti porta a dire “perché diavolo devo credere ad Adam Kadmon/ad un medico radiato dall’ordine dei medici per aver manipolato i dati su vaccini ed autismo”?

    E questo articolo mi ha fatto molto pensare come questa “malattia del sapere” sia invece anche un livello oltre quello che pensavo e soprattutto mi lascia molto dubbioso sulla soluzione. Oggi come oggi un tuttologo non sembra possibile (almeno finché non creeranno chip di memoria per il cervello) e forse nemmeno raccomandabile ed il problema va comunque affrontato.

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