Su verità e politica (ovvero, perché una concezione distorta della verità favorisce strutturalmente la peggiore partigianeria)

 

  • Parte I: Verità

Il termine ‘realismo’ in filosofia significa molte cose diverse, talvolta persino contrapposte. C’è tuttavia una forma di realismo ingenuo, abbinata ad una visione antica della verità, che rappresenta il compagno teorico ideale delle forme più ottuse di partigianeria.

Come sa chiunque abbia qualche confidenza con la tradizione filosofica, una delle definizioni classiche, e più intuitive, di “verità” è quella adequazionista (Veritas = adaequatio intellectus et rei), di cui una versione semplificata può suonare: “Verità è dire come stanno le cose”. Ci sono modi innocui, e anche modi utili, di intendere una frase del genere, ma di fatto essa richiama un’idea gravemente fuorviante. Si tratta dell’idea che una proposizione possa rappresentare in maniera esatta una realtà separata, che a sua volta consta di ‘stati di cose’ (o ‘fatti’). Qui ci si immagina la verità in una forma (i cui antecedenti storici risalgono al De Interpretatione di Aristotele) per cui il “vero” sarebbe come una sorta di immagine rappresentativa, sovrapponibile ad una realtà percettiva esterna (tipo una foto della torre Eiffel che possiamo sovrapporre in controluce alla torre Eiffel percepita là fuori).

Ora, sul piano tecnico questa visione è stata confutata un numero infinito di volte ed è totalmente priva di senso. Riassumo solo alcune delle obiezioni più elementari:

1) Una proposizione (es.: “La neve è bianca”) non è di per sé né simile né dissimile ad uno stato di cose percettivo (la neve là fuori): non c’è alcun modo concepibile in cui possiamo mettere direttamente a confronto queste due entità e stabilire se coincidono o meno;

2) Neppure se agganciamo la proposizione ad una qualche “immagine mentale” possiamo esercitare alcun confronto con supposte “entità percepite”. Nessuno nella storia umana ha stabilito la verità di alcunché su questa base. E questo perché: a) non puoi confrontare empiricamente un’immagine mentale con un percepito; b) sul piano logico per stabilire un’adeguatezza tra entità difformi come una proposizione e un’immagine mentale, o un’immagine mentale e un percetto bisognerebbe affidarsi ad un terzo elemento mediatore, aprendo un regresso all’infinito; c) numerosissime cose su cui ci esprimiamo in termini di verità e falsità non possono essere catturate, in linea di principio, in forma di immagini;

3) Palesemente non è comunque mai una frase a essere ‘confrontata con il mondo’, bensì, eventualmente, il significato di quella frase. Ed un significato può essere verificato o falsificato solo da un altro significato. E qui è essenziale vedere che l’idea che una “realtà in sé” abbia uno specifico significato, determinato a prescindere dal modo di accostarvisi, è pura mitologia. È pura mitologia già al livello più elementare, quello dell’approccio percettivo: una cosa accostata con l’olfatto non è né simile né dissimile a una cosa accostata con la vista; una cosa accostata con il gusto non è né simile né dissimile ad una cosa accostata con l’udito, ecc. Ma poi la cosa si radicalizza per tutte i modi di accostare meno ovvi: una cosa accostata con un rilevatore ad infrarossi non è comparabile con la stessa cosa testata con una cartina di tornasole, o rilevata con un contatore Geiger, ecc.

4) Ma le cose stanno ancora molto peggio per il nostro ‘realismo adeguazionista ingenuo’. Noi infatti abbiamo tacitamente assunto finora di poter determinare, senza far riferimento ad alcuna specifica procedura, che una cosa sia una cosa, o che un evento sia un evento, o che un fatto sia un fatto. Ma questa è di nuovo un’immagine mitologica: se non predeterminiamo il modo di accostarsi (la ‘procedura di accertamento’, il ‘metodo di verifica’, ecc.), non c’è nulla che definisca i limiti di una cosa, di un evento, di un fatto. Possiamo ritenere che un incidente stradale sia un fatto/evento piuttosto elementare (niente a che vedere con ‘eventi’ come la battaglia di Waterloo). Ma anche un incidente stradale è un evento determinato, solo se valgono una vasta pluralità di, taciti o espliciti, accordi intorno a cosa è per noi rilevante e cosa no: alcuni fattori verranno così esclusi come impertinenti (es.: gli attriti interni alle parti coinvolte, i moti browniani circostanti, la radiazione termica degli enti in questione, la propagazione concomitante di onde sonore, ecc. ecc.), altri fattori verranno trascurati perché ‘troppo’ dislocati nel tempo o nello spazio (il passaggio di un pedone dieci secondi prima dello schianto è parte dell’incidente o no? Lo scoppio di un airbag in un’automobile che ha frenato dopo aver visto lo schianto è parte dell’incidente oppure no? Il passaggio di una nuvola che ha coperto il sole è parte dell’incidente oppure no?).

Di fatto potremmo proseguire letteralmente all’infinito mostrando come i confini che definiscono lo specifico fatto/evento “incidente automobilistico” dipendono da un’infinità di presupposti relativi a ciò che sappiamo sulle relazioni causali più probabili, sui comportamenti e le capacità normali delle persone coinvolte, sulle proprietà fisiche attese degli oggetti coinvolti, ma anche sulle questioni legali e morali da dirimere, ecc. Non esiste l’incidente in sé a prescindere da come è accostato. Esiste un ‘qualcosa in sé’ che, a seconda di come viene accostato e collocato all’interno di una serie di modi di descrizione, di interessi, di presupposti, di convenzioni anche, si consolida in un significato: solo un ‘qualcosa in sé’ cui abbiamo attribuito un significato in queste cornici è una realtà che diventerà contendibile per giudizi in termini di vero o falso.

Questa è una discussione antica e ricchissima di risvolti, mosse e contromosse, che non andiamo a riprendere qui, perché vogliamo invece stringere su alcune implicazioni fondamentali di questa visione fuorviante.

Segnaliamo di passaggio che le obiezioni formulate or ora, e altre nello stesso senso che potremmo aggiungere, non sfociano necessariamente in alcuna forma di soggettivismo, né di idealismo, né di relativismo. Chi si ritrae intimorito dalle semplici obiezioni di cui sopra, aggrappandosi affannosamente ad una qualche versione di realismo adeguazionista, per timore di essere portato per mano in pasto a Berkeley o Derrida può tirare un sospiro di sollievo: si tratta di un’implicazione non necessaria, e anzi dimostrabilmente erronea.

Ma per quanto ben pochi abbiano contezza delle origini di queste visioni del vero, così come dei dibattiti intorno ad esse, moltissimi ne traggono informalmente credenze dagli esiti deprecabili.

Chi abbraccia implicitamente una visione del genere del vero e del reale è un ‘dogmatico naturale’. Egli tende a concepire la realtà come una cosa presente di cui, una volta coltane con evidenza qualche attributo (una qualità, una proprietà, un predicato), tanto basta per ritenersi in possesso di una verità adeguata a quella cosa. Chi pensa così, tende a ignorare la possibilità di ridescrivere il medesimo ente:

  1.  secondo prospettive o interessi differenti (il bicchiere mezzo pieno visto dal dissetato è proprio lo stesso bicchiere mezzo vuoto visto dall’assetato),
  2.  secondo categorie differenti (il bicchiere pieno di liquido può essere simultaneamente anche un calice pieno di vino, o un recipiente pieno di una sostanza psicoattiva, o un contenitore pieno di un solvente, ecc.),
  3.  secondo tempi differenti (il bicchiere è pieno in t1, è vuoto in un istante contiguo successivo t2, è in frantumi in un istante t3, ecc.)

Queste semplici considerazioni suggeriscono anche le condizioni minime per fornire una descrizione che possa ambire a valere come vera. Qualcosa ha un maggior grado di verità:

i) quanto più è esplicito e spiegato il modo in cui lo stiamo accostando (interessi guida, categorie descrittive, metodi di rilevazione, ecc.), e

ii) quanto più ampio è il decorso temporale che viene descritto (quanto più si ramificano antecedenti e conseguenti).

Il riferimento ad un ‘grado di verità’ maggiore o minore è qui essenziale: di nessun evento (fatto, stato di cose) possiamo mai descrivere la totalità dei possibili modi di accostarvisi, né la totalità degli antecedenti e conseguenti. In questo senso abbiamo sempre a che fare con la verità come ideale normativo, come parametro ideale che consente (spesso) di discernere ciò che è più vero da ciò che è meno vero, ma che non perviene mai ad una verità ultimativa immodificabile.

  • Nota per filosofi. È idealmente possibile definire una verità ultimativa immodificabile quando premettiamo esattamente i limiti e parametri che vogliamo ammettere come validi. Posso dire che è una verità ultimativa immodificabile che 2 + 2 = 4, posto che abbia determinato esattamente le condizioni formali di descrizione (per dire, che è un’espressione in codice decimale, e non binario o altro, che le regole di definizione dei numeri naturali sono quelle di Peano, ecc.). Ciò in sostanza significa che definitività del vero può essere raggiunta al prezzo di decidere che non si farà spazio a interessi, prospettive, interpretazioni, concetti diversi da quelli in uso in un certo istante. Si tratta di un prezzo consistente, che sostanzialmente paga il privilegio di fermare una verità una volta per tutte con la formalizzazione delle condizioni che le descrivono; ma ciò implica la rinuncia a considerarla parte della realtà da noi indipendente. Si tratta di una soluzione idealizzata, e in effetti neppure realistica, perché in concreto anche i nostri concetti formali nel tempo saranno oggetti di apprendimento in una catena intergenerazionale, e dunque soggetti a reinterpretazione. Ad ogni modo è importante segnalare questa opzione ideale, perché si comprende bene, per contrasto, cosa ne rimane costitutivamente fuori: eventi o fatti reali, accaduti per qualcuno, in un qualche tempo e luogo, non permettono mai di circoscrivere formalmente la totalità delle condizioni di descrizione ammissibili. Questo significa, molto semplicemente, che nessun evento o fatto reale (sensibilmente esperito) è afferrabile nella forma di una verità ultimativa immodificabile.
  • Questa è peraltro la fondamentale conquista concettuale di Hegel, che può farci pure arrabbiare su molti particolari, ma che ha davanti agli occhi proprio questo punto, quando ci ricorda che “il Vero è l’Intero” e che le verità con cui abbiamo a che fare (verità parziali) si configurano come falsità ogni qual volta raggiungiamo un punto di vista più comprensivo su di esse. L’Intero di cui si parla è a tutti gli effetti fuori dalla storia, trattandosi (detto un po’ brutalmente) della totalità ideale dei punti di vista nella totalità del tempo. Ma il punto cruciale da intendere è che una descrizione, un resoconto, è tanto più vero quanto più è ‘intelligente’ (nel senso che ‘consente di intelligere’, di comprendere).

In concreto, la verità di alcunché non si determina mai con un ‘experimentum crucis’, con una qualche verifica ultimativa, ma con una sintesi (non mera giustapposizione) di punti di vista, e con un resoconto intertemporale di antecedenti e conseguenti. La verità di qualcosa (ad esempio, il nostro incidente automobilistico) può essere una determinazione semplice solo se siamo interessati ad un aspetto singolo, essendo tutti gli altri presupposti: ad esempio, data una certa cornice normativa e varie assunzioni circa la ‘normalità’ di ciò che è successo, può essere sufficiente stabilire che X è passato col rosso per sapere quella verità che ci serve per le finalità legali dell’incidente. Ma se invece vogliamo sapere la verità di cosa quell’incidente è stato realmente, dobbiamo ricostruirlo dal maggior numero di punti di vista pertinenti (inclusi coloro i quali vi erano coinvolti), e dobbiamo risalire per quanto possiamo agli antecedenti e anche alle potenziali implicazioni. In questo processo non esiste alcun punto terminale definitivo, ma al crescere della conoscenza dei punti di vista alternativi sull’evento cresce la stabilità dell’evento, che diventa sempre più comprensibile e sempre meno soggetto a capovolgimenti interpretativi. La verità è qualcosa che cresce, e che si nutre della sua collocazione temporale e della pluralità delle prospettive su di essa. Questa e solo questa è verità. Quello che spesso chiamiamo verità nel quotidiano sono meri test di conferma o smentita di un apparato concettuale, operativo e valoriale prefissato (spesso convenzionalmente prefissato). Per molte questioni pratiche e quotidiane questa verità in sedicesimo può bastare: faccio l’esame del sangue se voglio sapere se ho il colesterolo alto (presupponendo di sapere quale validità, probabilità, significato e implicazioni trarne). Ma ogni qual volta ci troviamo a discutere di questioni su cui non possiamo affidarci ad un accordo preliminare dove tutto l’essenziale è già stato risolto, allora l’unico senso di verità che abbia cittadinanza è quello che abbiamo nominato. In quest’ottica si può comprendere come il migliore addestramento metodologico alla verità sia fornito dall’esercizio della ragione storica, che addestra precisamente alla sintesi di una pluralità di prospettive in una cornice diacronica. È per questo motivo che filosofia e storia vennero considerati essenziali compagni di viaggio in ottica pedagogica: il più prezioso dei lasciti dell’idealismo ed anche uno dei più fraintesi e denigrati.

  • Parte II: Politica

Le questioni dove non possiamo affidarci ad un accordo preliminare in cui l’essenziale sia stato risolto sono tutte le questioni eminentemente politiche.

Nelle questioni politiche la visione riduttiva del vero come adeguamento conduce fatalmente alla caratteristica parzialità delle ideologie, dove per ideologia intendo marxianamente una visione parziale, fuorviante, incapace di dar conto delle reali leve causali e motivazionali degli eventi. Un’ideologia in questo senso è il perseguimento di un’immagine mentale al posto di un significato. Se sento la parola X o il giudizio Y scatta come un riflesso pavloviano un’interpretazione dettata da certe immagini.

Posso farmi un’immagine del Paradiso, o della Società Comunista, o del Mercato perfetto e ritenere che una volta formulatane un’immagine ho colto qualcosa della sua reale possibilità.

Nel sinistrorso dogmatico, che sente qualche stilema espressivo destrorso scatta l’associazione con qualche immaginario barbarico (la squadraccia fascista, la polizia di Pinochet, lo skinhead, ecc.) e con ciò emergono predicati noti: violento, oppressivo, dogmatico, razzista, ecc.

Plausibilmente lo stesso stilema espressivo per la persona di destra farà scattare un immaginario cui si attagliano predicati come: coraggioso, leale, risoluto, patriottico, ecc.

Simmetricamente, nel destrorso dogmatico che sente stilemi espressivi sinistrorsi si affacceranno immagini stereotipate (la ‘zecca’ dei centri sociali, il commissario del popolo sovietico, il sindacalista neghittoso, ecc.) correlate con attributi come: livellatore, sciatto, materialista, astratto, ecc.

Mentre gli stessi stilemi nella persona di sinistra evocheranno magari qualità come: aperto, egalitario, socievole, generoso, ecc.

Altri stilemi ed altri immaginari possono essere prodotti per qualunque figura sociale, per qualunque posizione politica, per qualunque ruolo pubblico. Il punto essenziale della falsità di queste visioni non sta nella loro capacità o meno di attagliarsi a questo o quel personaggio in questo o quel momento, ma nella rigidità e parzialità di cui soffrono. Una massima che, al contrario, bisognerebbe imparare a coltivare è che, ogni qualvolta un’idea o una prospettiva viene intesa (compresa e voluta) da qualcuno, essa non può mai essere integralmente falsa. Qualunque intenzione ‘politica’, qualunque intuizione del giusto e dello sbagliato intellegibile per un gruppo coglie un aspetto razionale e potenzialmente condivisibile, anche se poi le conseguenze che ne vengono tratte, o le espressioni che la manifestano, possono essere del tutto fallimentari. Tenere ferma questa visione aiuta a comprendere come in politica odio e disprezzo possono legittimamente applicarsi solo alla malafede, ma mai verso un’idea sostenuta sinceramente.

Il modello della verità come immagine del fatto alimenta e favorisce due delle principali incarnazioni del ‘male politico’ contemporaneo, che chiamiamo l’‘orgoglio della faziosità’ e il ‘sofisma della falsa concretezza mediatica’.

A) L’orgoglio della faziosità.

Il primo è dato dalla spinta all’azione purchessia, all’impegno purchessia, allo schierarsi purchessia. Come recitava uno slogan di una forza politica (che peraltro mi capitò di votare), l’essenziale è capire: “Tu da che parte stai?” Questa istanza parte, va detto, da una questione fondata, ovvero dal fatto che ogni qualvolta noi passiamo dall’analisi all’azione, ciò non può essere fatto se non troncando il processo di ricostruzione razionale, processo che per sua natura non giunge mai ad esaurimento. Come diceva Nietzsche, l’eccesso di coscienza è nemico dell’azione, e ogni passaggio all’azione è una de-cisione, un taglio, che interrompe il processo razionale. Questo tuttavia non è una buona ragione per non procedere neppure all’analisi prima di prendere posizione. Non c’è una regola meccanicamente applicabile che possa insegnare quando di una cosa ‘se ne sa abbastanza’ per poter passare senz’altro ad agire, sulla scorta di ciò che se ne sa. Si tratta inevitabilmente di una forma di φρόνησις, di saggezza pratica legata all’esperienza. Tuttavia una buona regola nel passaggio dalla riflessione all’azione è di continuare nell’approfondimento fino a quando la nostra opinione non si sposta più significativamente con l’aumento di dettagli e conoscenze.

È vero che ci sono circostanze in cui la nostra azione è richiesta in condizioni di conoscenza immatura, circostanze in tempi critici, decisioni in tempi di guerra e simili. Ma questa non è la condizione ordinaria del dibattito politico o culturale.

Ciononostante esiste una tendenza, in persone che ritengono di avere una ‘coscienza politica’, a slanciarsi nel ‘prendere parte’, temendo forse che non schierarsi sia percepito da altri come un fattore di ignavia, perbenismo, cerchiobottismo, ecc.

Questa forma di malinteso ‘engagement’ si sposa mirabilmente con le necessità spicciole dei peggio politicanti, di tutti coloro i quali non hanno tempo per approfondire nulla perché sono troppo occupati a prendere posizione su tutto. Queste persone non solo non considerano un problema, ma considerano un vanto ‘essere di parte’, ‘essere fazione’. Paradossalmente, questa ‘simpatia per la parzialità’, pur essendo coerente con forme di individualismo ed elitarismo, si ritrova invece frequentissimamente in rappresentanti che si pretendono ‘democratici’ e ‘popolari’. Ora, ci sono modi di essere minoranza, parte, fazione, élite, ecc. che hanno oggettive ragioni per sussistere, ma questo può essere eventualmente solo un rassegnato punto d’arrivo, mai un punto di partenza. Gloriarsi del proprio essere parte è gloriarsi della falsità del proprio essere, della propria conclamata inautenticità.

Di fatto chi assume tali posizioni lo fa, prevalentemente, perché ha fretta di stagliarsi come ‘rappresentante’ di interessi e non rincorre alcuna verità, ma solo tesi spendibili, strumentali, utili ad ergersi a tutore e rappresentante di alcuni. Ciò appaga il proprio narcisismo e, non di rado, apre carriere, ma è anche il contrario di ciò che un politico, nel senso di qualcuno che abbia cura della vita pubblica, dovrebbe essere. Questa tipologia umana è a lungo termine anche un pessimo rappresentante degli stessi interessi di cui si propone come tutore, essendo destinato a fomentare conflittualità, alzare polvere e giungere tutt’al più a soluzioni di facciata. Si tratta di personaggi che si precludono la possibilità di considerare punti di vista differenti da quello che è protempore il proprio, scatenando così frequentemente odio e intolleranza. Al tempo stesso, anche quando accidentalmente si facciano latori di posizioni che possono avere buone ragioni per essere sostenute, non essendo affatto interessati a quelle ragioni, essi risultano inaffidabili compagni di viaggio per qualunque progetto politico.

Per quanto le ragioni del comportamento di questi personaggi possano aver poco a che fare con convinzioni epistemologiche, la loro capacità di fare presa sulle menti altrui si nutre ampiamente della diseducazione all’esercizio della verità di cui sopra.

B) Il sofisma della falsa concretezza mediatica.

La seconda forma esemplare in cui quella fuorviante concezione del vero produce danni sociali rilevanti prende forma nella dimensione mediatica. All’idea che la verità su qualche evento si possa ottenere attraverso una rappresentazione statica, e non una riflessione, corrisponde una pluralità di format mediatici ben noti. Si va dal ‘dominio dell’immagine’, dove uno scatto suggestivo o uno spezzone di filmato vengono innalzati a simboli ed evidenze su cui non ci sarebbe bisogno di spendere tante parole, “perché le immagini parlano da sole”. Naturalmente le immagini decontestualizzate e prive di sfondo motivazionale sono in grado di fare un’unica cosa, cioè riconfermare ciascuno nei propri giudizi o pregiudizi. In questo senso, da un lato esse non espongono chi le propone a nessuna possibile confutazione, dall’altro suscitano con la loro ‘falsa evidenza’ infinite controversie, di cui i media contemporanei si nutrono.

Ma nella stessa direzione si muovono altre tendenze, oramai classiche e conclamate, dell’infotainment contemporaneo. Si va dall’intervista strazzacore, al resoconto del ‘caso umano’, o al microfono volante che ‘dà voce al popolo’; in tutti questi casi si presume, o finge di presumere, che la concretezza del singolo vissuto, la vibrazione particolare dell’emozione, ci avvicini alla piena comprensione del particolare, in cui si presume risieda il vero. Ma di fatto qui si producono semplicemente nuovi frammenti privi di tessuto connettivo, capaci di suscitare emozioni (e con ciò di ‘fare audience’), ma proprio per ciò suscettibili solo di allontanare quanto possibile dalla verità di ciò che si sta descrivendo.

Una regola generale che si può adottare per comprendere la qualità di una fonte mediatica è dunque la seguente: quanti più casi singoli, storie personali, immagini ‘emblematiche’, interviste dell’uomo della strada o della ‘vittima’ o del parente in lacrime, quanti più episodi ad effetto, come quelli di cronaca nera, appaiono in evidenza, tanto più quella piattaforma mediatica è al servizio del fraintendimento, dell’inautenticità, del falso.

Naturalmente, neanche in questo caso, come già per la faziosità politicante, le motivazioni in cui questo atteggiamento dipendono direttamente da un ‘errore epistemico’. Questi traviamenti non sono causati da un’erronea teoria della verità. Tuttavia un’erronea teoria della verità, una scarsa consuetudine con l’esercizio culturale della ricerca del vero, sono la precondizione perché quella spazzatura possa avere spazio e ottenere seguito.

 

 

 

 

 

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