Personalia et parva philosophica (Transcripts FB)

 

1 ) IL FANTASMA NELLA MACCHINA E I SUOI PROFETI

Sarà perché negli ultimi tempi ho frequentato, di persona o per iscritto, solo uomini di scienza dotati di senso critico e consapevolezza epistemologica, ma mi ero illuso che il progressismo positivista e l’utopismo scientista fossero cose del passato.

L’altro giorno, nel contesto di una bella discussione sulla cosiddetta Singolarità Tecnologica e sull’Intelligenza Artificiale mi sono dovuto ricredere.

Ho (ri)scoperto che c’è un ampio parco di orecchianti della scienza che, magari scrollano il capo diffidenti se uno gli dice che un mondo un po’ meno ingiusto sarebbe possibile, salvo poi al tempo stesso manifestare una fede incrollabile nell’idea che il progresso tecnologico dell’umanità sia il depositario di una forma di salvezza escatologica.

Così, mi è toccato stare ad ascoltare un energumeno che mi spiegava come fosse un fatto evidente (evidenza che solo l’arroganza dei filosofi poteva mettere in dubbio) che così come noi siamo superiori ad un’ameba, così tra 6 miliardi di anni (sic!) l’uomo a venire sarà superiore a ciò che siamo oggi.

(Fortissima era la tentazione di rispondere che, precondizione per poter anche solo sperare qualcosa del genere, era l’estinzione darwiniana di portatori sani di boiate come il mio scientistico interlocutore.)

Ma il vero problema, la cosa che mi ha turbato al di là di singoli interventi improvvidi e scomposti, era la percezione di quanto fosse viva l’idea originaria che nutre da sempre tutto l’utopismo scientista da Comte in poi: l’dea che esistano solo impossibilità pratiche, che le impossibilità pratiche possano per definizione essere superate da scoperte tecnologiche e che, dulcis in fundo, chi neghi tutto ciò e sostenga l’esistenza di impossibilità che non possono essere risolte da alcuna conquista tecnoscientifica, questi sia fatalmente un dogmatico, espressione dell’ “arroganza dei filosofi”.

Considerando che una parte consistente dell’attività filosofica degli ultimi secoli è stata rivolta all’indagine dei limiti, delle condizioni, delle forme e dei presupposti della conoscenza, scontrarsi con questa forma di scientismo accattone fa abbastanza male. Dà un pochino il senso dell’inutilità della propria attività culturale. La totale inconsapevolezza dell’esistenza di impossibilità logiche, epistemiche e metafisiche, che non possano essere sensatamente messe in dubbio da dati scientifici è al tempo stesso preoccupante e sconfortante.

Apparentemente c’è un sacco di gente che ritiene che un bel giorno potremmo scoprire sperimentalmente che 2 + 2 non fa 4, o che le sensazioni non sono private, o che potremmo determinare sperimentalmente i limiti spaziali o temporali dell’universo, o che aumentando la potenza di calcolo di un computer ad un certo punto questo potrebbe ribellarsi come un novello Frankenstein, o che le spiegazioni causali non siano a posteriori, ecc. ecc.

E quel che è peggio, è che tutto ciò assume i tratti di una fede laica, spiritualmente infinitamente più povera di qualunque tradizionale fede religiosa, ma altrettanto dogmatica e non meno pericolosa.

 

2) CONFESSIONI DI UN ANALFABETA INFORMATICO

Ebbene sì, lo confesso. Durante queste feste ho ceduto al consumista tecnologico che deve albergare da qualche parte in me, e mi sono regalato un tablet (Lenovo Tab2 A10-30). Oltre allo spirito consumistico, l’idea di fondo era, ed è, che potrei usarlo per lavorare anche in assenza di un tavolino, cosa che la mia esistenza raminga talora richiede.

Sono dunque andato a prendere giudiziosamente informazioni in qualche negozio e sono giunto a quella che pareva una scelta motivata, secondo tutti i canoni di scelta del consumatore razionale.

Arrivato a casa ho spacchettato gioiosamente l’oggetto, che è apparso ai miei occhi con l’enigmatica bellezza con cui il monolite di 2001 Odissea nello Spazio appariva agli occhi dei pitecantropi.

Invero, dopo pochi minuti, la mia fiducia di poter manifestare tratti più progrediti rispetto ai pitecantropi che brandiscono femori di bue al ritmo di Also Sprach Zarathustra, si è tristemente liquefatta.

Già, perché dalla bella confezione oltre all’enigmatico parallelepipedo sono usciti solo due accessori secondari ed una guidina di 12 pagine in 4 lingue: tre pagine di spiegazioni per lingua dove i produttori spiegano come si carica ed accende l’oggetto, quali usi impropri vanno evitati (Disclaimers: severamente sconsigliato usare il tablet per pulirsi le orecchie, scaccolarsi, o testare la durezza delle tempie; si raccomanda di non berlo, non mangiarlo, non iniettarselo, ecc. ecc.).
Niente altro.

Giunto a questo punto il pitecantropo consumista in me prova ad accendere l’oggetto. Meraviglia. Colori. Suoni con effetto Dolby. Sensori di gravità (della cui elusiva utilità sono certo ci informerà Tom Cruise nel prossimo Mission Impossible). Solo che le icone della pagina iniziale non corrispondono a quasi nulla di a me noto nei sistemi operativi da PC o Notebook.
E tuttavia, anche un breve sguardo mi rivela subito quali mirabilie tecnologiche si celino dietro a quelle icone: quell’oggettino promette di farmi giocare con giochi mai visti, di farmi provare sensazioni cromatiche e sonore inedite, ci sono app per qualunque più marginale sfizio e curiosità, per orientarmi nella giungla amazzonica, per tenere tavole rotonde intercontinentali, e, ne sono certo, anche per massaggiarmi la schiena e fare il ragù.
Ma per aprire un testo word o pdf e lavorarci su, niente, zero, nada.

Ma poco male, mi dico. Ci sarà sicuramente una user guide già disponibile nella memoria del tablet, no? Invece niente (e nel patetico tentativo di trovare la user guide, pigiando quello che capitava, temo di essere riuscito persino a scattarmi involontariamente il mio primo selfie, – e vista l’espressione patibolare che traspare non dubito che sarà anche l’ultimo).
Ma non mi do per vinto. Dopo tutto un milione di anni dai pitecantropi non sarà mica passato invano? Ci sarà almeno una guida disponibile in rete, giusto?
Sbagliato. In rete ci sono svariate discettazioni critiche in forum di utenti sulle virtù comparative di questo tablet, ma nessuna guida, né in italiano, né in inglese.

Ora, nulla mi toglierà dalla mente che se una cosa del genere fosse successa ad un prodotto tecnologico sovietico ci sarebbe stato un coro di sdegno di fronte alla sciatteria ‘tipica dei sistemi di produzione centralizzata’. Fortunatamente siamo in un libero mercato e quindi si tratta di semplice sciatteria di una multinazionale privata, dunque siamo nel migliore dei mondi possibili e io devo smettere di lamentarmi, sennò mi mandano un assassino prezzolato.

Naturalmente, se avessi davanti l’intera infinità dei tempi, potrei procedere come la proverbiale scimmia che pigiando tasti a caso prima o poi scriverà la Divina Commedia. E magari, un po’ prima di completare il Purgatorio, nel processo scopro anche come far funzionare il simpatico monolite.
Purtroppo sono un individuo noioso ed invece che passare i tempi futuri ad esplorare l’oggetto, desidererei solo usarlo per ciò che mi serve.

Giunto a questo triste punto, e prima che l’areonautica militare segnali un oggetto volante non identificato sfrecciare fuori dalla mia finestra, non mi resta che rivolgermi a qualcuno degli amici più tecnologicamente avvertiti di me (immagino più o meno tutti).
3) BACK TO SQUARE ONE

Ecco, un bel giorno uno si sveglia e pensa di essersi definitivamente emancipato da Heidegger, pensa di averne finalmente colto i tratti arroganti, le oscurità non necessarie, le venature romantiche e irrazionalistiche, ecc.
Per un breve momento pensa che si tratti di una vicenda di pensiero superata, di una lotta culturale che ha fatto il suo tempo.

Poi legge Searle.

 

4) LA BANALITÀ DEL MALE ACCADEMICO
(ovvero, confessioni di un pirla)

Un accumulo pluriennale di osservazioni, cui non ho mai saputo o voluto dare credito, mi ha fatto pervenire oggi ad un’illuminazione morale, un’illuminazione che, sospetto, apparirà a molti come di sconcertante banalità, ma che invece per me rappresenta una conquista.

Esistono persone, molte persone, che semplicemente non tollerano di correre il rischio che qualcuno li possa mettere in ombra, e quando percepiscono la presenza di un qualunque personaggio ‘troppo’ brillante, di una mente ‘troppo’ autonoma, di un carattere ‘troppo’ forte, ecc. adottano istintivamente, ma infallibilmente (e credo inconsciamente) una strategia di riduzione-allontanamento della minaccia.

Non credo che qui si possa neppure parlare di ‘invidia’, perché l’invidia evoca una consapevolezza della qualità altrui, che sarebbe per questa ragione oggetto d’invidia. Si tratta piuttosto di un antesignano istintivo dell’invidia, qualcosa che opera in modo primitivo e non ammesso di fronte a sé stesso da chi lo esercita.

Negli anni del mio apprendistato filosofico girava questo scherzo tra i giovani che aspiravano ad una carriera accademica: lo chiamavamo “La teoria degli eoni accademici”, in onore di Plotino e della sua visione.

L’idea era questa. Le generazioni accademiche seguono questa regola ferrea.

Ogni barone mette in cattedra il più cretino dei suoi allievi, in modo che non gli faccia ombra.

E così generazione dopo generazione dopo generazione.

Finché si giunge al fatidico punto in cui il barone di turno è talmente cretino che, pensando di mettere in cattedra uno ancora più cretino, fa invece posto per un genio.
E così il processo delle emanazioni accademiche può riprendere il suo ciclo di degrado.

Di fatto già allora, il sistema accademico non consentiva, se non molto raramente, tali ‘incoronazioni baronali’, per cui la battuta come descrizione delle dinamiche accademiche era già, ed è maggiormente oggi, obsoleta.
Tuttavia fino ad oggi ho sempre sottovalutato, come se si trattasse di una divertente malignità e basta, il tratto psicologico stigmatizzato da quello scherzo.

Probabilmente questa mia inconsapevolezza era dovuta anche al fatto di essere stato viziato dai principali docenti con cui avevo avuto la fortuna di collaborare (Carlo Sini e Carlo Montaleone), che non mi hanno mostrato mai la benché minima traccia di quella piccineria. Il loro comportamento, non so se per rigore morale, sicurezza caratteriale, o spessore intellettuale (probabilmente tutte queste cose insieme) mostrava sempre gioia in presenza di persone capaci, e anche di colleghi in gamba (mentre, in effetti, potevano essere alquanto impietosi verso minus habens e leccaculi vari; genia di cui l’Accademia non è meno ricca di qualsiasi altro ambiente). A nessuno di questi gentiluomini (e mi spiace di quanto suoni desueto il termine, ma non ne trovo di più adatti) sarebbe mai passato per la mente di ‘sfruttare’ i propri ‘subordinati’ accademici, o di promuoverli su basi che non fossero la sostanza filosofica.

E così, mi trovo alla veneranda soglia del mezzo secolo a scoprire ciò che forse ad altri sembrerà la proverbiale acqua calda.

Poco male.
Questa mia ingenuità mi ha fatto senz’altro perdere qualche occasione e rallentare qualche passaggio, ma probabilmente non sarei riuscito comunque a comportarmi diversamente. E quindi forse mi sono solo risparmiato sangue cattivo.

 

5) L’ILLUMINAZIONE (SATORI)

Il momento della compiuta maturità filosofica si manifesta quando, spontaneamente e senza sforzo,
ad un certo punto del tuo cammino,
dopo aver passato decenni a dare doverosamente credito intellettuale
ad ogni obiezione accreditata, per quanto tirata per i capelli,
ad ogni sottile puntualizzazione, per quanto pretestuosa,
ad ogni richiesta di approfondimento, per quanto irrilevante,
ad ogni integrazione della letteratura critica, per quanto marginale,

senti emergere dalle profondità più remote del tuo animo le immortali parole di Danny Glover in Arma Letale:
“Sono Troppo Vecchio Per Queste Stronzate”

 

6) PICCOLO SPAZIO ANTROPOLOGICO

Come si può argomentare in modo convincente che la superiorità dell’Homo Sapiens sulle scimmie antropomorfe sia un giudizio ampiamente sovrastimato?

Semplice.

Basta presentare ad un convegno il filmato della scenetta or ora dispiegatasi sul Frecciabianca Milano-Trieste.

Personaggi e interpreti: un giovane primate umano e la sua valigia a rotelle.

Il giovane primate dapprima cerca di collocare la valigia verticalmente nel pertugio tra due poltrone spingendolo con insistenza dal lato più largo.
Frustrazione e perplessità.
Nonostante il reiterato impeto la valigia non entra.
Illuminazione! (L’Insight di Köhler…)
Il giovane primate ruota la valigia, sempre verticalmente, infilandola nel pertugio dal lato più stretto.
Moto di stizza.
La valigia non entra fino in fondo. In effetti c’è già la mia, a impedire il successo dell’impresa.
Pausa riflessiva.
Il primate si gira e scorge simmetricamente di fronte un pertugio gemello, questa volta vuoto.
Felicità.
La valigia a rotelle viene inserita con successo.
Ma la malasorte congiura.
Non passano neppure dieci secondi che la valigia, causa curva del treno, abbandona proditoriamente il suo loculo e si trasferisce nel mezzo del passaggio.
Contrariato il primate ripone nuovamente la valigia nel suo ricovero, sempre sul lato delle sue belle rotelle.
Passano due minuti e la valigia esce nuovamente.
Sconforto.
L’operazione di ricollocazione della valigia si ripete per quattro volte, sempre identica. E per quattro volte la combinazione tra forza centrifuga e rotelle produce il suo drammatico, ma non del tutto imprevedibile, esito: la valigia continua ad andare a spasso per il vagone.
Infine, colto da un inizio di sindrome isterica, sorrido al primate, chiedendo scusa per l’intrusione, e dispongo la valigia in posizione orizzontale, dove, essendo ivi priva di rotelline, ancora giace.

Parte una mesta riflessione sul senso del suffragio universale.

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