Tecnocrazia e ragione liberale: una riflessione preliminare

Leggendo alcune riflessioni di amici sullo stato delle cose presenti mi è capitato di incontrare un’osservazione che mi ha messo a disagio. Non di rado vi ho ritrovato un’associazione tra la contestazione al “Green Pass” e quella al “riscaldamento globale”. Il nesso prende spesso la forma (lo riassumo rozzamente) di una doppia critica:

1) i temi in questione sono grandi catalizzatori dell’attenzione pubblica, ma sono soprattutto distrattori rispetto alle questioni economiche fondamentali (es.: l’implementazione attuale del PNRR);

2) la critica all’interventismo statale rispetto a questi grandi problemi è una critica antirazionalista e libertaria, e per questo ottiene il plauso della destra più becera.

Queste due obiezioni mi colpiscono molto soprattutto perché sono obiezioni che, su altre questioni, ho sollevato spesso io stesso, e sulla cui logica di fondo concordo.

Concordo in particolare sul rischio che posizioni critiche, come quelle avverse al Green Pass, possano essere strumentalizzate da irrazionalisti e libertari anarcocapitalisti – cioè da chi ritiene che la scienza sia un mero costrutto ideologico e/o che ritiene che l’intervento dello stato sia di per sé oppressivo. Questi in effetti sono soggetti che sul piano filosofico e politico considero avversari irredimibili.

Eppure, nonostante veda perfettamente questo rischio, – e cerchi di porvi un limite ribadendo che il problema non è né la “scienza” in sé, né l’”intervento dello stato” in quanto tale – ho l’impressione che questi amici non vedano a loro volta un punto di fondo. Questo punto risiede nella profonda contiguità storica tra sviluppo della ragione liberal-capitalistica e tecnocrazia, per cui la critica 1) risulta decisamente fuori bersaglio.

Sul piano storico non c’è dubbio che il razionalismo della scienza moderna e il razionalismo dell’utilitarismo economico si siano sviluppati in parallelo. Questa contiguità – come ho cercato di spiegare in forma monografica – non è accidentale.

Parimenti non c’è dubbio che le aspirazioni di matrice socialista, anche quelle più sofisticate e illuminate, si siano generate come una ramificazione alternativa dello stesso ceppo della ragione liberale, ereditandone il razionalismo (ma in una versione di razionalità storica), ed ereditandone in parte l’utilitarismo economico (ma non nella versione neoclassica).

Ora, a prescindere da approfondimenti da svolgere in futuro e per venire direttamente al punto, a me pare che il più grande problema politico che si affaccia nella nostra epoca sia rappresentato dallo slittamento della democrazia in tecnocrazia.

La tecnocrazia, si badi, è già pienamente all’opera quando un ceto di economisti bollinati viene ritenuto depositario dell’indirizzo politico di una nazione, sulla scorta del principio di autorità conferito loro dall’aura di ‘scienziati economici’. Questo processo di trasformazione dell’economia accademica in un club ortodosso (che tollera rare eccezioni) è avvenuto da tempo, e oggi il politico, se non è lui stesso di formazione economica, segue come consiglieri principali degli economisti.

Naturalmente, e questo è il punto cruciale, questo processo di conformazione della pratica politica alla scienza economica non è affatto un “trionfo della ragione scientifica”, ma è semplicemente il trionfo di un fattore ideologico operante all’interno del sapere economico e divenuto egemone in quanto compiacente con i detentori di capitale. È chiaro che una volta che l’indirizzo della politica statale sia guidato da questi “esperti” l’interventismo statale non ha di per sé più alcuna caratterizzazione democratica. Questa è in effetti la storia dello stato neoliberale, che ha abbandonato il vecchio modello del laissez-faire per diventare un attore in prima persona, teso a far scendere in terra le idealizzazioni dei modelli neoclassici.

Gli eventi del Green Pass e della “strategia” anti-Covid ci hanno presentato un’ulteriore evoluzione – ancora grezza – del medesimo modello. Qui non è ancora avvenuta un’egemonizzazione ideologica del ceto scientifico da cui gli “esperti” sono tratti; per questo motivo bisogna fare attenzione a dare fiato e spazio agli “esperti giusti”. Tuttavia l’operazione può andare in porto per le stesse ragioni: l’appello all’esperto, al tecnico, allo specialista funziona da punto argomentativo terminale; più in là non si può e non si deve andare; il “popolo”, il “laico” che pretenda di andare più in là è per definizione irrazionale (blasfemo) e la sua disposizione è per definizione populista.

Anche qui l’appello alla scienza (ad un sottoinsieme qualificato e bollinato del mondo scientifico) serve a coprire un’operazione essenzialmente antidemocratica: siccome in una democrazia non puoi appellarti al principio di autorità politica per dare ordini, allora ricorri al principio di autorità scientifica, laddove la scienza di cui ci si avvale è preselezionata in modo da essere compatibile con le scelte politiche che si intendono comunque fare, per ragioni che poco o nulla hanno a che fare con gli obiettivi dichiarati. Qui, diversamente da quell’ircocervo che è la “scienza economica”, gli scienziati (medici, immunologi, ma anche climatologi, ecc.) non avrebbero tra le proprie competenze dirette alcuna funzione normativa. Mentre l’economista passa con nonchalance dal descrittivo al prescrittivo, per gli altri scienziati questo passaggio non appartiene già alla disciplina. E tuttavia si tratta, come abbiamo visto, di una difficoltà di poco conto: con l’attiva collaborazione dei media essi divengono rapidamente dei legislatori in pectore.

Il medesimo tipo di problema si sta verificando, e si produrrà in forma virulenta, rispetto al problema del riscaldamento globale. Anche qui il passaggio dal descrittivo al normativo è e sarà repentino e invisibile ai più. Siccome fa sempre più caldo (dato scientifico), siccome i gas serra contribuiscono a questo processo (dato scientifico), allora saremo chiamati tutti lestamente a cambiare la nostra auto con un’auto elettrica o ad approvare un ritorno al nucleare (puttanate normative).

E anche qui la dinamica è e sarà la stessa. Se ti opporrai sarai un assassino del pianeta, quali che siano i tuoi argomenti. Il passaggio dall’allarme a base scientifica alla dichiarazione emergenziale della necessità di interventi autoritari e controproducenti è dietro l’angolo. Siamo tutti in attesa della soluzione benedetta dalla scienza economica e da qualche climatologo di regime che consentirà alla prossima corbelleria autoritaria, profittevole per i soliti noti, di passare per Voce della Scienza.

Naturalmente in questo gioco gli anarco-irrazionalisti veri sono parte del problema e non della soluzione. Chi nega ideologicamente ogni evidenza perché potrebbe essere manipolata (il che è teoricamente sempre vero, così come è vero che potremmo essere tutti all’interno di Matrix), finisce per distruggere ogni capacità di affrontare razionalmente e collettivamente i problemi, e, quel che è più grave, finisce per accreditare come unica alternativa i tecnocrati.

Ma se accettiamo come nostro spazio di agibilità politica la sola oscillazione tra tecnocrazia e complottismo anarco-irrazionalista, beh, siamo spacciati.

3 Risposte a “Tecnocrazia e ragione liberale: una riflessione preliminare”

  1. Realisticamente siamo già spacciati.
    Quante persone hanno mai letto un rapporto di IPCC e sono in grado di coglierne la complessità?

  2. Che spazio abbiamo all’interno del sistema se oltre a divenire prescrittivo, l’esperto economista ingaggiato dalle Corporations e amplificato dai media bypassa ogni tipo di lungimiranza reciprocità e complessità di visione e vie…, Impone una visione monocratica?

    Poi se
    l’obsolescenza programmata verrà sostituita da una obsolescenza proclamata e improcrastinabile…con la esternalizzazione dei costi di smaltimento… questo è un vicolo cieco!

    E questo non è irrazionalità!
    Una volta che l’accesso all’acqua e ai semi sono monopoli… Che alternativa abbiamo?

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