Nota su fascismo e antifascismo

Premessa.

In una recente analisi, ho identificato nella chiusa il nemico storico del comunismo e socialismo (anche riformati) nella “destra neofascista e neoliberale”. Tale identificazione ha suscitato alcune reazioni inaspettate. A chi è partito improvvidamente lancia in resta con l’accusa di voler proporre l’ennesima “unità delle sinistre come fronte antifascista” ho già risposto più di quanto fosse necessario. Ma siccome ci sono state anche alcune sincere ed urbane richieste di chiarimento, un commento supplementare è opportuno.

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I termini “fascismo”/”fascista” sono tra i più usati e abusati nell’ordinaria discussione politica. Ma una breve riflessione può mostrare come questi termini compaiano nel dibattito corrente in quattro significati sostanzialmente differenti.

Il primo è quello relativo al fascismo come realtà storica, il secondo concerne il fascismo rivendicato dai neofascisti, il terzo è il fascismo evocato dagli antifascisti, e il quarto è il fascismo come analogia o metafora di una situazione politica reiterabile. Ciascuna di queste accezioni ha caratteri suoi propri e il rischio di fraintendimenti può essere perciò elevato.

Passerò ora brevemente in rassegna queste quattro unità di significato per arrivare, in conclusione, a spiegare perché oggi abbia perfettamente senso, per chi – come lo scrivente – simpatizza con la tradizione di ciò che fu il PCI, rimarcare oggi il carattere di nemico storico della “destra neofascista e neoliberale”, e allertare l’attenzione nei suoi confronti.

1) Il fascismo storico

Il fascismo è innanzitutto un episodio storico, che ha un luogo e tempo preciso, l’Italia tra il 1919 (o 1922) e il 1943, e che come tale non si ripeterà mai più. Il fascismo storico ha alcune caratteristiche che lo rendono intrinsecamente fraintendibile e ambiguo. Si tratta di un movimento che si è sviluppato senza avere alle spalle una teoria, procedendo come un esperimento politico a tratti eclettico e spesso ondivago. Perciò si possono trovare nella parabola fascista aspetti e caratteri abbastanza differenti, e naturalmente identificarne un nucleo centrale ed una componente marginale richiede sempre un atto interpretativo, che come tale può essere contestato.

Rispetto al fascismo storico la linea interpretativa che, alla luce di una riflessione pluriennale, trovo più convincente è quella che ne vede la matrice caratterizzante nel processo di nascita, a partire dallo squadrismo. È il processo di nascita, a mio avviso, a definirne i tratti stabili e quelli che risulteranno poi decisivi. Lo squadrismo è ciò che fornirà dopo il 1922 il ceto dirigente apicale del PNF ed è ciò che ne detta il carattere di fondo, su cui si innesta poi la vicenda della Stato fascista. Lo squadrismo è un fenomeno che unisce la violenza diffusa in truppe reduci dal più grande e duro conflitto della storia italiana all’impoverimento e all’insicurezza della piccola e media borghesia, che fa convergere i suoi timori sul “pericolo rosso” (incarnato dalla recente Rivoluzione sovietica). Nello squadrismo confluiscono dunque un fondamentale irrazionalismo e volontarismo coltivato dal contesto bellico, un fondamentale disprezzo della vita umana anch’esso di derivazione bellica, un bisogno di protezione in un contesto di miseria e incertezza, e l’elemento di identificazione ideologica del nemico nel comunismo/socialismo e nel connesso sindacalismo. Rispetto a questo retroterra, paradossalmente, Mussolini si presenterà come elemento di moderazione e responsabilità, come la voce capace di ricondurre a ragione l’anarchismo autoritario e violento degli squadristi, ed è in questo ruolo che riceverà la fiducia del re e dell’alta borghesia industriale italiana. Il retroterra socialista di Mussolini, differente in ciò dallo squadrismo, si lascia vedere nel “sansepolcrismo” del 1919, che in un contesto di impoverimento diffuso cercava di dare intelligentemente spazio a istanze sociali. Tuttavia queste istanze cessarono di avere un’influenza significativa subito dopo la Marcia su Roma.

È importante tenere fermo che lo Stato fascista non è il fascismo. Lo Stato fascista è stato il compromesso istituzionale che il PNF stipulò con altre componenti della società italiana, dai Savoia alla grande industria ai proprietari terrieri, per gestire il paese. È lo Stato fascista quell’entità di cui oggi possiamo talvolta dire che “ha fatto anche cose buone”. Ma all’interno dello Stato italiano del ventennio il fascismo è e rimane una componente logorante e destabilizzante. Lo è innanzitutto perché, nonostante le chiacchiere sulla romanità, nel fascismo non è l’interesse della nazione ad essere al primo posto, ma la fedeltà al partito. È la fedeltà al partito a definire l’assegnazione di ruoli pubblici, prebende, autorità, comandi ad una pletora di opportunisti e leccapiedi. Questa è, incidentalmente, una delle ragioni di fondo della scandalosa impreparazione militare che l’Italia mostrerà nel 1939. Il fascismo all’interno dello Stato fascista è un fattore di nepotismo e inefficienza. Se ciò che caratterizzava la romanità classica, del cui mito il fascismo cercò di ammantarsi, era il senso della dignitas e del dovere pubblico, questi tratti sono del tutto residuali nella cultura fascista. Lungi dall’essere nutrita dei modelli classici e della loro humanitas, il fascismo è soprattutto in sintonia con l’individualismo e macchinismo moderno, con il culto della velocità e della tecnica, con il Zang Tumb Tumb marinettiano.

In quest’ottica, due aspetti originari nel fascismo saranno decisivi per i destini del paese: l’irrazionalismo volontaristico e il disprezzo cinico per la vita umana. Saranno questi fattori a condurre Mussolini alle smargiassate deliranti sugli otto milioni di baionette (a fronte di un’impreparazione tecnologica e strategica imbarazzante), e a formulare i suoi calcoli cinici quanto fallaci su “qualche migliaio di morti per sedersi al tavolo della pace”. In ultima istanza lo Stato italiano venne sacrificato ai difetti costitutivi primari del fascismo.

Per quanto ci serve, questa digressione sul fascismo storico può bastare.

 

2) Il fascismo dei neofascisti

Già nell’immediato dopoguerra e poi rafforzandosi nel corso dei decenni è emersa una lettura del fascismo nobilitante, edulcorata e suggestiva, che ne ha cercato di fare un grande progetto ideale e sociale, sciaguratamente naufragato per occasionali errori. In alcuni gruppi, spesso per successione famigliare, del fascismo si è dimenticata la storia reale e se ne è rilanciata l’autointerpretazione mitologica: il mito dell’eroe, della bella morte, dell’amor di patria. Che il fascismo fosse emblematicamente caratterizzato dall’esemplare vigliaccheria di pestaggi di gruppo di individui isolati, che avesse distribuito potere ai più spregevoli lecchini, e che avesse portato l’amata patria alla più grande catastrofe della sua storia, di tutto ciò restavano tracce ai margini di una mitologia accuratamente coltivata.

Comprensibilmente, nei decenni del dopoguerra, quanti più problemi si affacciavano, quanto più la democrazia liberale mostrava i suoi limiti, tanto più l’autointerpretazione mitologica del fascismo si tingeva di colori attraenti. Il reale grigiore e la reale progressiva devastazione di ogni idealità che la democrazia liberale andava apparecchiando potevano essere sfidati – per chi rifiutava la prospettiva comunista – attraverso la riproposizione degli stilemi eroici del fascismo. Così avvenne che nel neofascismo italiano finirono per operare in confusa contiguità una sorta di idealismo romantico (legato alla propaganda del regime), e un culto della violenza e dell’individualismo (più filologicamente fondato), che ne faceva un perfetto ricettacolo per spostati, prepotenti e pura e semplice delinquenza (dalla banda della Magliana al variopinto popolo di molte curve ultras).

3) Il fascismo degli antifascisti

Come era naturale accadesse, nel dopoguerra la necessità di tenere la guardia alta nei confronti dei rigurgiti del regime fascista (peraltro ancora ampiamente presenti nella magistratura e nella pubblica amministrazione) aveva indotto ad istituzionalizzare una serie di rituali antifascisti, commemorazioni ed evocazioni. Con il passare del tempo, come tende ad accadere a tutti i rituali, è sopravvenuta una tendenza alla sclerotizzazione e alla morta ripetizione, che li ha privati sempre di più di ogni presa emotiva, soprattutto sui più giovani.

Ma questo non sarebbe stato un problema particolare, se questo antifascismo un po’ stanco non fosse stato ripreso come cardine di una strategia politica specifica da parte della sinistra. Quanto più la ‘sinistra’ postcomunista avviava quel processo di scissione a catena che ne ha caratterizzato la storia, perdendo ogni punto di riferimento, tanto più la tentazione di utilizzare l’antifascismo come collante residuo emergeva potente. Il richiamo all’unità antifascista da un lato rinnovava episodi del passato non privi di fascino (come il Fronte Popolare Spagnolo) e dall’altro, più concretamente, consentiva di fornire una ragione per stare insieme a forze il cui principale fattore di comunanza stava nel comune disorientamento. La dinamica dell’unità antifascista è insomma la più classica dinamica della ricerca di un nemico comune per fornire una motivazione negativa capace di unire soggetti che mancano di motivazioni positive per farlo.

Questo richiamo all’unità antifascista è giustamente screditato per diverse ragioni, ma due mi paiono decisive.

La prima è che è un’operazione che ha reiteratamente consentito di rimuovere e mettere sotto il tappeto la mancanza di una sostanza ideale comune. Questa rimozione ha finito per produrre come punto di caduta comune una semplice forma di vago ‘liberalismo dal volto umano’, inerte e incapace di promuovere qualunque cosa che non fosse la gestione passiva dell’economia di mercato secondo le mode del momento.

La seconda, più grave, è che si è trattato di un’operazione che ha fatto da levatrice al proprio becchino. Soprattutto a partire dagli anni ’90 del XX secolo, in un contesto dove il fascismo era sostanzialmente scomparso dai radar nazionali e internazionali, mentre trionfava il neoliberismo, il richiamo all’unità antifascista ha svolto un ruolo paradossale. Questo antifascismo strumentale, infatti, si poneva in antitesi non al fascismo storico, e neppure particolarmente ai neofascismi di cui si erano viste crude espressioni negli anni ’70, bensì al fascismo immaginario della propaganda fascista. L’unità antifascista, non avendo di fronte nessuno squadrismo e neppure più lo stragismo, si costruì come bersaglio immaginario un fascismo con tratti classici: il fascismo che plaudiva alla forza dello Stato sull’individuo, che cantava l’eroismo guerresco, che inneggiava alla disciplina e alla patria. Era di questo fascismo, lontano dalla sostanza del ventennio, ma presente nella propria autorappresentazione pubblicitaria, che l’unità della sinistra antifascista fece il suo bersaglio polemico.

Le ragioni di questa tendenza non sono difficili da scorgere: in quegli anni l’unico punto di caduta comune delle forze della ‘sinistra’ era oramai divenuto una famiglia di varianti liberali, dal libertarismo postmoderno al mercatismo ‘dal volto umano’. Prendersela col fascismo nei suoi tratti più chiaramente individualisti e anticomunisti non era pensabile. Era invece di gran lunga preferibile creare un fantoccio con quei materiali propagandistici che creavano analogie tra il fascismo presunto e il morente comunismo sovietico. Era insomma l’antifascismo vestito dei panni della lotta liberale “a tutti i totalitarismi”.

La tragedia in questa farsa è che l’antifascismo delle sinistre ha rappresentato la più efficace operazione di propaganda di un fascismo immaginario, nobilitato in pose classiche, decisionista, disciplinare, eroico e patriottico. L’antifascismo della sinistra, insomma, ha dato man forte alla creazione di un’immagine nobilitata dell’estrema destra, un’immagine che, diversamente dalla realtà del ventennio, si poteva atteggiare a popolare e anticapitalista.

Un capolavoro.

 

4) Il fascismo come categoria

Per completare il quadro dobbiamo affrontare l’ultimo, e forse più complesso, punto. Posto che il fascismo storico ovviamente non si è ripresentato né si ripresenterà più nelle forme uniche del ventennio, il termine ‘fascista’ e ‘fascismo/i’ è spesso utilizzato, in modo discutibile, per esprimere un’analogia funzionale con alcuni tratti ritenuti essenziali nel fascismo storico.

E naturalmente non esistono due autori che concordino su cosa sarebbe questo ‘fascismo essenziale’; perciò l’utilizzo del termine per nominare eventi contemporanei risulta più o meno sempre un abuso.

E tuttavia, se si evita l’uso diretto di ‘fascismo’, modulandolo in modo cautelativo, (parafascista, neofascista, ecc.) è legittimo, e può essere illuminante, utilizzarne la matrice come un paradigma analitico e anche ammonitore.

È sicuramente legittimo dire che, dopo il venir meno del fascismo storico, sono esistite tendenze neofasciste o parafasciste realmente pericolose. Si tratta di tutte quelle situazioni in cui i tratti di autoritarismo, irrazionalismo (anti-intellettualismo), eversione, ed anticomunismo (tutti aspetti caratterizzanti del fascismo storico) si sono accoppiati alle ragioni neoliberali. L’esempio preclaro di questa dinamica è stato sicuramente il Cile di Augusto Pinochet.

Le condizioni storiche per il riemergere di questo ‘canone neofascista’ sono abbastanza chiare. Ogni qualvolta si presenta un’elevata conflittualità sociale, con gravi criticità economiche, coinvolgenti la piccola e media borghesia, se si identifica l’ostacolo in un’entità dipinta con tratti comunisteggianti il canone neofascista neoliberale si attiva.

Si badi che non è affatto importante che quell’entità simil-comunista esista davvero. L’essenziale è che si riesca a dipingerla con quei tratti, in modo da far risaltare le istanze del mercatismo neoliberale come tratti liberatori, emancipativi, risolutivi. Il fascismo immaginato dall’antifascismo di sinistra non ha nessuna chance di realizzarsi, non più di quanto possiamo assistere alla resurrezione di Giulio Cesare. Ma il neofascismo neoliberale, che usa la rabbia e l’insicurezza della piccola e media borghesia per presentare lo stato minimo come un grande ideale liberatorio, per scatenarsi contro i ‘lacci e lacciuoli’ di ogni regolamentazione per il bene comune, per sopprimere residui redistributivi come la tassazione progressiva, per reintrodurre un po’ di sano darwinismo sociale, ecco questo è perfettamente possibile.

 

5) Conclusione: un’interpretazione del contesto presente

Ora, il problema di fronte a cui ci troviamo è il seguente.

È stato giusto stigmatizzare l’antifascismo in assenza di fascismo promosso dalla sinistra per superare le proprie divisioni. Tuttavia in questo processo si corre il rischio di dimenticare un fatto banale: il vero leit motiv che attraversa e governa la storia repubblicana non è affatto l’antifascismo in assenza di fascismo, ma l’anticomunismo in assenza di comunismo.

Il comunismo sovietico, quello dipinto nel 1948 con i cosacchi che si abbeveravano nelle acquasantiere di San Pietro, non è mai esistito in Italia, ma è stato evocato ininterrottamente come nemico fondamentale. Lo si è fatto contro il PCI, nonostante le sue caratteristiche di partito moderato e fedele al gioco democratico, ma lo si è fatto tranquillamente anche quando i comunisti nella politica italiana erano oramai ridotti a qualche panda da esporre ai curiosi, indirizzando l’anticomunismo contro tutto ciò che anche solo vagamente si presentasse come socialmente orientato, rivolto all’interesse pubblico, limitativo della libera impresa, insomma contro qualunque cosa rappresentasse un ostacolo all’imperio neoliberale. Questo anticomunismo è talmente profondo e diffuso che non ha nemmeno bisogno di essere nominato come tale.

Ora siamo una volta di più in una situazione in cui, sulla scorta della crisi da Covid, un’offensiva neofascista e neoliberale è tutt’altro che una remota ipotesi; piuttosto è incipiente nelle cose.

La natura specifica della crisi da Covid, sta remando in una direzione piuttosto definita.

La pandemia, con il suo carattere di minaccia invisibile da affrontare con le armi (fallibili e non miracolose) della scienza ha dato libero corso ad una rivolta antintellettualistica, antiscientifica, irrazionalistica, perfetta incarnazione del pensiero magico per cui la febbre sparisce se si rompono tutti i termometri.

Al tempo stesso le crescenti difficoltà della piccola e media borghesia impegnata nel lavoro autonomo vengono già ampiamente indirizzate contro il lavoro dipendente e specificamente statale, visto come privilegiato.

Inoltre, le limitazioni alla libertà personale che caratterizzano la gestione di eventi pandemici, come prevedibile in un’atmosfera segnata dall’individualismo neoliberale, sono lette come abuso e oppressione statale nei confronti dell’individuo, e spingono nell’usuale direzione neoliberale della liberazione dai vincoli di interesse pubblico.

Infine, i limiti operativi e finanziari dello stato italiano, la paralisi europea, e l’opposizione ad ogni istanza redistributiva finiscono per poter far confluire questo magma in un’unica direzione.

In questo contesto il timore non è ovviamente quello di vedere il passo dell’oca e le adunate oceaniche in Piazza Venezia, ma di vedere prima proteste anarcoliberiste di tipo eversivo (di cui ci sono già avvisaglie), e poi di assistere in risposta alla creazione dell’ennesimo capro espiatorio in quel poco di apparato pubblico e stato sociale rimasto, nel nome di un rinnovato darwinismo sociale, dipinto con tinteggiature libertarie.

Questa cosa è quanto una sintesi attuale di destra neofascista e destra neoliberale promette.

 

 

 

4 Risposte a “Nota su fascismo e antifascismo”

  1. Quindi (a meno di clamorose incomprensioni da parte mia) contrariamente a quanto si poteva fraintendere prima di questo efficace chiarimento, quella “destra” che “non è più un timore. Sta bussando alla porta” cosicché “per un post-Comunista l’ordine di priorità dei fronti di battaglia non può che cambiare: se è vero che la sinistra postmoderna e quella liberale sono un avversario politico, la destra neofascista e neoliberale sono il nemico” include a pieno titolo la ”sinistra” e il “centrosinistra” politicamente corretti, da Renzi a Speranza inclusi (per lo meno, se non anche “pezzi” di Potere al Popolo almeno).
    Perciò le parole che ho appena citato dal penultimo articolo non costituiscono affatto l’ ennesimo appello farlocco, strumentale e mistificatorio all’ “unità antifascista”, che anzi qui si stigmatizza a dovere.
    Tutti questi “sinistri e centrosinistri” politicamente corretti mi sembrano infatti incarnare pienamente, inequivocabilmente, acriticamente, entusiasticamente l’ “ultraliberismo anticomunista in assenza di comunismo” minimamente efficace e politicamente significativo (mi permetto questa precisazione “biaggettivale-biavverbiale” perché sono un vecchio panda non ancora defunto per il momento, e mi sento vivo e vegeto malgrado tutto, pur aspettandomi l’ evento supremo ovviamente a breve non essendo del tutto rincoglionito).
    Infatti, pur opponendosi a chi sbracatamente intende le limitazioni alla libertà personale che caratterizzano la gestione di eventi pandemici come abuso e oppressione statale nei confronti dell’individuo (e anzi approfittandosene anche un po’ per cercare di limitare ulteriormente i già non troppo estesi spazi di democrazia reale), non mi sembra proprio che facciano il ben che minimo sforzo per contrastare più in generale la visione propria dell’individualismo neoliberale, che spinge nell’ usuale direzione neoliberale della liberazione dai vincoli di interesse pubblico; né per impedire che le difficoltà della piccola e media borghesia impegnata nel lavoro autonomo vengano ampiamente indirizzate contro il lavoro dipendente e specificamente statale, visto come privilegiato.
    Anzi!
    Ed oltre a loro il nemico include ovviamente (ma mi dica pure senza eccessiva delicatezza o mal posta diplomazia se ritiene che sbaglio) i loro “corrispettivi” esteri Corbyn e Sanders, che non solo vengono celebrati dalla destra neofascista e liberale “peripiddina”, ma anche da taluni che si illudono di combatterla e che qualche mese fa li hanno addirittura additati come “moderni fari che indicherebbero la strada verso il socialismo” (secondo me cadendo in pieno nell’ antifascismo in assenza di fascismo promosso dalla sinistra per superare le proprie divisioni). Per non parlare di personaggi inqualificabili, autentici nemici del popolo, come si diceva una volta secondo me a ragione, quali sono Tsipras e Varufakis; e Biden ovviamente.
    Il problema é però secondo me innanzitutto quello di rendersi conto dell’ estrema gravità delle condizioni in cui ci troviamo e dell’ inesistenza di soluzioni facili e indolori, della necessità di dire chiaramente coram populo che se ne può uscire soltanto ad un prezzo elevatissimo di sudore, lacrime e sangue, per dirlo con le parole di un bieco reazionario del ‘900. Non si può sperare di (e non esserne certi!) guarire di un tumore maligno con cure Di Bella, tisane od omeopatia, ma solo affrontando mutilanti interventi chirurgici e dolorosissime chemioterapie; e promettere soluzioni facili ed indolori ai problemi attuali delle popolazioni lavoratrici é la via più rapida e sicura per scivolare inesorabilmente verso il più squallido “tsiprismo”.
    E inoltre é quello di come sia possibile cominciare a combattere efficacemente il nemico neofascista e neoliberale, di quali germi di consapevolezza di questa necessità si possano individuare e di come contribuire a sostenerli e svilupparli.
    E in particolare se e come, date le terribili circostanze nelle quali ci troviamo, sia necessario interloquire criticamente, senza lasciarsi condizionare dagli inquisitori sempre alla caccia delle streghe rossobrune ma anche senza perdere la bussola, pure con qualche gruppo e movimento “populista”, magari con inclinazioni neofasciste in buona fede e/o “sovraniste” (perché secondo me l’ Unione Europea é davvero una moderna “prigione dei popoli” da fare invidia al fu Impero Austroungarico; e la é precisamente perchè costituisce l’ istituzione che più conseguentemente, ferocemente e intransigentemente, nonché del tutto inemendabilmente, incarna ed esprime e difende e promuove il neofascismo neoliberale che usa la rabbia e l’insicurezza della piccola e media borghesia per presentare lo stato minimo come un grande ideale liberatorio, per scatenarsi contro i ‘lacci e lacciuoli’ di ogni regolamentazione per il bene comune, per sopprimere residui redistributivi come la tassazione progressiva, per reintrodurre un po’ di sano darwinismo sociale; il tutto ovviamente al servizio del grande capitale monopolistico nonché biecamente e terroristicamente imperialista).
    Spero che obiezioni, magari non troppo fondate ed ingenue, magari eccessivamente prolisse, come questa possano per lo meno servire a chiarire meglio i termini della (intricatissima) questione. Cosa di cui sento un gran bisogno.

  2. Ho letto, riletto, tutto interessante, spunti di riflessione importanti, ma la conclusione mi pare non corrispondente alle premesse in qualità.
    A parte che reputo oltremodo improbabili proteste anarcoliberiste di tipo eversivo, e mi piacerebbe sapere – ma sicuramente qui è colpa mia che ignoro una cronaca patetica dalla quale mi distanzio come e più posso – quali siano le avvisaglie a cui si riferisce, e soprattutto mi piacerebbe sapere perché queste improbabili proteste – che dovrebbero essere attuate da un popolo incontrovertibilmente non aduso alla piazza – vengono da Lei indicate come anarcoliberiste e non anarcopopuliste o anarcosovraniste o anarco qualsiasi altra cosa.
    E infatti – e arrivo al punto di critica o più prosaicamente di incomprensione maggiore – Lei mette in allarme contro una possibile/probabile offensiva prossima ventura neofascista, e sul punto taccio per non entrare in una narrativa che non mi compete e sulla quale non posso seguirla ma solo leggerla, e neoliberale. E qui trasecolo. Il neoliberismo è in guerra contro i Popoli occidentali da oltre 50 anni, gia nel 1968 ottenne vittorie fondamentali, sono ormai 30 anni che risulta invincibile, anzi 40, pensiamo a Reagan e Thatcher, ed è incarnato da quella che nominalmente è la sinistra ed il centro-sinistra. E quindi? Si paventa un liberismo di destra contrapposto ad un liberismo di sinistra?
    Dubbi di minor valore ma sempre sulla stessa lunghezza d’onda, per esempio quando parla di istanze redistributive delle quali non colgo alcuna traccia non solo nel dibattito politico, o pubblico, ma nella volontà popolare. Anche le querule, patetiche, penose e ridicole richieste avanzate da zombie della politica, Bersani e tra gli ultimi Orfini e Fratoianni, di imposizione patrimoniale, tutto hanno meno che scopi redistributivi ed illuminante mi pare in questo senso il commento che mi precede.
    Ovvia conclusione di quanto precede, per me già siamo in un contesto neofascista, fascismo come categoria ex punto 4 dell’articolo, e inevitabilmente liberista non solo nella componente governativa, ma anche nelle opposizioni, ovviamente nel mondo produttivo e confindustriale e purtroppo nel Popolo.

  3. Buonasera professore,

    leggerla è (quasi) sempre un (faticoso) piacere, e lo premetto non per conquistare la sua benevolenza ma come attestato di un’onestà e di un’urgenza della ricerca che non ho sempre riscontrato (anzi, diciamo pure che è cosa rara).
    Quello che ha scritto mi ha suggerito molte riflessioni e alcune (diciamo pure molte) critiche ma, essendo questo un semplice commento, le faccio una domanda “secca”: ammesso e non concesso che le sue conclusioni “filino”, ovvero che il nostro principale problema sia la prospettiva di una deriva eversiva di “destra” di massa, (cosa) dovrei votare alle prossime elezioni politiche?

    Posto che immagino sia probabile abbia perso alcuni (tutti?) i passaggi del suo ragionamento, spero colga il (mio) senso della domanda. Non voglio appiattire la sua riflessione sul “mero” problema del voto, ciò detto la politica non è una disciplina teoretica quindi si misura (anche e) soprattutto sul “che fare”.

    La ringrazio in ogni caso per il contributo e le (mi) auguro buona ricerca.

    (Perdoni le parentesi, non sono (solo) un vezzo “ma anche” (cfr.: WV, 1991) un modo di sintetizzare un ragionamento)

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