Nota filosofica a margine sul tema della “Libertà di parola”

In tutta la discussione che si è innescata in questi giorni a partire dal caso Trump, sembra che ci sia un punto di potenziale confusione, che produce slittamenti nella riflessione.
 
In molti dicono, del tutto ragionevolmente, che non sempre è possibile lasciare completa libertà di parola. Vi sono casi in cui un’espressione verbale rappresenta manifestamente ed immediatamente un pericolo, e va limitata.
 
Certamente è così.
Tuttavia qui bisogna imparar a separare atti linguistici di tipo rappresentativo/assertivo da atti linguistici di tipo performativo, che sono essi stessi delle azioni. (Il riferimento qui è alle riflessioni sugli atti linguistici di Reinach, Austin, Searle, ecc.)
 
Esistono, non solo sui social ma in ogni contesto, frasi con un uso performativo improprio, ad esempio pericoloso per l’ordine pubblico o per l’incolumità di una persona, ecc.
Queste frasi sono già sempre soggette a limitazione a termini di legge.
 
Per esempio, gridare “Al fuoco, al fuoco” durante una rappresentazione teatrale, se non c’è alcun fuoco, non è meramente un “giudizio falso”, ma è un atto linguistico performativo pericoloso, e perciò illegale a termini di legge. La ‘perlocuzione’ della frase genera panico e il panico può provocare danni a cose e persone.
 
Nello stesso senso se chiamo alla rivolta contro la polizia o l’ordine costituito, questo è un atto linguistico performativo, di principio illegale e perseguibile.
 
Se minaccio qualcuno di gravi conseguenze, è la stessa cosa.
 
Se aggredisco verbalmente, diffamo o offendo qualcuno, è la stessa cosa.
 
Se incito qualcuno al suicidio, è la stessa cosa.
 
Ecc. ecc.
 
In verità la gran parte del linguaggio comune si dispiega in espressioni che hanno valore performativo, e che come tali sono già potenziale oggetto di sanzioni a termini di legge.
 
La libertà di parola è una richiesta con un terreno molto ben definito e limitato, ovvero le proposizioni di tipo rappresentativo, dotate di una pretesa di verità, di un ‘valore di verità’, cioè soggette di principio a verifica o smentita.
E naturalmente, a fortiori, rientrano in questo spazio le formulazioni dubitative e interrogative (domande, dubbi, interrogativi, problematizzazioni), che aprono la possibilità delle espressioni rappresentative/assertive.
 
La libertà di parola si muove solo su questo terreno.
 
Tutte le altre fattispecie sono già coperte da limitazioni e sanzioni possibili a termini di legge.
 
In ogni caso, la libertà di parola non implica affatto che queste parole non debbano avere repliche. Prendere la parola per formulare un’asserzione sottopone alla possibilità di essere contrastati da altre asserzioni, di essere smentiti e confutati.
 
L’unico contenuto di libertà qui sta nel non sottostare ad una censura preventiva, e a non poter essere perseguiti o sanzionati per il contenuto dell’asserzione (non essere perseguiti non esime dal portare la responsabilità morale delle proprie asserzioni, di cui ciascuno può essere chiamato a rispondere personalmente).
 
Qualcuno può dire che non sempre i casi sono così netti e chiari.
E questo è di nuovo vero (nel mondo i confini chiari e netti sono solo quelli tracciati artificialmente).
Esistono casi limite, casi rari, ma reali.
 
Se le asserzioni che formulo rappresentano le istruzioni per la costruzione di una bomba, ad esempio, questo è un caso limite: formalmente sto facendo semplici asserzioni verofunzionali, ma di fatto sto anche conferendo una grave capacità di nuocere ad altri soggetti.
Questa fattispecie è infatti, di nuovo, vietata.
 
Oppure, ancora, posso esprimere in forma neutralmente verofunzionale dei contenuti che non ero legittimato a riportare (ad esempio una conversazione privata, un segreto militare). Anche qui si apre un potenziale contenzioso (anche se il reato sanzionabile qui sta nel fatto di essermi appropriato originariamente di quell’informazione, non nel fatto di ripeterla.) Anche questo è un caso che può richiedere una riflessione attenta.
 
Tuttavia è assolutamente necessario tenere fermo un punto: se si prende la strada dei ragionamenti da ‘pendio scivoloso‘ (slippery slope), per cui, siccome ci sono casi limite controversi, allora tutto finisce per essere di diritto controverso e sanzionabile, beh deve essere chiaro che con ciò la libertà di parola e opinione è finita, stecchita, morta e sepolta.
 
Se si immagina di dover fare le normative ordinarie pensando capziosamente agli stati di eccezione, alle casistiche dubbie, deve essere chiaro che con ciò arriviamo direttamente allo stato di polizia.
E uno stato di polizia in un mondo a trazione privatistica, governato dalla forza degli interessi privati, è assai peggio di qualunque distopia orwelliana possiamo immaginare.
 
Quando si comincia a chiedere di correggere moralmente il linguaggio, come quando si chiede di bloccare preventivamente l’espressione del falso, deve essere chiaro che pretese del genere potrebbero avere un senso (un senso rischioso, beninteso) soltanto in un mondo in cui ogni sforzo pubblico viene fatto per costruire una solida e condivisa morale pubblica, ed una solida e condivisa conoscenza pubblica.
 
Siccome il mondo in cui oggi ci muoviamo va, più di ogni altra epoca nella storia, in direzione esattamente opposta a quell’edificazione di una morale e conoscenza pubblicamente accomunante, ne segue che ogni pretesa di limitazione di cui sopra, nel nome della morale e del vero, finisce per essere di fatto solo un esercizio di prevaricazione lobbystica, solo l’ennesima espressione del diritto del più forte.

6 Risposte a “Nota filosofica a margine sul tema della “Libertà di parola””

  1. Quindi come si procede, e chi procede a definire il confine tra caso controverso, eccezionale e norma? Come e chi procede a costruire una morale condivisa?

  2. La distinzione tra rappresentazione/asserzione da un lato e performatività dall’altro (o tra discorso verofunzionale e non) cattura solo superficialmente i fenomeni linguistici. Austin e Searle sono filosofi e quindi non necessariamente si preoccupano di confrontare le loro osservazioni con l’oggetto linguistico (le lingue storico-naturali). Se usciamo dall’ambito ristretto delle lingue indoeuropee (o anche dai confini geografici dell’europa linguistica), troviamo molte lingue che non dispongono della categoria del verbo (es. somalo o mandarino di Pechino) e quindi ogni loro frase sarebbe (uso il condizionale perché adotto provvisoriamente il punto di vista della teoria degli atti linguistici) solo rappresentazione/asserzione/negazione, senza perfomatività. E’ evidente che così non è. Dal punto di vista linguistico la teoria degli speech acts è una semplificazione; in realtà, non esistono enunciati senza performatività, solo che gli indici di tale performatività non si trovano nell’enunciato – come voleva Searle o Austin – ma nelle condizioni che l’enunciato presuppone e che si riassumono nel termine “enunciazione”. Così – sempre per restare all’ambito della logica formale – è necessario supporre che dietro ogni enunciato ci sia un contenuto “modale” (che si può rappresentare appunto in termini di far-fare, poter-fare, dover-fare, saper-fare, ecc.). Si tratta quindi di accoppiare ogni enunciato (sia esso performativo o meno) ad altrettanti enunciati modali, che si possono rappresentare mediante il metalinguaggio della logica modale. In breve, e per riassumere, se parliamo di lingue e non di metalinguaggi formali, non soltanto i cosiddetti enunciati performativi, ma nemmeno quelli rappresentativi possono essere considerati oggetti semplici, sottoponibili alla prova di verofunzionalità

    1. Nella mia ignoranza in fatto di linguistica non vedo come non si possano fare (e riconoscere piuttosto facilmente, almeno di solito) asserzioni che puramente e semplicemente esprimono convinzioni su fatti senza invitare ad agire (sempre che questo sia quanto qui affermato e io non fraintenda; comunque -mi pare indubbio- delle affermazioni sull’ essere, non sul dover essere)
      Anche se (a mio modestissimo parere molto ovviamente, banalmente, irrilevantemente circa la liceità delle asserzioni stesse) molto spesso (ma non certo sempre, necessariamente) chi le legge o ascolta può mutare, oltre alle sue credenze, anche il suo agire.
      Inoltre non comprendo il fatto che alcune -anzi, molte- lingue non indoeuropee, come il Mandarino, non consentirebbero (se ho ben compreso) di distinguere fra assertività e performatività.
      Lo trovo francamente incredibile, anche perché di fatto é possibile (e realmente accade) compiere traduzioni (ovviamente non “perfette” ma ragionevolmente più che soddisfacenti, adeguate ad intendersi) da qualsiasi lingua a qualsiasi lingua; traduzioni di testi di qualsiasi genere, non solo scientifici, che teoricamente tendono a limitarsi ad asserire, ma anche letterari (romanzi, poesie, ecc.), in cui spessissimo sono presenti desideri, aspirazioni, incitamenti ad agire (nelle lingue indoeuropee espressi per esempio tramite il modo imperativo).

  3. Oggi, sembra istituito un nuovo regime graphē paranómōnizzato: non più solo l’obliterazione di quel dato magistrale che fu la parresia, ma financo la negazione – tale il terrosismo importato dai faziosi bercianti la propria avida canizza – dell’isegoria.

  4. In un sistema di libero mercato globale quale siamo dove lo Stato esiste solo ed esclusivamente come ambiente degli scambi del mercato medesimo, senza poter intervenire e pesando il meno possibile, anzi essendo lo stesso Stato oggetto di possesso e mercato, qualunque riferimento etico non ha senso. L’etica in questo caso è un termine esibito solo per tutelare gli interessi del gruppo economico più forte. In questo ricadono gli altri aspetti inerenti la libertà in genere, la libertà di parola, i comportamenti ritenuti pericolosi per la Società.

  5. Dissento da un unico passo di questo ottimo e di questi tempi molto opportuno articolo:

    “Quando si comincia a chiedere di correggere moralmente il linguaggio, come quando si chiede di bloccare preventivamente l’espressione del falso, deve essere chiaro che pretese del genere potrebbero avere un senso (un senso rischioso, beninteso) soltanto in un mondo in cui ogni sforzo pubblico viene fatto per costruire una solida e condivisa morale pubblica, ed una solida e condivisa conoscenza pubblica”.

    Secondo me l’ espressione del falso (sull’ essere, non necessariamente sempre e comunque sul dover essere, come ottimamente spiegato in questo scritto), anche quando profferito in malafede (cosa che fra l’ altro é per lo meno quasi sempre impossibile da provarsi con certezza; e -ammesso e non concesso- da parte di chi?) non deve mai essere bloccata, né a posteriori, né tantomeno preventivamente (?), ma solo “combattuta” dialetticamente con argomenti di verità.
    Penso che non si debba negare il diritto di esprimere opinioni, vere o false che siano a giudizio di qualunque autorità costituita, nemmeno in un mondo (peraltro inesistente e che probabilmente mai esisterà in senso perfettamente compiuto) in cui ogni sforzo pubblico viene fatto per costruire una solida e condivisa morale pubblica, ed una solida e condivisa conoscenza pubblica.

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