Oltre la destra e la sinistra: la necessità di una nuova direzione

1) Lo scenario contemporaneo

Due grandi tendenze caratterizzano la politica dell’ultimo quarto di secolo nel mondo occidentale. La prima, e più importante, è rappresentata dal trionfo del modello liberale con i connessi processi di globalizzazione; e in maniera concomitante, dalla crescita di reazioni di rigetto di tali processi (dai ‘no-global’ degli anni ’90, al ‘populismo’ e ‘sovranismo’ odierni).

La seconda tendenza, derivativa, è una crisi profonda delle categorie politiche di ‘destra’ e ‘sinistra’; tale crisi si è manifestata sia come ‘crisi d’identità’ che in cortocircuiti e ribaltamenti concettuali, dove posizioni tradizionalmente ascrivibili alla ‘sinistra’ sono state assimilate dalla ‘destra’ e viceversa.

Questi due processi vanno intesi insieme e sono parte di una medesima configurazione. La prima tendenza è quella strutturalmente portante e definisce il carattere della nostra epoca, come epoca del trionfo della ‘ragione liberale’ (e della sconfitta del suo principale competitore storico, dopo la caduta del muro di Berlino). In mancanza di avversari la ragione liberale ha accelerato le tendenze di sviluppo interne, e segnatamente i processi di movimentazione globale di merci, forza-lavoro e capitale. Quest’accelerazione ha riportato alla luce i limiti del progetto politico liberale e capitalistico, che dopo la crisi finanziaria del 2008 appaiono manifesti a chiunque non sia ideologicamente accecato.

Il rimescolamento odierno delle categorie di ‘destra’ e ‘sinistra’ è un effetto diretto dell’apogeo, e della concomitante crisi, della ragione liberale. Una chiara manifestazione ne è stato lo scivolamento negli anni ’80 e ‘90 della ‘sinistra’ occidentale (comunisti e socialisti) su posizioni liberali, facendo proprie le istanze di ciò che fino a poc’anzi era il ‘nemico’. Ciò è avvenuto facendosi carico dell’intero blocco ideologico liberale, dalla tradizione dei diritti umani, al libertarismo individualista, dalla contestazione dello Stato, alla venerazione delle libertà di mercato. Solo alcune minoranze della ‘sinistra’ tradizionale hanno continuato, con non pochi imbarazzi e ambiguità teoriche, a tener fermi alcuni punti di contestazione al blocco liberal-capitalistico. Simultaneamente, il vuoto nella rappresentanza di istanze anticapitalistiche e antiliberali prodotto dalla defezione della ‘sinistra’ ha fatto spazio ad una sua parziale appropriazione da parte della ‘destra’.

Questo duplice processo di riposizionamento sta trasformando il paesaggio politico tradizionale, ma il tutto si sta svolgendo in una cornice di opacità e scarsa consapevolezza, che nasconde il carattere strutturalmente obsoleto delle categorie di ‘destra’ e ‘sinistra’. Finora chi ha osato denunciare tale obsolescenza è stato tacciato di ‘qualunquismo’ o di ‘tradimento’, in un pervicace rifiuto di riconoscere uno stravolgimento già avvenuto. In molti rimangono abbarbicati a simulacri delle vecchie categorie, oramai scarnificate o ‘geneticamente modificate’, senza voler riconoscere che la realtà si è lasciata alle spalle quelle forme, come un serpente la sua pelle. A sinistra, dove l’esplicitazione dell’apparato teorico è stata storicamente più definita, l’irrigidimento delle posizioni appare particolarmente persistente, con l’aggrapparsi ansioso ad una coperta di Linus fatta di parole d’ordine e riflessi condizionati. La minore elaborazione teorica della destra si è rivelata, in questa fase, un paradossale vantaggio, consentendo aggiustamenti di tiro più pragmatici (o semplicemente più opportunisti).

Il processo cui stiamo assistendo è dotato di una logica storica ferrea, che però deve trovare riconoscimento teorico, e rappresentanza politica, per superare l’attuale situazione di incertezza e paralisi. Ciò cui assistiamo oggi è la faticosa ricomposizione di quel mondo umano che il modello liberal-capitalistico ha progressivamente marginalizzato. Tale ricomposizione deve avvenire recuperando in un’immagine unitaria le contestazioni della ragione liberale presenti tanto nella tradizione ‘di destra’ che in quella ‘di sinistra’.

 

2) Le radici storiche

Il modello liberal-capitalistico ha poco più di due secoli nell’Europa continentale e solo qualche decennio di più in Inghilterra, dove mosse i primi passi. In Europa il suo imporsi passò attraverso lo spartiacque, determinante quanto ambiguo, della Rivoluzione francese, che fu anche il contesto in cui vennero alla luce le categorie di ‘destra’ e ‘sinistra’.

Come noto, questa distinzione nacque, nell’Assemblea Nazionale Costituente del 1789, a partire dalla posizione fisica dei gruppi rispetto al presidente: alla sua destra stavano monarchici, conservatori e tradizionalisti, mentre filorivoluzionari e illuministi stavano alla sinistra. Successivamente, nell’Assemblea Legislativa del 1791, la destra venne assegnata ai fautori della monarchia costituzionale – che accettavano l’abolizione del feudalesimo –, e la sinistra ai repubblicani seguaci delle idee dell’Illuminismo (Giacobini, Cordiglieri, Girondini, ecc.).

L’evoluzione interna del processo rivoluzionario portò alla luce ben presto una discrasia interna alla parte vincente, cioè alla ‘sinistra’. Schematicamente, l’opposizione alle gerarchie di sangue dell’Ancien Régime iniziò a mostrare una divaricazione tra chi intendeva sostituirle con una gerarchia di censo e chi intendeva sostituirle con una società egalitaria. Le istanze egalitarie, che persero terreno dopo il 1794, riemersero in varie forme di neogiacobinismo dopo la Restaurazione, ricevendo una nuova investitura con l’opera di Karl Marx, in cui l’egalitarismo usciva dall’astrattezza giacobina e prendeva la veste chiarificatrice di una richiesta di giustizia sociale, nella cornice di una critica ai meccanismi di produzione e riproduzione del capitale.

Il modello liberal-capitalistico si impose in Europa, nella scia della Rivoluzione francese, come presa del potere da parte della borghesia (che rappresentava allora una minoranza della popolazione, inferiore al 10%). Ad essa nel corso dell’800 si opposero dunque un fronte conservatore e tradizionalista (destra), e un fronte egalitario (frazione dell’originaria ‘sinistra’). La loro diversa genesi tenne l’antiliberalismo della destra e quello della sinistra (socialista e comunista) a distanza nel corso dell’intero XIX secolo e per parte del XX. Per tutta la prima metà del XIX secolo – la ragione liberale ebbe motivazioni storiche potenti per imporsi, presentandosi come una necessità storica dotata di un carattere ‘progressivo’ che né l’egalitarismo di ‘sinistra’, né il tradizionalismo di ‘destra’ potevano vantare.

Nella seconda metà del XIX secolo l’elaborazione marxiana fornì alla ‘sinistra’ antiliberale un potente strumento di analisi che, identificando il ruolo fondamentale del capitale, consentiva di approntare politiche popolari strutturate. È su questa base che il movimento socialista poté espandere la sua base di consenso nel corso dell’800, fino a divenire una concreta minaccia per il modello liberal-capitalistico.

Diversa fu la storia dell’antiliberalismo di destra, nel cui ambito non vi fu una figura di impatto comparabile a quello di Marx, e la cui impronta ab origine antirivoluzionaria (e antipopolare) lo relegò a lungo in una posizione di opposizione tendenzialmente aristocratica ed elitista. La mancanza di una teorizzazione dominante lasciò tuttavia spazio ad una varietà di posizioni, che oscillavano dal tradizionalismo, al conservatorismo religioso, al nazionalismo, al populismo, al darwinismo sociale spenceriano, all’individualismo nietzscheano. Questa minore definitezza teorica ha spesso consentito alla destra di adattarsi alle circostanze in maniera pragmatica (od opportunistica), come visibile nella parabola fascista, dove tutte le istanze citate, per quanto in contraddizione tra loro, riuscirono a trovare spazio.

D’altro canto, tanto nella tradizione di destra che in quella di sinistra hanno trovato posto forme di assimilazione del paradigma liberal-capitalistico.

A destra ciò è avvenuto precocemente, rigiocando la concezione gerarchica della società, originariamente di matrice aristocratica, in chiave di gerarchizzazione economica: il darwinismo spenceriano e versioni divulgative del superomismo nietzscheano hanno fornito spesso il pretesto per assimilare istanze capitalistiche. Un’ampia parte della tradizione di destra, a partire da fine ‘800 ha rivestito il capitalista vittorioso (‘padroni del vapore’ o ‘maghi della finanza’ che fossero) dei panni dell’eroe guerriero: Shylock che recita Sigfrido.

A sinistra l’assimilazione di istanze liberali avvenne più tardi, una volta venuta meno la fiducia nella lezione marxiana, ma a quel punto essa avvenne con grande radicalità, rendendo nell’ultima parte del XX secolo pressoché indistinguibili posizioni liberali e posizioni ‘di sinistra’.

Ma tanto nell’ambito della destra quanto in quello della sinistra ha continuato a sussistere una dimensione, minoritaria ma viva, di consapevole contestazione del modello liberal-capitalistico.

 

3) Parzialità strutturali e il dovere di superarle

Tanto la tradizione antiliberale di destra, che quella di sinistra sono naufragate più volte contro limiti e parzialità delle rispettive letture della realtà. Ma percepire dei limiti non è di per sé ancora sufficiente a definire un orizzonte di superamento.

D’altro canto chi aderisce al modello liberal-capitalistico non vede alcuna necessità di ‘superare destra e sinistra’, perché ne considera le versioni antiliberali meri tratti folcloristici finiti nella “pattumiera della storia”, e ne contempla come concrete solo le varianti liberali, che sono espressioni essenzialmente intercambiabili del modello dominante (il ‘bipolarismo’ politico degli ultimi decenni ne è chiara testimonianza).

La percezione, spesso acuta, della necessità di superare le parzialità della ‘destra’ e della ‘sinistra’ tradizionali non è di per sé sufficiente a produrre una sintesi feconda. Confuse evocazioni di ‘incontri a metà strada’, e formule ad effetto tipo “valori di destra, idee di sinistra” lasciano il tempo che trovano, finché non se ne determinano gli specifici punti ciechi.

Alla tradizione della destra antiliberale è mancata l’analisi marxiana e post-marxiana. Essa ha perciò sofferto di tre fondamentali tendenze: 1) a sottovalutare la capacità delle condizioni economiche di determinare i rapporti di potere, interni ed esterni; 2) a sottostimare l’impatto dell’educazione e della cultura sulle disposizioni umane; 3) a misconoscere la diversificazione degli interessi di classe e la loro essenziale divergenza in una cornice capitalistica. Nonostante alcuni autori di matrice marxista, come Gramsci, siano stati in parte recepiti da minoranze della riflessione di destra (es.: Alain De Benoist), questa dimensione analitica resta subottimale nella ‘destra sociale’, e ciò ne limita la capacità di avere una visione pienamente realistica della società e di incidere sui processi capitalistici.

Alla tradizione di sinistra, sulla scorta del suo originario innesto nell’universalismo illuminista, è mancata un’adeguata comprensione del significato antropologico di tre fattori: 1) il radicamento territoriale; 2) l’appartenenza alla natio (famiglia, comunità, stato-nazione); e 3) l’adesione ad un éthos (costumi, tradizioni, cultura materiale). Nonostante in Marx, sulla scorta di Hegel, ci sia un apparato teorico capace di fare spazio a questi fattori, tale dimensione è rimasta ambigua nelle pagine marxiane, e successivamente verrà marginalizzata con l’assimilazione del socialismo scientifico in chiave positivistica. Tanto il socialismo nel XIX secolo, che il comunismo nella prima parte del XX secolo, manterranno comunque aperta la porta a questa dimensione etica di radicamento e appartenenza, che fa capolino in intellettuali come Gramsci e Pasolini. Tuttavia dopo il ’68 la componente libertaria e individualistica avrà la meglio, espellendo l’idea stessa di ‘comunità’, così cruciale alla tradizione ideale del ‘comunismo’ – che precede di molto Marx – dal novero delle idee ‘di sinistra’.

Lo scarso credito che oggi caratterizza l’antiliberalismo di ‘sinistra’ e quello di ‘destra’, separatamente presi, è dovuto alle loro strutturali parzialità, emblematicamente rappresentate dall’insuccesso dei comunismi e dei fascismi storici. Sul piano simbolico (sospendendo il piano della realtà storica, molto più articolato e complesso) i comunismi-socialismi realizzati sono percepiti come appiattimento individuale e ateismo di stato, mentre i fascismi come prevaricazione violenta, irrazionalismo e intolleranza. In entrambi i casi questa approssimazione simbolica segnala un fondo reale.

L’ispirazione comunista-socialista ha sofferto di un fondamentale punto cieco, nell’assumere una visione astratta dell’umano, di matrice illuminista. In questa visione il razionalismo si tradusse frequentemente in riduzionismo scientifico e laicismo forzoso, dove l’uomo sottratto alla dimensione storico-tradizionale e a quella spirituale veniva uniformato e semplificato. Ciò prese la forma a fine ‘800 di una ‘naturalizzazione’ dell’uomo secondo un modello positivista e riduzionista, modello profondamente inadeguato a fornire una spinta motivazionale e un’adesione affettiva duratura alle aggregazioni sociali. Tale astrattezza si palesa già nella difficoltà teorica per le riflessioni marxiane di attribuire contenuti positivi al comunismo a venire: la definizione del comunismo come “movimento reale che abbatte lo stato di cose presenti” ne rivela in trasparenza il carattere essenzialmente negativo. Questa labilità della matrice socialista/comunista nell’istituire un’adesione partecipativa profonda può essere scorta in filigrana – al netto di un’ovvia semplificazione storica – in molti momenti decisivi della sua storia. L’impotenza dei partiti socialisti di opporsi all’empito nazionalista che fece da volano alla Prima Guerra Mondiale ne mostrò drammaticamente un aspetto. La scarsa ‘fidelizzazione’ delle popolazioni sotto il ‘socialismo reale’, una volta venute meno le esigenze di guerra, ne fu un’altra espressione. L’involuzione delle ‘sinistre’, fino all’odierno ‘sconfittismo’, una volta venuta meno la fiducia nel modello critico marxista, dopo il ’68, ne è una terza espressione. Finché c’è un nemico, la componente critico-negativa dell’apparato socialista-comunista può rappresentare da sola un collante sufficiente, ma in mancanza di questo ruolo oppositivo l’adesione promossa da un paradigma positivista e riduzionista risulta fragile. Per quanto questo problema non sia strettamente imputabile alla concettualizzazione marxiana, che rimane nell’essenza umanista e storicista, esso è stato spesso caratterizzante degli sviluppi storici socialisti/comunisti.

L’ispirazione di destra ha invece sofferto di un differente punto cieco, anch’esso discendente dalla mossa originante che la mise al mondo: l’originaria ostilità al razionalismo illuminista si sviluppò spesso in generico irrazionalismo e anti-intellettualismo. Quest’aspetto ha preservato la destra dal riduzionismo e dall’astrattezza positivista, ma l’ha spesso consegnata al mero pregiudizio. Questa permeabilità al pregiudizio, al convincimento prerazionale e prescientifico, è alla radice dei suoi due principali difetti storici. Da un lato, l’aspettativa che le diversità di fondo, i contrasti, siano razionalmente inestricabili ha promosso una propensione alla ‘sbrigatività semplificatoria’ che non di rado è sfociata in violenza o prevaricazione, vissute come necessità di tagliare nodi gordiani razionalmente indissolubili. Dall’altro lato, lo spazio lasciato al giudizio pre-analitico, al pre-giudizio, ha aperto le porte a scivolamenti nella xenofobia e nel razzismo. Per quanto il rigetto da destra delle astrazioni illuministe e dello scientismo sia perfettamente compatibile con un’idea forte di razionalità (ad esempio quella hegeliana), questa tendenza irrazionalistica ha spesso preso il sopravvento nelle prospettive di destra.

Queste due parzialità spiegano anche i modi specifici in cui la teoria liberale ha potuto assimilare di volta in volta talune istanze sia di destra che di sinistra. La ragione liberale è infatti caratterizzata dalla giustapposizione di due errori complementari. Da un lato promuove una visione dell’umano ridotto ad un’individualità impermeabile e irriducibile, sottratta a valutazioni razionali, una scatola nera come agglomerato di desiderata insindacabili, di pulsioni che si esprimono in meri atti di preferenza. Dall’altro lato essa promuove una visione della natura (mondo) come luogo governato da leggi rigorose e inviolabili (fisiche o economiche), leggi che pongono la natura come mero materiale a disposizione, anonimo strumento dominabile attraverso cause e computazioni. La prima posizione, che possiamo chiamare di “individualismo a-razionale”, ha dato ospitalità ad alcune istanze di destra, mentre la seconda, che possiamo chiamare di “naturalismo riduzionistico e costruttivista”, è risultata compatibile con alcune istanze di sinistra.

È importante sottolineare come l’antiliberalismo ‘di destra’ e quello ‘di sinistra’ siano accomunati proprio nell’opposizione a questi due pilastri della concettualità liberale. Entrambi infatti assumono una base ‘umanistica’, per cui esiste una ‘essenza dell’umano’, irriducibile all’individuale, che consente di definire ciò che è giusto o ingiusto, ciò che è di valore o disvalore. Ed entrambi assumono l’idea di una natura dotata di valore e sviluppo (una storia), e che non è semplicemente ‘a disposizione’ come strumento per finalità arbitrarie.

 

4) Necessità e difficoltà di una nuova direzione

Il tacito presupposto di tutto quanto precede è l’identificazione del ‘nemico’ in questa fase storica. Per chi scrive (per ragioni che troveranno esplicitazione in un lavoro di prossima uscita), il problema strutturale dell’epoca che abbiamo la ventura di vivere è rappresentato dalla necessità inderogabile di superare il modello liberal-capitalistico, modello che ha esaurito la sua spinta storica propulsiva e che ora comincia a divorare sé stesso, avvelenando simultaneamente tutto ciò che lo circonda, uomini e natura, valore e senso, storie e speranze.

Il modello di società liberal-capitalistico, pur presentando linee di rottura molteplici, possiede, come tutti i sistemi storici consolidati, grande inerzia e resilienza. Non basta segnalarne i gravi problemi per decretarne il superamento, ma è necessario disporre di un’offerta politica con un’alternativa che permetta di percepire per contrasto l’intollerabilità del sistema vigente.

Ciò significa che vanno riconosciuti i modi fondamentali dell’influsso dell’economia sulla società (alienazione, sfruttamento), che vanno denunciati i meccanismi di ricatto economico su individui e gruppi, che va compreso come la mercificazione operi in profondità nel disgregare soggetti e forme di vita. Al tempo stesso bisogna comprendere come ciascun soggetto sia pienamente ciò che è in quanto nato e cresciuto in uno specifico contesto: famigliare, territoriale, linguistico, culturale, materiale; e che tale appartenenza ne definisce in parte significativa l’orizzonte valoriale e il senso. Bisogna comprendere che tanto l’identità individuale quanto l’identità collettiva rappresentano fattori determinanti nella definizione di ciò che di volta in volta è ‘di valore’, e che perciò svuotare tali identità nel nome di un’umanità astratta composta di individui idiosincratici e, di principio, mutuamente estranei è non solo un errore teorico, ma una fondamentale minaccia al senso che gli uomini conferiscono alle proprie esistenze.

Questo significa che una politica che voglia rappresentare un’alternativa al modello dominante deve far posto a idee e valori che si sono trovate storicamente su versanti differenti: giustizia sociale, solidarietà, redistribuzione, comunità, appartenenza, identità, lealtà, onorabilità, riconoscimento, senso dello Stato e amore per la propria terra. Si tratta di una costellazione di nozioni non soltanto internamente compatibili, ma fondamentalmente coessenziali, e strutturalmente alternative a tutte le tendenze di fondo del modello liberal-capitalistico.

Molti problemi contingenti si oppongono a questa esigenza, pure inderogabile. Ne voglio menzionare qui solo uno, apparentemente minore, e tuttavia insidioso, che probabilmente continuerà ad ostacolare a lungo la creazione di una sintesi capace di superare le parzialità storiche di ‘destra’ e ‘sinistra’. Non si tratta di una difficoltà teorica, ma squisitamente psicologica. Ciascuna tradizione ha avuto, ed ha, le sue letture preferenziali della storia, in cui ha collocato sia i propri ‘eroi indiscussi’ che le sue ‘figure controverse, ma difendibili’. La ricostruzione storica in forme convenienti, proiettandovi le proprie ragioni e i torti altrui, è sempre stata una forma influente per creare un senso di gruppo e una sfera di mutuo riconoscimento. Due secoli di evoluzione politica su binari paralleli ha creato dei ‘pantheon’, negativi e positivi, costruiti per essere mutuamente incompatibili.

Ora, fino a quando le prospettive antiliberali di destra e di sinistra si incontrano sul terreno dell’analisi del presente e sulla progettazione di prospettive future, non vi sono ragioni sostanziali perché esse non possano conciliarsi, creando anzi una sintesi assai più potente delle sue parti. Ma nel momento in cui esse confrontano le proprie narrazioni storiche e i relativi ‘pantheon’, lo scontro è sempre latente. (Questa insidia è peraltro ben presente anche all’interno della stessa storia della ‘sinistra’, dove il ‘pantheon’ socialista e quello comunista sono ben lontani dal coincidere.) Ci sono figure e personaggi storici costruiti in modo da suscitare la semplice immediata repulsione in un gruppo mentre magari sono stimati, o almeno giustificati, nell’altro. Ci sono letture degli eventi articolate e consolidate che confliggono senza scampo. Per quanto la freddezza dell’analisi storica possa in linea di principio restituire ragioni e torti, riconfigurare luci ed ombre di qualunque figura del passato, è dubbio che tale differenza di retroterra possa essere liquidata con facilità. La nascita di una prospettiva politica che superi destra e sinistra in una chiave critica del modello liberale è una necessità storica, ma l’esatta forma in cui ciò potrà avere luogo appare ancora piena di incognite.

11 Risposte a “Oltre la destra e la sinistra: la necessità di una nuova direzione”

  1. Grazie per la riflessione su un tema che da tempo mi dà molti grattacapi. Ovviamente si tratta di una materia controversa specialmente per le sue conclusioni, in cui si argomenta sostanzialmente che destra e sinistra estrema possano (debbano collaborare) per superare le rispettive aporie. Pur non essendo pregiudizialmente contrario alla compromissione (d’altra parte la prassi politica la rende necessaria) mi chiedo se non sia stato un po’ generoso o forse persino un po’ ingenuo definire “punti ciechi” le debolezze strutturali della prospettiva delle destre antiliberali. Mi spiego: se in tutte le analisi della dx manca una adeguata considerazione delle forze che determinano i rapporti, in altre parole una lettura di classe, ciò non sembra essere frutto di una mera “sottovalutazione” del problema, ma anzi di una colpevole accettazione dello stato di cose esistente derivato dalla volontà (magari anche inconscia) di conservare la propria posizione di privilegio. Questa lettura sarebbe anche corroborata da uno degli elementi caratterizzanti un discorso sulla Natura tipicamente di destra: l’attribuzione di significati metafisici all’ordine naturale caratteristica della loro prospettiva infatti si qualifica come conservativa, e consente perciò di legittimare la stratificazione sociale come frutto di quello stesso ordine. Detto in altre parole “ognuno al suo posto”.
    Temo che questa natura conservatrice sul piano sociale impedisca di considerare la destra estrema come possibile alleata, anche temporaneamente, della lotta socialista (in parte anche in virtù del fatto storico che essa si è dimostrata meglio disposta ad allearsi col capitale in chiave antisocialista piuttosto che il contrario). Poiché però è vero le aporie della prospettiva antiliberale di sinistra esistono e sono superabili grazie ad alcuni elementi cardine frutto del pensiero di esponenti della destra sociale mi chiedo se non sia più consigliabile rapinarli senza pudore di ciò che di buono hanno prodotto senza però rischiare di metterci la serpe in casa.

    1. Attenzione, in nessun punto sostengo che andare oltre destra e sinistra, o trovare una sintesi tra destra antiliberale e sinistra antiliberale, significhi attaccare con la colla gruppi preesistenti di destra e di sinistra. Sarebbe una prospettiva del tutto implausibile e fallimentare. Qui la questione non concerne sintesi tra organizzazioni o gruppi politici, ma sintesi di idee, ed esclusivamente esse. Poi, naturalmente, se nel processo di sintesi ideale persone con retroterra differenti trovano un’ispirazione comune, e si uniscono in un progetto comune, beh, questa sarebbe una cosa bellissima. Ma si tratta al caso di individui che assimilano idee nuove, non di gruppi preesistenti che cercano improbabili fusioni.

      1. Ah ok in questo caso ritiro l’obiezione. Mi aveva tratto in inganno il passaggio finale sulla conciliabilità delle prospettive e sull’incontro nel terreno dell’analisi.

  2. Mi pare che, al netto della ricostruzione storica, il passaggio chiave del tuo articolo sia il seguente:
    “…Ciò significa che vanno riconosciuti i modi fondamentali dell’influsso dell’economia sulla società (alienazione, sfruttamento), che vanno denunciati i meccanismi di ricatto economico su individui e gruppi, che va compreso come la mercificazione operi in profondità nel disgregare soggetti e forme di vita. Al tempo stesso bisogna comprendere come ciascun soggetto sia pienamente ciò che è in quanto nato e cresciuto in uno specifico contesto: famigliare, territoriale, linguistico, culturale, materiale; e che tale appartenenza ne definisce in parte significativa l’orizzonte valoriale e il senso. Bisogna comprendere che tanto l’identità individuale quanto l’identità collettiva rappresentano fattori determinanti nella definizione di ciò che di volta in volta è ‘di valore’, e che perciò svuotare tali identità nel nome di un’umanità astratta composta di individui idiosincratici e, di principio, mutuamente estranei è non solo un errore teorico, ma una fondamentale minaccia al senso che gli uomini conferiscono alle proprie esistenze…”.
    Mi sembra ampiamente condivisibile quanto di difficile realizzazione per le ragioni che hai evidenziato a cui vorrei aggiungerne altre di natura prettamente psicologica come personale contributo su un tema che mi pare centrale.
    Mi riferisco ai tipi psicologici del noto lavoro di Jung ed alle ricadute, che Jung stesso evidenzia, sul piano storico filosofico, sulle contrapposizioni che attraversano la storia dell’umanità e del pensiero filosofico, religioso, scientifico, politico (nel suo libro fa diversi importanti esempi). La contrapposizione che tu evidenzi mi pare possa essere ricondotta alla contrapposizione tra tipo estroverso ed introverso e, all’interno di questa, alla contrapposizione tra funzione di pensiero e funzione di sentimento. Il tipo estroverso/di pensiero assolutizza la propria tipologia e così fa il tipo introverso/di sentimento. Ne derivano impostazioni divergenti anche a livello religioso, filosofico e politico. Solo persone (intellettuali, leader, ecc) che abbiano compiuto un serio percorso psicologico e non facciano più troppe proiezioni, saranno in grado di riconoscere la propria tipologia ma anche quella diversa dell’altro e così, anziché contrapporsi, saranno in grado di compiere la coniunctio oppositorum ad un livello più alto. Prima che ciò accada, spesso lo scontro è inevitabile perché si proietta sull’altro la propria ombra distorta (cioè l’aspetto che non si incarna e che invece l’altro esprime) o, talvolta, avviene la cosiddetta enantiodromia, cioè la parte di sé negata emerge improvvisamente in forme parossistiche estremizzate e distorte. Questi fenomeni, che ho descritto in modo astratto, ad un’attenta osservazione sono ben visibili nelle quotidiane dinamiche politiche e sociali. Non di rado vediamo razionali e tolleranti libertari assumere comportamenti e posizioni fascistoidi; o esponenti dei più integrali principi etici cadere nelle pratiche più turpi ecc. C’è quindi un grande lavoro per quegli intellettuali e quei leader politici che hanno capito il problema che poni; un lavoro che è al tempo stesso psicologico individuale e di nuova elaborazione politico-culturale. Quando in un consesso di leader politici o di intellettuali ci si potrebbe aspettare che ognuno faccia le sue proiezioni scatenando il conflitto e invece ci sono persone che si alzano a parlare e non lo fanno, queste saranno il faro che illumina il mondo, l’esempio per tutti. Ovviamente questo è solo uno dei diversi approcci necessari per affrontare il problema. Mi rendo conto di essere stato lungo ed, allo stesso tempo, di aver compresso concetti che di conseguenza forse non risulteranno chiari.

  3. Salve, non sono un profesisonista del pensiero e non ho molta conoscenza della letteratura filosofica; tuttavia sono cultore del pensiero filosofico e di quello politico tanto quanto cerco di coltivarmi e produrmi alcuni alimenti. Questo premesso, faccio una considerazione su questo suo lavoro; il suo articolo mi pare notevole come compendio di storia del pensiero politico degli ultimi due secoli. Notevole e, quindi, utile, istruttivo, efficace in questa forma sintetica da lei esposta. Lei vuole porre le basi, se non sbaglio, per una prospettiva politica nuova. Qui le scrivo per ridimensionare questo suo sforzo di preparazione di nuove basi per una nuova prospettiva politica; ridimensioanre perchè, rispetto ai miei valori di riferimento, presumo, forse sbagliando, che la sua sistemazione di queste fondamenta ideologiche vanno a perpetuare un certo totalitarismo che costante mente nelgi utlimi due secoli ha solcato e determinato i mari della storia politica e sociale nell’albero maestro della idea totale di “Stato”. Estrapolo dall’articolo il suo inciso assertivo finale:

    “… una politica che voglia rappresentare un’alternativa al modello dominante deve far posto a idee e valori che si sono trovate storicamente su versanti differenti: giustizia sociale, solidarietà, redistribuzione, comunità, appartenenza, identità, lealtà, onorabilità, riconoscimento, senso dello Stato e amore per la propria terra.”

    Se consideriamo l’esperienza umana in senso storico e atavico, mi corregga se sbaglio, la produzione di cultura umana parte fin dal pleistocene; sono migliaia di secoli, di generazioni, di esperienze collettive delle più diverse e disparate in ogni angolo del pianeta. Un fenomeno immane, impressionante. Poi cinquemila anni di “civiltà” documentata e tre secoli di accelerazione in un vicolo cieco di semplificazione dell’esperienza umana; una semplificazione razionale, distruttrice, totalitaria, unilaterale, sprezzante e quasi autistica operata dai poteri umani organizzati, vale a dire il dominio.

    L’albero maestro su cui si sono spiegate e gonfiate le vele del dominio è proprio, come ritengo, la “idea dello Stato”. Nella sua asserzione lei la elenca fra le altre idee umane così, con semplice non cura, quasi a contrabbandarla in mimesi come idea tra le idee, senza un cartello con su scritto “attenzione, idea totale che mangia tutte le altre idee”. Si, convengo che siamo in un particolare periodo di transizione, ma dissento da questo tentativo di voler traghettare il lupo assieme alle pecore sullo stesso battello. E questo è il punto ideologico che costituisce l’ambiguità dei nuovi tentativi politici di questi ultimi anni specie qui in Italia.

    Proprio la dicotomia destra-sinistra è interna allo stato, alla idea dello Stato. Nasce proprio nella rivoluzione francese, una irvoluzione che fa nascere il vero stato moderno e non lo abbatte: destra e sinistra sono lì, assisi sui rispettivi scranni, pronti a darsi in staffetta l’idea del potere organizzato, in un processo univoco di efficientamento evolutivo del dominio, fino ad arrivare alle nefaste prospettive distopiche e antiumane della teconologia figlia della idea di Stato.

    A mio personale avviso politico, invece, bisogna continuare a discernere le idee, altrimenti si rischia di continuare a confondere le prospettive, di ridurne il numero e la diversità, di manipolarne il paniere, di continuare gli steccati zootecnici e non il dispiegamento di libere, ahimè improbabili, società umane.

    Cordiali saluti.

    1. La sua osservazione, di cui la ringrazio, mi pare tuttavia insostenibile. Essa fa parte di quella diffusa statofobia promossa dalla teoria liberale, ma che non regge né dal punto di vista empirico, né logico. Sul piano empirico affermare che lo Stato fa la sua comparsa negli ultimi tre secoli è insostenibile: di compagini statali si parla dall’Età del Bronzo e attribuirvi una ‘accelerazione’ rivolta all’efficientamento è semplicemente falso. Non, beninteso, che non siano venute alla luce negli ultimi secoli “prospettive utopiche e antiumane della tecnologia” – come lei si esprime – ma attribuirle all’essenza dello Stato è dimostrabilmente falso. Nel ‘900 abbiamo una fiammata di Stati europei con inclinazioni autoritarie, la cui origine può essere spiegata con un’analisi che qui non posso fare, ma di contro a tali esempi vi sono centinaia di esempi di organismi statali, contemporaneamente, prima e dopo, che non hanno presentato caratteristiche totalitarie. Dunque il suo argomento non mi pare stia in piedi.

      1. La ringrazio della sua osservazione e della possibilità di questo dialogo. Ovviamente, il mio intervento è di tipo critico, non ci giro intorno. E’ vero, lo Stato, inteso come “organizzazione sociale coattiva”, è rintracciabile fin dall’età del bronzo, infatti parlo dei 5.000 anni indietro da oggi, riferendomi anche all’esperienza umana cinese, a quella mesopotamica e via elencando. Per questo io l’ho presa molto larga con l’artificio discorsivo del “pleistocene”, che comunque credo sia inconfutabile; è dal pleistocene che comincia la produzione culturale umana ed essa diventa fattore evolutivo, in senso anche genetico; teniamo ben presente questo punto specie se si pensa, ad esempio, alla comparsa della “coscienza” come risultato evolutivo biologico. Negli ultimi tre secoli, credo sia innegabile, lo Stato come fatto empirico storico, riscontrabile fino ad allora in maniera discontinua nel corso storico documentabile, diviene una espansione costante, pervasiva e totalizzante di tutta la geografia umana terrestre; per questo parlo di “efficientamento” del fatto empirico Stato (fatto artificiale) in “idea dello Stato”, vale a dire come qualcosa di “naturale”, un incontrovertibile dato a-priori rispetto al mondo umano. La mia critica verte puntualmente proprio su questo: lei nella sua Arca di transizione imbarca assieme a una precisa serie di idee sociali umane (riporto: giustizia sociale, solidarietà, redistribuzione, comunità, appartenenza, identità, lealtà, onorabilità, riconoscimento, amore per la propria terra) anche l’idea dello Stato; io dico che è come mettere nell’arca un predatore fra le sue prede naturali; il lupo fra le pecore. Anzi, spingendo un passo oltre la mia critica, lei addirittura trasvaluta, mi corregga se è improprio questo verbo, l’idea di stato in “senso dello Stato”, quasi un passaggio dal razionale all’incistamento inconscio del concetto archetipo, ma pur sempre artificiale, dello Stato come fatto empirico che può essere umanamente rifiutato, criticato, contrastato nella idea e nel fatto. Ora lei della sua arca di transizione può giustamente fare ciò che vuole e io non voglio essere così maleducato da entrare in casa di altri a cambiare o sfasciare l’arredo. Tuttavia devo far notare che sarebbe meglio mettere all’ingresso un cartello di avvertenza, di stare attenti al cane e al padrone: lo Stato è un fatto gerarchico coattivo che si genera e si fonda sulla forza o violenza che dir si voglia; eticamente, a mio parere etico soggettivo, bisognerebbe essere chiari su questo altrimenti si rischia un travisamento, una mimesi. L’ennesima di una lunga serie storica di concezioni politiche.
        Mi scuso se ora mi dilungo ancora un pochino, ma ne vale la pena. Svolgo qui, per elencazione, la mia considerazione sulla sua risposta:
        – Non mi piace annoverare la mia concezione nella diffusa stato-fobia; io nutro un sincero odio per il fatto e per l’idea dello Stato e non una paura, sebbene ritengo sia sano provarla come per qualunque pericolo reale.

        – Non ritengo che la teoria liberale sia antistatale. La teoria liberale forse può atteggiarsi, per fini mistificatori, ad una posa antistatale, ma la prassi liberale, proprio riconoscibile come produzione, riscossione e accumulo di valore, non può prescindere dallo Stato come fatto, come strumento pratico, come polizia per il dispiegamento geografico e zootecnico, umani compresi, della prassi liberale. I liberali vogliono uno Stato come piace a loro, ma aborrono l’assenza dello Stato. Se mi sbaglio, mi si dimostri. Altresì, di converso, è inveterato l’equivoco Statalismo vs. Capitalismo, oppure la finta dicotomia Pubblico vs. Privato, laddove si tratta fondamentalmente sempre di capitalismo, di processi di dominio, spossessamento, sfruttamento e accumulazione.

        – Devo fare una rettifica espressiva nell’indicare il pericolo reale di “prospettive distopiche e antiumane della tecnologia”. Non sono assurdamente anti-tecnologico, rivendico l’autonomia della scelta tecnologica, discernimento che comporta sia il rifiuto che la distruzione di ciò che si ritiene nocivo. Non bisogna sottovalutare che la coscienza umana, pur comparendo come risultato evolutivo anatomico-biologico, è divenuta, attraverso la produzione culturale e materiale, essa stessa fattore di evoluzione anatomico-biologica. Per questo il controllo e la manipolazione della coscienza attraverso, e anche, la produzione culturale sono fattori di lotta sociale determinanti sia nell’immanenza della gerarchia sociale, sia nella prospettiva evolutiva. Dal binomio Dio e Stato siamo arrivati alla trinità Stato-Capitale-Tecnologia, una trinità di essenze sempre più indiscernibile e indivisibile. E chissà dove porterà questa evoluzione, ma non mi sembra di scorgere nulla di totalmente buono e auspicabile.

        – Lo Stato, come fatto e come idea, è autorità, è coattivo o non può essere; per questo è una idea totale. In realtà, nella prassi, è un apparato sociale (strumento) di costruzione e mantenimento della gerarchia sociale; può inglobare qualunque fatto o idea sociale che si componga gerarchicamente, ma deve necessariamente distruggere qualunque altra idea o fatto sociale anti-gerarchico. Questa essenza autoritaria e totalizzante non è una mera inclinazione, ma è proprio la sua essenza, sebbene la si tenda a mascherare e nascondere sotto le altre idee sociali, come da lei annoverate. Lei infatti dice che “vi sono centinaia di esempi di organismi statali, contemporaneamente, prima e dopo, che non hanno presentato caratteristiche totalitarie.” Bene questo sarebbe un utilissimo fronte di studio se ci fornisse degli strumenti cognitivi di valutazione e di misurazione del grado di autorità e di totalità dello Stato, purché fosse ancora concessa, di grazia, la possibilità umana di concepire e praticare l’altrove umano fuori da esso, un altrove altresì atavico, naturale e si spera ancora futuribile.

        La ringrazio dello spazio di libera discussione che le fa onore, le prometto di limitarmi a questo mio intervento come ultimo.

        1. Prendo atto della sua posizione che trovo del tutto insostenibile. Quest’idea che lo Stato in quanto tale sia per sua intrinseca essenza un Leviatano oppressivo, un lupo tra gli agnelli, è qualcosa che sta a metà strada tra gli ideologemi del liberalismo classico e dell’anarchismo. I controesempi di Stati gestiti bene e in cui le soggettività individuali partecipano liberamente alla vita collettiva esistono nella storia e non sono pochi, a partire dalle città-stato dell’Antica Grecia. Di contro, l’idea di un mondo senza compagini statali, nella realtà attuale significa semplicemente un mondo consegnato alle corporation private, che trovo immensamente più minacciose degli stati peggio gestiti. Dunque direi che possiamo serenamente riconoscere di essere in pieno disaccordo.

          1. Siamo in totale disaccordo perchè io sono anarchico e comunista, non sono liberale. Tuttavia non ho scritto per cercare acocrdi, ma penso di averle indicato molti spunti di studio, che non si oppongono di per sè al suo assetto ideologico personale, ma necessitano di un approccio serio e profondo e non superficiale. La ringrazio per avermi insegnato il lemma “ideologema” che adesso studierò.

            Cordiali slauti.

  4. Sicuramente, quale punto di partenza per una riflessione sullo “stato dell’arte” determinatosi, in “occidente” ( notazione opportunissima nell’incipit del lavoro), l’articolo apporta notevolissimi spunti di riflessione, e la dichiarazione dell’autore della sua attuale attività di ricerca, che darebbe luogo ad un prossimo lavoro editoriale, ne definisce anche la limitatezza di analisi, insito peraltro nella forma di “articolo giornalistico”.Tuttavia, nel leggere attentamente l’articolo non si può prescindere da una duplice considerazione critica:
    1)- Il carattere occidentale-centrico di tutto l’articolo.
    2) La mancanza di proiezione al futuro e per converso un eccessivo sguardo al passato storico.
    L’attuale fase storica” globalista” non consente più, a mio avviso analisi che non siano a loro volta” mondialiste”. Uno dei fattori critici e sintomatici di tutti i nuovi movimenti politici o pseudo politici nati nell’ultimo ventennio in occidente, è proprio l’assenza di un analisi di” politica internazionale”. C’è insomma in questi movimenti l’accettazione di non dover invadere campi specificamente imperiali. Il prossimo ventennio a mio avviso non potrà prescindere dalla geo-politica. L’analisi sulla necessità di una sintesi tra valori di destra e sinistra, va proiettata sul futuro, i nuovi valori saranno determinati dalle contraddizioni innumerevoli e irrisolvibili che il Sistema, nonostante la sua resilenza e adattamento , sta producendo. Gli eventi porteranno di fatto al superamento di una terminologia politica che oggi solo il liberismo ha interesse a tenere in piedi. Anche se il rimescolamento di valori tra quelle che furono destra e sinistra è scontato , in quanto la visione del mondo liberista attacca i sistemi valoriali di entrambi , è però scontato che si dovrà fare i conti anche con i valori non occidentali. Siamo in una fase di indeterminatezza assoluta, per cui sforzi teorici sono necessari ma anche assolutamente inadeguati, vista la necessità accanto alla ricerca teorica di una ricostruzione completa di strumenti politici a disposizione delle classi subalterne, cosa che allo stato dell’arte non si vede chi potrà farlo. In occidente, se tale progetto si concretizzerà, sarà senza dubbio importante in quanto consentirà ad un movimento popolare di intervenire nei processi di ridefinizione strategici che se lasciati solo alla geo-politica determineranno catastrofi.

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