Empatia e manipolazione nell’opinione pubblica internazionale

Qualche giorno fa, seguendo una conferenza sul tema dell’empatia, ho avuto occasione di sentire un dato interessante, che riporto. Si trattava di un test sulle ‘capacità empatiche’ somministrato a un campione di giovani italiani (studenti). Il test, elaborato sul modello dell’Empathy Quotient di Simon Baron-Cohen, aveva, tra le altre due domande così concepite. Una chiedeva al soggetto sperimentale un’autovalutazione di quanto egli fosse empaticamente coinvolto dall’ascolto di notizie mediatiche di sofferenze altrui; la seconda chiedeva di nuovo un’autovalutazione, ma questa volta di quanto si fosse empaticamente coinvolti dalla visione (o lettura) di narrazioni finzionali (film, romanzi) dove comparivano sofferenze altrui.

Il risultato, particolarmente interessante, è che vi era una marcata sproporzione nel coinvolgimento emotivo nei due casi, tutto a favore della narrazione finzionale. In altri termini, una narrazione che apparisse nel contesto della pubblica informazione, come ‘notizia reale’, provocava un’adesione emotiva nettamente inferiore rispetto ad una narrazione, magari di contenuto identico alla prima, che si presentasse con i canoni della ‘notizia’.

Questo esito, apparentemente sorprendente sul piano psicologico, mi suggerisce la seguente riflessione.

Per quanto ne sappiamo, il sistema empatico nella specie umana si è sviluppato come forma di reazione rivolta a preservare l’unità del gruppo in relazioni faccia a faccia. Noi siamo mossi dall’empatia principalmente nella forma della visione diretta del dolore, o della percezione del grido, del pianto, ecc. A questo livello, salvo in una minoranza di casi di interesse psichiatrico, tutti gli umani si sentono coinvolti e tendono ad attivarsi. Nelle condizioni che hanno forgiato la specie umana per la stragrande maggioranza della sua storia, l’empatia era una risposta emozionale di fronte a manifestazioni fisicamente presenti, cui poteva seguire un’azione consona.

Con l’imporsi di forme comunicative a distanza, a partire dalla scrittura, si sono istituite forme di partecipazione mediata, con loro particolarità: esistono forme specifiche, ma a loro modo intense, di commuoversi per la sorte degli spartiati alle Termopili o per quella dello “Zio Tom” nel romanzo di Beecher Stowe. Qui la commozione non chiama più ad un intervento, ma promuove l’elaborazione di una visione del mondo, poi eventualmente attivabile in presenza di situazioni in qualche modo ‘simili’.

Senza seguire le complesse trasformazioni delle forme di comunicazione nella storia, giungiamo agli esiti ultimi, legati nell’ultimo mezzo secolo prevalentemente al ruolo del mezzo televisivo.

Oggi noi veniamo costantemente esposti a specifiche selezioni di stimoli cui dedichiamo la nostra empatia. Tutti i media e in particolare la televisione tendono a proporre in maniera preponderante eventi luttuosi, truculenti, violenti o dolorosi. Ciò avviene per una dinamica schiettamente economica: la necessità di accaparrarsi l’attenzione del maggior numero di spettatori spinge ad appellarsi ad emozioni di base, che sono, in ordine di coinvolgimento: erotismo, compassione e aggressività. L’evoluzione culturale però ha spostato l’utilizzo dell’attrazione erotica in buona parte al di fuori della sfera ‘informativa’, dedicandovi canali specifici. Il ricorso invece ai moventi emozionali di tipo empatico ed aggressivo è rimasto invece continuo e dominante.

L’utilizzo del richiamo all’empatia come strumento di attrattività mediatico ha prodotto nel tempo alcuni interessanti effetti. Il primo effetto è quello che si può intuire nell’esperimento di cui sopra, ovvero un certo ‘indurimento’ del pubblico, che, esposto sin dall’infanzia a emergenze strazianti, sciagure e sofferenze finisce per assuefarsi e derubricare il tutto a rumore di fondo. Un secondo effetto interessante è quello per cui si costruisce un immaginario assiologico in cui ‘essere una vittima’ appare come una delle forme privilegiate per aver diritto all’attenzione mediatica (e dunque pubblica).

Ma l’effetto più potente, e a mio avviso più problematico, di solito non viene affatto notato.
Di fatto l’esposizione mediatica della sofferenza, del dolore, della violenza, del sopruso opera, per ragioni intrinseche, come un’operazione manipolativa. Sul piano strettamente fattuale, per qualunque forma di sofferenza, dolore, violenza e sopruso potremmo trovare letteralmente un’infinità di esempi, sotto casa o in capo al mondo, fotogenici o meno. Su questo campo virtualmente infinito, lo zoom della notizia opera una messa a fuoco drasticamente selettiva, con cui l’evento emozionale ci viene portato in casa: veniamo così esposti ad una carica di pathos che accende la nostra empatia, salvo poi di norma lasciarci inerti a contemplare una fetta del ‘male nel mondo’, senza poterci fare nulla di concreto.

Finché ci si occupa di eventi sufficientemente prossimi da poter essere controllati e verificati nel lungo periodo, il flusso empatico iniziale può stimolare approfondimenti cognitivi, ritornare sul tema a più riprese, e magari correggere giudizi o le forme di intervento scelte (nella misura in cui dipendono da noi). Questo può essere il caso in occasione di un disastro naturale domestico, un’inondazione, un terremoto: qui l’empatia iniziale può funzionare in un modo in qualche misura ancora comparabile con quello originario; essa si presenta come una leva motivazionale che può incarnarsi in interventi di lungo periodo, facendosi carico della situazione problematica. Naturalmente, che ciò sia possibile non significa affatto che accada sempre, tutt’altro. Può accadere, e spesso accade, che anche un evento domestico, scompaia definitivamente dalla luce dei riflettori, avendo perduto la sua carica emozionale e dunque la sua funzione di attrazione mediatica. E tuttavia, per eventi nazionali è possibile, anche se non necessario, che l’evento riemerga attraverso diversi canali, testimonianze, connessioni personali, ed essendo alla portata di decisioni politiche, è possibile che all’appello emozionale iniziale faccia seguito ciò che antropologicamente più conta, ovvero la dimensione operativa, di lungo periodo, in cui seguono azioni all’altezza del problema.

Questo è il caso più fortunato. Anche qui, naturalmente, la telecamera o il servizio hanno operato una magnificazione selettiva che in qualche modo non può che avere effetti distorsivi: magari problemi appena meno salienti o parimenti salienti non cadono per accidente sotto la luce dei riflettori e rimangono perciò inevasi. Questa distorsione può tuttavia essere concepita come un prezzo da pagare implicito nell’ampliamento cognitivo legato all’accesso mediatico.

Questa distorsione tuttavia acquista dimensioni preoccupanti (anche in presenza di perfetta buona fede da parte degli operatori dei media) quando ci si sposta sul piano di realtà distanti, spazialmente e/o culturalmente. Qui si innescano a cascata una serie di problemi.
Nella coscienza contemporanea la nostra idea della realtà del ‘mondo’ è in gran parte mutuata dalle rappresentazioni mediatiche. Il problema ineludibile qui è che si viene a creare la perniciosa illusione di essere in qualche modo ‘cittadini del mondo’, abitanti che conoscono il mondo tutto e ‘se ne prendono cura’. L’ambizione di ‘vivere all’altezza del mondo’ è connaturata all’uomo, ma la sua incarnazione attraverso l’accesso mediatico produce un effetto paradossale, avvicinando sul piano emozionale ciò che è remoto e inattingibile, e spesso simultaneamente rimuovendo da questa ‘realtà’ ciò che è prossimo e affrontabile. Si crea così un’illusione strutturale tale per cui il fruitore mediatico viene convinto di ‘conoscere il mondo’ e di occuparsene attivamente, inviando magari una donazione o manifestando la propria indignazione sui social media.

Il nostro ‘mondo’ viene perciò rappresentato artificiosamente da una manciata di salienze ad alto tasso emozionale, rispetto alle quali siamo chiamati a ‘prendere posizione’ (e chi non lo fa può essere colpevolizzato per insufficiente ‘empatia’). Naturalmente l’operazione selettiva svolta ‘worldwide’ dai media non può che essere drasticamente selettiva e perciò drasticamente distorsiva. Quando parliamo di ‘selezione’ è utile tener presente che oltre un certo livello la selezione dei dati salienti è indistinguibile dalla mera invenzione: il grado di falsificazione è indistinguibile. (Sul piano percettivo si può dimostrare che persino in ciò che chiamiamo ‘allucinazioni’ c’è una base sensibile reale, solo ridotta ad una selezione minima liberamente interpretabile).

Quando arriviamo a questo livello di ‘informazione’ parlare di ‘buona fede’ nel dare l’informazione diviene sostanzialmente secondario. L’atto di estrapolazione di un evento da un decorso storico, geografico, culturale, geopolitico, distante e ignoto, che viene magari riassunto in un paio di minuti, per ‘scrupolo informativo’ (con sprezzo del ridicolo si parla qui di ‘approfondimenti’) è sempre inevitabilmente una falsificazione.

La norma della nostra conoscenza di eventi esteri veicolati dai media è la più schietta ignoranza, ignoranza in gran parte inevitabile con l’eccezione di quelle trascurabili minoranze che hanno di volta in volta rapporti approfonditi e di lungo periodo con le relative realtà. Quanto più ci si allontana dai confini nazionali, tanto più i resoconti mediatici degli eventi diventano simili a quelli degli antichi esploratori nei paesi esotici, che descrivevano le novità incontrate ricalcando, e deformando, gli schemi noti a casa propria (come Marco Polo che vedendo per la prima volta un rinoceronte lo descrisse come un unicorno, però scuro e brutto).

Tutto ciò accade inevitabilmente, anche quando i media cercano di fare il proprio dovere nel modo più equanime. La nostra opinione sugli ‘eventi del mondo’, eventi che riteniamo di ‘conoscere’ per aver guardato qualche scena dal buco della serratura, è un’esibizione imponente di presunzione. A partire da tale presunzione poi i veri danni vengono creati dal formarsi di una ‘opinione pubblica’ a proposito. Tale ‘opinione pubblica’ nasce dall’esigenza, tipicamente ‘umanitaria’ e moderna, di ‘schierarsi’, di dichiarare al mondo intero e a futura memoria ‘da che parte si sta’. Si creano così, rigorosamente sulle linee pre-tracciate dall’esperienza nazionale consueta, talvolta feroci contrapposizioni, più spesso, che è peggio, sdegni unanimi contro qualcuno (la storia mediatica è piena di ‘cattivi’, la cui cattiveria una volta conclamata agli occhi dell’opinione pubblica, ne ha permesso la rimozione – certo, magari con qualche danno collaterale su cui piangere più tardi, durante i consigli per gli acquisti.)

L’opinione pubblica, basata sull’accensione mediatica dell’empatia, è sempre lì a disposizione per ogni manipolazione, e serve egregiamente come copertura giustificativa per interventi internazionali le cui agende non sono mai dischiuse a quella stessa opinione pubblica.

Ciò che accade a tutti noi nella veste di spettatori, giorno dopo giorno, anno dopo anno, è di essere esposti a condizionamenti e ricatti emotivi, confezionati ad hoc in forma di ‘campagne’, che obbediscono ad agende politiche inammissibili. Così, nei nostri paesi occidentali, armati di telecomando e di una fermissima coscienza umanitaria, noi partiamo dai nostri divani in eroiche campagne d’opinione in cui diamo il nostro ‘contributo al bene dell’umanità’ esprimendoci su eventi di cui vediamo i frammenti dove è stata puntata la torcia, e il resto lo sogniamo liberamente, seguendo di solito le interessate suggestioni di qualche agenzia di stampa.

Al tempo stesso ignoriamo problemi su cui avremmo responsabilità dirette e capacità concrete di operare: dall’infanzia abbandonata delle nostre periferie urbane, alla morte civile di paesi terremotati e mai ricostruiti, alle infrastrutture cadenti, a una sanità al collasso con carovane della speranza da una regione all’altra, ad un’infinità di questioni che vengono proposte solo occasionalmente all’attenzione, per poi venir lasciate in un limbo di inerzia; dopo tutto il pensionato che, dopo una vita di lavoro, setaccia i cassonetti e crepa in solitudine è tipicamente difficile da drammatizzare, e ha un limitato appeal empatico, come non ce l’hanno i morti sul lavoro o quelli per non essersi riusciti a pagare gli esami medici, o quelli vissuti in ambienti degradati, perché solo lì c’era lavoro, ecc. ecc. Tutto questo è prosa, poco teatrale e per nulla esotica. Vuoi mettere il piacere di ‘risolvere’ d’un botto, con una manifestazione e una raccolta firme, i problemi di paesi esotici di cui non sappiamo nulla, rispetto al grigiore di occuparsi di questioni, su cui poi devi prosaicamente ritornare anche quando il climax empatico è passato. È così che nascono prese in giro pluridecennali come i famosi ‘aiuti al Terzo mondo’, che da tanto che l’abbiamo aiutato a colpi di sdegni postprandiali, sembrerebbe dover essere coperto d’oro.

L’appello mediatico all’empatia funziona così: invoca l’indignazione e la reazione immediata rispetto a un certo evento; su di esso, o sulla classe di eventi cui appartiene, si produce una focalizzazione insistente, estraendone alcuni tratti dal mare magnum degli eventi mondiali. Rispetto a questo pungolo emozionale si evoca la necessità di un intervento immediato, dove ogni riflessione e ogni mediazione andrebbero rigettate come perdite di tempo, irrispettose rispetto alla gravità degli eventi che richiedono una ‘nostra’ sollecita presa di posizione.

Una volta che la copertura dell’opinione pubblica c’è (incombenza di cui ci si deve occupare negli stati democratici), un’agenda politica pregressa (magari non nostra ma di un ‘utile alleato’) può imporsi serenamente; così possiamo guardare con qualche brivido, ma anche con compiacimento, gli elicotteri su Saigon, o le bombe su Baghdad, gli aerei su Belgrado o l’embargo su Cuba, il rovesciamento di Gheddafi o quello di Allende, ecc. ecc.
La manipolazione avviene sempre e necessariamente, anche se solo talvolta è manipolazione malevola con un secondo fine, e talaltra è manipolazione occasionale, legata magari a preferenze ideologiche del momento. La manipolazione è necessaria perché è basata su una salienza emozionale circoscritta, che rende interessante quella fettina di mondo solo per un tempo limitato, senza saper nulla di ciò che lo precede e senza doversi interessare delle conseguenze.

Una volta esaurita la parte avventurosa della storia le telecamere si spostano, lasciando dietro le macerie, e la celebre ‘opinione pubblica internazionale’ è pronta ad emozionarsi per un altro dramma da qualche parte sul globo, dove saremo pronti a dare il nostro imperdibile contributo, schierandoci dal divano, dopo aver visto un paio di servizi televisivi.
Eccoci, in tutto l’occidente un esercito di opinionisti di professione, che dall’alto della propria presunzione, e vestiti del proprio ‘umanitarismo’ sono pronti ad essere manipolati a piacimento. E felici di esserlo (anche questo è intrattenimento, dopo tutto).

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