Coscienza umana e intelligenza artificiale (da “L’Espresso” del 13/08/2017)

Da Hal di 2001: A Space Odyssey a Dolores di Westworld, uno dei grandi temi dalla fantascienza contemporanea è la possibilità di acquisire coscienza da parte di computer (automi) altamente sofisticati. Questa prospettiva diviene però controversa quando travalica la fantascienza e viene ripresa in ottica futurologica, ad esempio quando movimenti ‘transumanisti’ vagheggiano una novella escatologia dove forme d’intelligenza artificiale rimpiazzeranno la coscienza umana, e dove, delegando a queste intelligenze artificiali la costruzione di intelligenze ancora superiori, l’umanità verrà evolutivamente superata (singolarità tecnologica).

Posto che di motivi per soppiantare l’umanità con qualcosa di meglio non ne mancherebbero, la domanda interessante è un’altra: in che misura possiamo reputare possibile (prima che eventualmente auspicabile) che una macchina con straordinarie capacità computazionali possa diventare cosciente, ereditando la mente umana per superarne i limiti?

Prima di rispondere va chiarito cosa intendiamo qui con possibile o impossibile. In un certo senso di possibilità è perfettamente possibile che Dio rovesci domattina ogni legge di natura, o che tra un quarto d’ora il pianeta Terra venga spazzato via dai Vogon per far passare una superstrada galattica. Sono possibilità che nessuno può escludere, ma sono anche possibilità inservibili per guidare la nostra azione, prive di ragioni che le rendano plausibili. Le possibilità di cui ci interessiamo qui sono invece solo quelle dove abbiamo ragioni per credere che possano realizzarsi.

Ora, in questo senso di possibilità, è possibile che una macchina particolarmente complessa possa pervenire alla coscienza in senso umano?

Consideriamo in prima istanza l’idea che il cervello umano e il computer siano distinti essenzialmente dalla complessità delle connessioni. Sotto queste premesse si potrebbe supporre che in un computer particolarmente sofisticato la coscienza possa sorgere spontaneamente. Se il cervello umano è semplicemente un’entità con maggiori scambi tra neuroni, dendriti e sinapsi rispetto ai bit disponibili in un cervello artificiale, allora è sensato ritenere che, raggiunto un certo grado di complessità, il cervello artificiale possa esercitare le medesime funzioni di quello umano.

Il problema qui è che ciò che chiamiamo coscienza sopravviene ad un particolare sostrato materiale, un cervello, anzi un cervello organicamente inserito in un corpo agente e senziente (un cervello da solo è un pezzo di carne). Ora, che ragioni abbiamo per ritenere probabile che le stesse caratteristiche supportate dalla materia biologica di un corpo vivente possano spontaneamente emergere in un sostrato costituito di rame, silicio, tungsteno, ecc.? Siamo naturalmente liberi di immaginare che ciò accada, così come siamo liberi di immaginare che un’invasione aliena di pecore guerriere rovesci l’ordine mondiale, ma quanto a ragioni per crederci è decisamente più probabile che un cadavere riprenda spontaneamente coscienza, rispetto all’opzione che quella materia inorganica lo faccia. La coscienza infatti si presenta come una funzione della vita, e un cadavere, almeno, è costituito da materia che sappiamo predisposta a ospitare la vita, diversamente dal sostrato di un computer.

Le ‘finalità’ che attribuiamo ai sistemi computazionali non somigliano affatto alle motivazioni di un vivente. Si tratta di stringhe di informazione, di sintassi senza semantica. Tali “fini” non appartengono alla macchina e una volta ‘realizzati’ lasciano la macchina ‘vuota’, senza ‘motivazione’ alcuna. La volontà che pervade i viventi infatti non è la mera tendenza a realizzare qualcosa, poiché ogni realizzazione particolare è parte di quel contenuto motivazionale generale che è il vivere in sé. È questa tensione a definire per una coscienza vivente la sensatezza o insensatezza dei suoi atti. L’errore ‘stupido’ che occasionalmente incontriamo in un correttore di bozze o in un traduttore automatico è stupido per noi, ma per il computer non è né stupido né intelligente, perché non ne va di nulla di rilevante per la ‘propria vita’, per l’ottima ragione che qui vita non c’è.

Un computer è qualcosa che è stato costruito per simulare alcune facoltà disponibili alla coscienza umana, come memoria e inferenza (deduzione). Ma coscienza è innanzitutto presa di posizione verso il mondo con atti come preferire, desiderare, godere, soffrire, ecc. Questi tratti ‘valoriali’ precedono (sia filogeneticamente che ontogeneticamente) lo sviluppo di capacità raziocinanti, le indirizzano, orientano e motivano. Perciò, ricreare facoltà di registrazione o deduzione è utile a esseri che possiedono già quei tratti, ma non avvicinano di un passo la sostituzione della coscienza con dispositivi artificiali.

Di fatto un computer può stupirci per la capacità di accrescere alcune nostre facoltà, così come l’invenzione storica della scrittura stupì per la sua capacità di potenziare le facoltà di memorizzazione e di analisi precedentemente disponibili. Ma nel caso del computer come della scrittura ci troviamo di fronte a estensioni di facoltà umane che dipendono integralmente per esercitarsi dal potersi affidare a facoltà umane. Così come un libro senza un lettore competente è solo una sequenza di segni neri su sfondo bianco, così un computer senza una mente umana che a monte pone problemi e a valle interpreta le soluzioni è solo un sistema di trasmissione di impulsi elettromagnetici.

Che dire infine della possibilità di forgiare intelligenza artificiale manipolando direttamente materia biologica, secondo il modello fantascientifico dei cyborg? In quest’ultimo scenario è pensabile che si possano assemblare entità capaci di coscienza; il problema diventa un altro: come garantire che si tratterebbe di una coscienza ‘umana’, nei vari sensi che la parola richiama. Infatti il controllo che possiamo avere su un artefatto costruito seguendo nozioni fisiche scomparirebbe di fronte ad una ‘mente’ ottenuta assemblando materia vivente (cerebrale, nervosa, ecc.). Anche se avessimo piena conoscenza di come dev’essere strutturato fisicamente un organismo (un cervello) per ospitare atti mentali, non avremmo comunque controllo su quegli atti proprio in quanto sono atti. C’è uno iato esplicativo tra i processi che implicano ‘prese di posizione’ (intenzioni, atteggiamenti, volontà) e i processi descrivibili in termini meramente fisici (cause efficienti). Conoscere i secondi non garantisce di prevedere i primi. Perciò, il giorno in cui portassimo alla luce un cyborg dotato di intelligenza artificiale e coscienza, nulla potrebbe garantirci che quella coscienza sia congenere alla nostra. Potrebbe trattarsi di una coscienza con le propensioni empatiche di un rettile, gli istinti di un parassita, o altro. Nessun ‘test di Turing’ potrebbe mai escluderlo, giacché una coscienza con fini propri potrebbe dissimulare la propria natura. Affidare a una tale coscienza artificiale le nostre sorti ed eredità non sembra possa diventare mai altro che una distopia.

 

4 Risposte a “Coscienza umana e intelligenza artificiale (da “L’Espresso” del 13/08/2017)”

  1. Spero senza suscitare antipatia, come espressione di un sincero desiderio di capire, mi permetto di presentare alcune obiezioni e di chiedere gentilmente al professor Zhock di rispondervi (se appena possibile).
    Cito:
    “Il problema qui è che ciò che chiamiamo coscienza sopravviene ad un particolare sostrato materiale, un cervello, anzi un cervello organicamente inserito in un corpo agente e senziente (un cervello da solo è un pezzo di carne). Ora, che ragioni abbiamo per ritenere probabile che le stesse caratteristiche supportate dalla materia biologica di un corpo vivente possano spontaneamente emergere in un sostrato costituito di rame, silicio, tungsteno, ecc.? Siamo naturalmente liberi di immaginare che ciò accada, così come siamo liberi di immaginare che un’invasione aliena di pecore guerriere rovesci l’ordine mondiale, ma quanto a ragioni per crederci è decisamente più probabile che un cadavere riprenda spontaneamente coscienza, rispetto all’ opzione che quella materia inorganica lo faccia. La coscienza infatti si presenta come una funzione della vita, e un cadavere, almeno, è costituito da materia che sappiamo predisposta a ospitare la vita, diversamente dal sostrato di un computer”.

    E chiedo: in che senso la coscienza “sopravviene ad un particolare sostrato materiale, un cervello, anzi un cervello organicamente inserito in un corpo agente e senziente”?
    Secondo me l’ unica certezza scientifica (che ovviamente non significa assoluta e indubitabile, per lo meno in sede teorica, prescindendo dalla pratica) é che per ogni cervello umano sufficientemente sviluppato e appartenente a un corpo umano sufficientemente educato per poter essere sottoposto ad esami neurologici con strumenti più o meno sofisticati come macchine di imaging funzionale, elettrodi, sensori, emettitori di impulsi magnetici, ecc., nonché poter rispondere adeguatamente alle domande degli esaminatori, determinati eventi neurofisiologici che vi accadono (e non altri) corrispondono a determinate esperienze coscienti (e non altre) che la “cavia umana” può riferire di vivere, di provare agli sperimentatori.
    Questa credenza non é provata oltre ogni -sia pure “irragionevole”- dubbio dagli esperimenti stessi: infatti nessuno può “sbirciare” da qualche parte, nel rispettivo cervello o altrove, per verificare/falsificare la reale esistenza di una coscienza propria della cavia umana in questione (ciascuno ha accesso unicamente alla coscienza sua propria); e le -eventualmente apparenti- parole pronunciate dalla cavia umana stessa potrebbero in teoria essere suoni casuali “stranamente” assomiglianti a frasi sensate un po’ come in Sardegna esistono scogli “stranamente” assomiglianti” a statue di elefanti; e se Cartesio prende in considerazione l’ ipotesi di un genio malefico che ci inganna facendoci credere di vivere come reale un’ esperienza invece meramente apparente e Putnam lo imita un po’ goffamente col suo “cervello nella vasca”, nulla ci vieta di considerare (con David Chalmers) la strampalatissima ipotesi che il soggetto umano in questione sia una specie di zombi che si comporta in tutto e per tutto come un soggetto cosciente pur in assenza di esperienza fenomenica.
    Questa credenza nell’ esistenza reale delle esperienze coscienti riferite (realmente?) da chi é sottoposto agli esperimenti neurologici di cui sopra può ben essere estesa ragionevolmente anche agli uomini afasici, ad improbabili “bimbi cresciuti fra gli animali della foresta”, a gran parte degli altri animali per lo meno piuttosto simili agli uomini, agli esseri umani oltre un certo grado di sviluppo embrionale-fetale (l’ ”incertezza di limiti e confini” é una regola generale in biologia; in particolare non é identificabile un limite oltre il quale un essere umano in via di sviluppo embrionale-fetale o magari poco dopo oppure un animale piuttosto affine ad un uomo può essere ragionevolmente pensato “corredato di coscienza”, per quanto limitata, elementare; e questo impone -o dovrebbe imporre- un principio di prudenza in questi casi incerti, consistente nel rischiare sempre di rispettare come cosciente un organismo che eventualmente non lo fosse e non rischiare mai di trattare come non cosciente un individuo che eventualmente lo fosse).
    Ma l’ unica base su cui fondare (non indubitabilmente) la credenza nell’ esistenza di una esperienza cosciente é un “comportamento cosciente”; e non (non necessariamente, in teoria) il fatto che questo comportamento sia rilevabile in concomitanza col funzionamento di un particolare sostrato materiale: su altri pianeti potrebbero esserci, sempre in teoria e “cercando cartesiani peli nelle uova”, organismi “similumani” non fatti di proteine, acidi nucleici, zuccheri e grassi organici, ecc. “strutturati su catene di atomi di carbonio” come li sono i nostri analoghi; e chi si sentirebbe -se per assurdo capitasse di averci a che fare- di trattarli come se non fossero coscienti (come infatti potrebbero essere oppure non essere), di farli (apparentemente???) soffrire o morire per il mero fatto che il loro comportamento per lo meno “similcosciente” sopravverrebbe a un pezzo di ”similcarne” diverso da un cervello?
    Ma in linea puramente teorica o di principio (ovviamente non sono un‘ ottuso scientista per crederlo effettivamente possibile in patica!) una futuribile macchina guidata da un sofisticatissimo supercomputer potrebbe comportarsi come un uomo e conversare con noi raccontandoci di sue (inesistenti???) esperienze fisiche e mentali: nulla in linea puramente teorica o di principio potrebbe impedirlo. Volendo, da filosofi, cercare peli cartesiani nelle uova teoriche, la differenza fra la realizzazione di un rene artificiale che si comporta come un rene biologico tenendo in vita i dializzati e un irrealistico “cervello artificiale” che si comportasse come un cervello naturale biologico dirigendo il comportamento di un robot sarebbe meramente “quantitativa” (non un “salto di qualità”), relativa alle “enormissimamente” maggiore complessità della “macchina cerebrale” rispetto alla “macchina renale”; credo che in filosofia (ancor più che in scienza) esperimenti (puramente e ineluttabilmente mentali, come quello di David Chalmers degli zombi (uomini privi di coscienza che si comportano esattamente come uomini coscienti) o appunto questo dei robot “colloquianti”, dal comportamento indistinguibile da quello umano siano perfettamente leciti, nella consapevolezza del loro carattere paradossale, per cercare di capire.
    E allora (é un periodo ipotetico dell’ irrealtà!) mi sembra evidente che il principio etico di prudenza che applichiamo a feti umani e ad animali (e applicheremmo per assurdo a fantomatici extraterrestri dal corpo “non a base di carbonio”) dovrebbe essere esteso anche a tali macchine.
    Il che significa che sicuri che tali macchine non siano coscienti non potremmo essere.

    Sono però perfettamente d’ accordo che c’é una differenza abissale fra i cervelli (umani e animali) e i computer (“realistici”; prescindendo da quelli sofisticatissimi, del tutto irrealizzabili in pratica, che si comportassero come persone coscienti e colloquianti): i primi sono adoperati da “utenti” (umani!) che vi immettono intenzionalmente informazioni come “input” (informazioni in senso ampio: sia tecnico informatico che psicologico-empirico-fenomenico; ovvero “stringhe di informazione, di sintassi con semantica”) e ne leggono, pure come informazioni in senso ampio, gli “output” (input ed output che relativamente ai computer, contrariamente agli utenti umani, sono invece informazioni solo in senso tecnico informatico: “stringhe di informazione, di sintassi senza semantica”). Ovviamente nel caso del tutto irrealistico dei robot azionati da computer dal comportamento “similumano” (caso dalla realtà che, prendendo in giro i sostenitori del preteso “hardware cerebrale” su cui sarebbe implementato un software cosciente”, dovremmo considerare ineluttabilmente “virtuale”), ovviamente il dubbio riguarderebbe una eventuale coscienza “loro propria”, cioé correlata al loro -irrealisticamente ipotizzato- autonomo funzionamento (o meglio: comportamento), e non quelle di (inesistenti) loro utenti coscienti (umani).
    Invece, a meno di non cadere proprio nel peccato mortalissimo che i monisti materialisti sono soliti attribuire, scandalizzatissimi, ai dualisti (“cartesiani”; ma non si tratta dell’ unico dualismo possibile!) credendo all’ esistenza di un “fantasma nella macchina” (Ryle), a spettatori di un “teatro cartesiano” (Dennett) o ad un qualche “omuncolo” inevitabilmente implicante un regresso all’ infinito, i cervelli umani potrebbero pure funzionare analogamente a “elaboratori di informazioni” in senso tecnico informatico (e non psicologico cosciente fenomenico: esperimento mentale degli zombi); ma di certo non hanno nessun utente che vi immetta intenzionalmente input e riceva (e legga, e comprenda!) output, come informazioni in senso ampio, anche psicologico-empirico-fenomenico, unicamente disponibili alla (anzi: accadenti nella) loro propria esperienza fenomenica cosciente (come nulla potrebbe dimostrerebbe non accadere anche degli irrealistici computer sofisticatissimi di cui sopra, per l’ appunto).

    Grazie per la cortese (e paziente!) attenzione.

  2. Mi scuso, ma rileggendo il commento, ho trovato qualche piccolo errore che potrebbe rendere di dubbia comprensione alcune affermazioni; approfittando del fatto che il commento stesso é ancora “sotto moderazione”, se appena possibile, chiederei che fosse considerata la versione che copio incollo qui sotto:

    Spero senza suscitare antipatia, come espressione di un sincero desiderio di capire, mi permetto di presentare alcune obiezioni e di chiedere gentilmente al professor Zhock di rispondervi (se appena possibile).
    Cito:
    “Il problema qui è che ciò che chiamiamo coscienza sopravviene ad un particolare sostrato materiale, un cervello, anzi un cervello organicamente inserito in un corpo agente e senziente (un cervello da solo è un pezzo di carne). Ora, che ragioni abbiamo per ritenere probabile che le stesse caratteristiche supportate dalla materia biologica di un corpo vivente possano spontaneamente emergere in un sostrato costituito di rame, silicio, tungsteno, ecc.? Siamo naturalmente liberi di immaginare che ciò accada, così come siamo liberi di immaginare che un’invasione aliena di pecore guerriere rovesci l’ordine mondiale, ma quanto a ragioni per crederci è decisamente più probabile che un cadavere riprenda spontaneamente coscienza, rispetto all’ opzione che quella materia inorganica lo faccia. La coscienza infatti si presenta come una funzione della vita, e un cadavere, almeno, è costituito da materia che sappiamo predisposta a ospitare la vita, diversamente dal sostrato di un computer”.
    E chiedo: in che senso la coscienza “sopravviene ad un particolare sostrato materiale, un cervello, anzi un cervello organicamente inserito in un corpo agente e senziente”?
    Secondo me l’ unica certezza scientifica (che ovviamente non significa assoluta e indubitabile, per lo meno in sede teorica, prescindendo dalla pratica) é che per ogni cervello umano sufficientemente sviluppato e appartenente a un corpo umano sufficientemente educato per poter essere sottoposto ad esami neurologici con strumenti più o meno sofisticati come macchine di imaging funzionale, elettrodi, sensori, emettitori di impulsi magnetici, ecc., nonché poter rispondere adeguatamente alle domande degli esaminatori, determinati eventi neurofisiologici che vi accadono (e non altri) corrispondono a determinate esperienze coscienti (e non altre) che la “cavia umana” può riferire di vivere, di provare agli sperimentatori.
    Questa credenza non é provata oltre ogni -sia pure “irragionevole”- dubbio dagli esperimenti stessi: infatti nessuno può “sbirciare” da qualche parte, nel rispettivo cervello o altrove, per verificare/falsificare la reale esistenza di una coscienza propria della cavia umana in questione (ciascuno ha accesso unicamente alla coscienza sua propria); e le -eventualmente apparenti- parole pronunciate dalla cavia umana stessa potrebbero in teoria essere suoni casuali “stranamente” assomiglianti a frasi sensate un po’ come in Sardegna esistono scogli “stranamente” assomiglianti” a statue di elefanti; e se Cartesio prende in considerazione l’ ipotesi di un genio malefico che ci inganna facendoci credere di vivere come reale un’ esperienza invece meramente apparente e Putnam lo imita un po’ goffamente col suo “cervello nella vasca”, nulla ci vieta di considerare (con David Chalmers) la strampalatissima ipotesi che il soggetto umano in questione sia una specie di zombi che si comporta in tutto e per tutto come un soggetto cosciente pur in assenza di esperienza fenomenica.
    Questa credenza nell’ esistenza reale delle esperienze coscienti riferite (realmente?) da chi é sottoposto agli esperimenti neurologici di cui sopra può ben essere estesa ragionevolmente anche agli uomini afasici, ad improbabili “bimbi cresciuti fra gli animali della foresta”, a gran parte degli altri animali per lo meno piuttosto simili agli uomini, agli esseri umani oltre un certo grado di sviluppo embrionale-fetale (l’ ”incertezza di limiti e confini” é una regola generale in biologia; in particolare non é identificabile un limite oltre il quale un essere umano in via di sviluppo embrionale-fetale o magari poco dopo, oppure un animale piuttosto affine ad un uomo, può essere ragionevolmente pensato essere “corredato di coscienza”, per quanto limitata, elementare; e questo impone -o dovrebbe imporre- un principio etico di prudenza in questi casi incerti, consistente nel rischiare sempre di rispettare come cosciente un organismo che eventualmente non lo fosse e non rischiare mai di trattare come non cosciente un individuo che eventualmente lo fosse).
    Ma l’ unica base su cui fondare (non indubitabilmente) la credenza nell’ esistenza di una esperienza cosciente é un “comportamento cosciente”; e non (non necessariamente, in teoria) il fatto che questo comportamento sia rilevabile in concomitanza col funzionamento di un particolare sostrato materiale: su altri pianeti potrebbero esserci, sempre in teoria e “cercando cartesiani peli nelle uova”, organismi “similumani” non fatti di proteine, acidi nucleici, zuccheri e grassi organici, ecc. “strutturati su catene di atomi di carbonio” come li sono i nostri analoghi; e chi si sentirebbe -se per assurdo capitasse di averci a che fare- di trattarli come se non fossero coscienti (come infatti potrebbero essere oppure non essere), di farli (apparentemente???) soffrire o morire per il mero fatto che il loro comportamento per lo meno “similcosciente” sopravverrebbe a un pezzo di ”similcarne” diverso da un cervello?
    Ma in linea puramente teorica o di principio (ovviamente non sono un‘ ottuso scientista per crederlo effettivamente possibile in patica!) una futuribile macchina guidata da un sofisticatissimo supercomputer potrebbe comportarsi come un uomo e conversare con noi raccontandoci di sue (inesistenti???) esperienze fisiche e mentali: nulla in linea puramente teorica o di principio potrebbe impedirlo. Volendo, da filosofi, cercare peli cartesiani nelle uova teoriche, la differenza fra la realizzazione di un rene artificiale che si comporta come un rene biologico tenendo in vita i dializzati e un irrealistico “cervello artificiale” che si comportasse come un cervello naturale biologico dirigendo il comportamento di un robot sarebbe meramente “quantitativa” (non un “salto di qualità”), relativa alle “enormissimamente” maggiore complessità della “macchina cerebrale” rispetto alla “macchina renale”; credo che in filosofia (ancor più che in scienza) esperimenti (puramente e ineluttabilmente mentali, come quello di David Chalmers degli zombi (uomini privi di coscienza che si comportano esattamente come uomini coscienti) o appunto questo dei robot “colloquianti”, dal comportamento indistinguibile da quello umano siano perfettamente leciti, nella consapevolezza del loro carattere paradossale, per cercare di capire.
    E allora (é un periodo ipotetico dell’ irrealtà!) mi sembra evidente che il principio etico di prudenza che applichiamo a feti umani e ad animali (e applicheremmo per assurdo a fantomatici extraterrestri dal corpo “non a base di carbonio”) dovrebbe essere esteso anche a tali macchine.
    Il che significa che sicuri che tali macchine non siano coscienti non potremmo essere.
    Sono però perfettamente d’ accordo che c’é una differenza abissale fra i cervelli (umani e animali) e i computer (“realistici”; prescindendo da quelli sofisticatissimi, del tutto irrealizzabili in pratica, che si comportassero come persone coscienti e colloquianti): i primi sono adoperati da “utenti” (umani!) che vi immettono intenzionalmente informazioni come “input” (informazioni in senso ampio: sia tecnico informatico che psicologico-empirico-fenomenico; ovvero “stringhe di informazione, di sintassi con semantica”) e ne leggono, pure come informazioni in senso ampio, gli “output” (input ed output che relativamente ai computer, contrariamente agli utenti umani, sono invece informazioni solo in senso tecnico informatico: “stringhe di informazione, di sintassi senza semantica”). Ovviamente nel caso del tutto irrealistico dei robot azionati da computer dal comportamento “similumano” (caso dalla realtà che, prendendo in giro i sostenitori del preteso “hardware cerebrale” su cui sarebbe implementato un software cosciente”, dovremmo considerare ineluttabilmente “virtuale”), ovviamente il dubbio riguarderebbe una eventuale coscienza “loro propria”, cioé correlata al loro -irrealisticamente ipotizzato- autonomo funzionamento (o meglio: comportamento), e non quelle di (inesistenti) loro utenti coscienti (umani).
    Invece, a meno di non cadere proprio nel peccato mortalissimo che i monisti materialisti sono soliti attribuire, scandalizzatissimi, ai dualisti (“cartesiani”; ma non si tratta dell’ unico dualismo possibile!) credendo all’ esistenza di un “fantasma nella macchina” (Ryle), a spettatori di un “teatro cartesiano” (Dennett) o ad un qualche “omuncolo” inevitabilmente implicante un regresso all’ infinito, i cervelli umani potrebbero pure funzionare analogamente a “elaboratori di informazioni” in senso tecnico informatico (e non psicologico cosciente fenomenico: esperimento mentale degli zombi); ma di certo non hanno nessun utente che vi immetta intenzionalmente input e riceva (e legga, e comprenda!) output, come informazioni in senso ampio, anche psicologico-empirico-fenomenico, unicamente disponibili alla (anzi: accadenti nella) sua propria esperienza fenomenica cosciente (come nulla potrebbe dimostrerebbe non accadere anche degli irrealistici computer sofisticatissimi di cui sopra, per l’ appunto).
    Grazie per la cortese (e paziente!) attenzione.

    1. Caro Giulio Bonali, quello che lei scrive è naturalmente sensato, ma è anche estremamente forzato.
      Il procedimento argomentativo che lei adotta è del tipo: “Siccome non possiamo avere la prova assoluta che…”. E davvero, dopo tutto abbiamo “solo” concomitanze, “solo” parallelismi, “solo” apparenti relazioni causa effetto. E da ciò lei trae una conclusione circa la necessità di tenere aperte tutte le possibilità che non sono state provate false.
      Ora, vede, il problema è che, senza alcuna concepibile eccezione, tutti i nostri ragionamenti sulla realtà possono giungere nel migliore dei casi a rintracciare appunto correlazioni, concomitanze tra eventi, regolarità di connessione, ecc. Così funziona la nostra conoscenza. Se decidiamo di esimerci dal trarre conclusioni tutte le volte che non abbiamo in mano una dimostrazione apodittica e priva di alternative, beh allora dobbiamo astenerci dal trarre qualunque conoscenza pratica di ogni genere, sempre. Nessuno può dimostrare in modo apodittico che noi in questo momento non si sia dentro Matrix, o che non siamo “dentro il sogno di una farfalla”, come recita il filosofo cinese.
      Ergo, questa impostazione del discorso è semplicemente inaccettabile per chiunque desideri agire sulla base della propria conoscenza empirica. Secondo i suoi criteri non c’è nulla che possiamo propriamente chiamare conoscenza empirica, perché non c’è mai nulla di empirico che sia assoggettabile ad una dimostrazione apodittica compiuta.

      Questo come risposta generale.
      Nello specifico, concordo con molte osservazioni che lei fa intorno, ad esempio, al fatto che la nostra base per definire qualcuno come un cosciente-vivente sia primariamente comportamentale. Il discorso qui potrebbe essere molto articolato. Se è interessato a tali temi ne ho discusso ampiamente in un libro uscito nel 2017 sul tema del libero arbitrio.
      Cordiali saluti.
      AZ
      (Zhok, non Zhock, by the way)

  3. Non era mia intenzione (evidentemente mi sono spiegato male e me ne scuso) negare il fatto che tutti i nostri ragionamenti sulla realtà possono giungere nel migliore dei casi a rintracciare correlazioni, concomitanze tra eventi, regolarità di connessione, ecc. Così funziona la nostra conoscenza; e soprattutto non intendevo proprio negare che Se decidiamo di esimerci dal trarre conclusioni tutte le volte che non abbiamo in mano una dimostrazione apodittica e priva di alternative, beh allora dobbiamo astenerci dal trarre qualunque conoscenza pratica di ogni genere, sempre, o che questa impostazione del discorso è semplicemente inaccettabile per chiunque desideri agire sulla base della propria conoscenza empirica.

    Mi era sembrato invece (probabilmente a torto) di avere ben distinto fra incertezza teorica da una parte e convinzioni e ineludibili (ed ovviamente di fatto da me non eluse) certezze pratiche dall’ altra.

    Mi scuso per il fatto di aver deformato il suo cognome (probabilmente per la suggestione derivatami da un altro famoso cognome sloveno o per lo meno triestino, quello dei fabbricanti il brendy “Stock 84”, che quando ero bambino sponsorizzavano la popolarissima trasmissione “Tutto il calcio minuto per minuto”, pur avendo letto (N.B.: non studiato; per quanto con grande interesse e soddisfazione) molti suoi libri fra i quali Libertà e natura, e la ringrazio per l’ attenzione.

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