Nota critica sul “Veganismo”

Dopo aver condiviso un articolo critico del veganismo (http://thevision.com/scienza/vita-di-un-vegano-non-etica/) ho avuto la ventura di imbattermi in un secondo articolo (https://www.facebook.com/notes/massimo-sandal/perch%C3%A9-non-c%C3%A8-nulla-di-etico-in-quellarticolo-sui-vegani/10155629546823286/) che, in modo intelligente, critica il primo articolo, che avevo condiviso su FB.

Tra le notazioni che mi hanno colpito in questo secondo articolo c’è la seguente:

“Bisognerebbe studiare bene (se già non è stato fatto) il disprezzo che certi segmenti esternano verso i vegani – disprezzo che serpeggia in gran parte tra segmenti del pubblico che spesso si piccano di essere “razionali” – e il virtue signalling in merito. Perculare vegani sembra una specie di badge per segnalare al prossimo di stare da una certa parte, dove “parte” è un frame ideologico dove la patina di razionalpositivismo non è che un paletto tribale intorno al quale raccogliersi.”

Pur non essendo mio costume “perculare i vegani”, mi sono sentito in qualche modo chiamato in causa, in particolare perché mi sembra che venga qui costruita una visione di comodo delle critiche al veganismo. Credo sia utile provare a spiegare, in breve e senza pretese di esaustività, da quale punto di vista una critica al veganismo può essere culturalmente significativa.

Beninteso, non pretendo di coprire con ciò la totalità delle voci critiche, e sono certo che tra esse vi saranno anche personaggi che si raccolgono attorno al “paletto tribale del razionalpositivismo” (qualunque cosa questo voglia significare), ma credo comunque che liquidare quelle critiche sia improprio e meriti una replica.

Tre Premesse

1) Per Veganismo, nella definizione proposta dalla Vegan Society, si intende un movimento che mira ad evitare: “ogni forma di sfruttamento e crudeltà verso animali, per scopo alimentare, per il vestiario, come per qualunque altro scopo; per estensione, promuove lo sviluppo e l’uso di alternative che non prevedono l’utilizzo di animali, per il beneficio degli umani, degli animali e dell’ambiente. In termini di dieta denota la pratica di astenersi dal consumare prodotti derivati completamente o parzialmente da animali.” Nel prosieguo avremo in mente soprattutto quest’ultima pratica, in cui si riassume la maggioranza dei casi empiricamente riscontrabili, pur tenendo presente il quadro generale.

2) Nel prosieguo partirò dall’assunto liberale per cui scelte personali che non danneggino terzi sono fino a prova contraria sempre legittime. In questo senso la scelta di non mangiare derivati del regno animale, come scelta privata, è fino a prova contraria perfettamente legittima e non ho alcun interesse o intenzione di contestarla.

3) Un problema relativo al veganismo esiste solo nella misura in cui tale movimento culturale si presenti come una proposta che si propone come modello moralmente normativo, cioè come la pretesa che tale comportamento, in linea di principio, debba essere adottato da ogni altra persona dotata di saldi principi morali. In questo senso si tratta di una posizione che travalica le scelte personali e si propone in una dimensione pubblica, con cui è opportuno fare i conti. (Dopo tutto un cugino culturale del veganismo, ovvero l’animalismo, si è appena presentato in Italia come movimento politico, accreditato di un 3-5% alle prossime elezioni: questi non sono dunque più ‘fatti privati’).

Tre Critiche

Se dobbiamo valutare la generalizzabilità pubblica di una posizione morale, allora è necessario valutare quali sono le motivazioni intersoggettivamente condivisibili a sostegno di tale posizione.

Nella fattispecie, al meglio delle mie conoscenze, le motivazioni primarie che ho incontrato nelle discussioni da parte dei sostenitori del veganesimo si radicano in due istanze:

a) in motivazioni di ordine religioso, legate a tradizioni orientali;

b) in motivazioni dipendenti dalla volontà di non “sfruttare gli animali”.

Su a) non c’è molto da dire, salvo una considerazione generale che riguarda tutte le credenze dogmatiche non basate su alcuna chiara intuizione assiologica. Ogni tesi che sostenga la necessità morale di adottare un certo comportamento “Perché sì”, o “Perché Dio (o il mio dio, o i miei dei, ecc.) lo vuole”, o “Perché così hanno voluto i miei avi”, ecc. è costitutivamente e sempre una tesi pericolosa. È una tesi pericolosa perché questo modo di motivare si sottrae strutturalmente ad ogni tentativo di raggiungere una mediazione razionale tra soggetti diversi, e dunque, presto o tardi, lascerà come unico orizzonte per dirimere controversie un confronto in termini di forza. Checché ne dicano certi fautori del pensiero debole, l’alternativa alle motivazioni razionali è sempre e solo la forza (e dunque invocare la “violenza della ragione” è una simpatica corbelleria).

Quanto a b) invece, quella radice motivazionale va suddivisa in due possibili versanti argomentativi:

Si può intendere la “volontà di non sfruttare gli animali” in un senso morale deontologico, cioè come un imperativo basato su una qualche intuizione morale, e refrattario a considerazioni in termini di conseguenze, di contesto, di quantità.

II° Si può intendere la “volontà di non sfruttare animali” in senso consequenzialista, cioè prendendo in considerazione conseguenze moralmente sgradite che si vogliono evitare (cosa si configura come moralmente sgradito è da determinare con un’ulteriore intuizione).

Su I°.

Un’istanza deontologica pretende che un certo comportamento sia sempre sbagliato (o sempre giusto) a prescindere dalle conseguenze. Il miglior argomento sulla piazza, quello presentato da Kant nella Critica della Ragion Pratica, è stato fatto oggetto spesso di consistenti critiche. Gli imperativi kantiani vietano ogni comportamento la cui massima non possa diventare principio di una legge universale; in altri termini, qualunque comportamento la cui universalizzazione si riveli insostenibile per la sussistenza di soggettività razionali deve essere esclusa. Ciò porta a molti casi convincenti, ma anche a casi decisamente controintuitivi, come l’impossibilità morale di mentire in qualunque situazione. Così, mentire all’ufficiale nazista alla ricerca di ebrei da deportare può risultare un comportamento immorale, mentre fare il delatore in questa situazione potrebbe risultare moralmente esemplare. Ma lasciamo da parte le critiche alla deontologia kantiana e ammettiamo per un momento che non ci sia alcun problema e che tutto fili liscio. Resta un problema di fondo, se volessimo applicarne la struttura alle istanze del veganesimo, giacché il modello kantiano si fonda in modo essenziale sulla comunanza di fondo tra tutti gli esseri razionali: è solo perché l’altro essere razionale è un ‘altro-come-me’ che io sono chiamato a trattarlo sempre come fine e mai come mezzo. Ma proprio questa fattispecie è esclusa a priori nel caso in cui volessimo estendere il ragionamento all’intero regno animale. Chi volesse proporre un argomento deontologico alternativo dovrebbe assumersi l’onere di mostrare come e perché mangiarsi di quando in quando un formaggino debba risultare un comportamento impossibile da universalizzare. Faccio i migliori auguri a chi voglia tentare l’impresa.

Ma e che dire se ci fosse un’altra argomentazione, di matrice deontologica normativa, ma non kantiana? Non ho mai incontrato una difesa decente di questa posizione, ma fa capolino di quando in quando un’argomentazione che proverei a razionalizzare come segue:

α) Non abbiamo diritto a sfruttare gli animali perché farlo implica l’assunzione che noi, in quanto esseri umani, avremmo diritti differenti e superiori.

β) Tale assunzione di diritti sarebbe fondata su di un assunto specista, cioè sull’idea che la specie Homo Sapiens abbia per natura diritti suoi propri.

γ) Ma lo specismo sarebbe un pregiudizio simile al razzismo: non c’è nessuna ragione in un quadro biologico per conferire particolari privilegi ad una specie rispetto alle altre, visto che c’è un continuum tra ogni specie ed ogni altra.

δ) Ergo, essendo lo specismo ingiustificato, ne deriverebbe la mancanza di giustificazioni per ogni conferimento di diritti privilegiati alla specie Homo Sapiens e con ciò verrebbe meno anche ogni legittimazione a sfruttare gli animali.

Ora, una tesi condotta su queste linee è di estrema fragilità, essendo attaccabile da una molteplicità di punti. Mi limito ai principali.

Ad γ): Dire che la continuità biologica tra specie non giustifica l’attribuzione di privilegi ad una specie è un’applicazione negativa della fallacia naturalistica. Si sta derivando dal fatto biologico delle continuità tra specie una tesi normativa, sia pure in forma negativa: non ci sono privilegi in termini di diritti. Ma questa è semplicemente un’asserzione buona quanto ogni altra, perché è certo che noi non traiamo istanze di diritto dal mero fatto biologico che vi sia una continuità o discontinuità tra specie.

Ad β): Ritenere che i diritti sarebbero conferiti sulla base dell’appartenenza ad una specie biologica privilegiata è insensato, ed è comprensibile solo in una temperie culturale nata all’ombra della retorica della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (1948). Di fatto i diritti, tutti i diritti, sono conferiti sempre solo sulla base di specifiche qualità riconosciute ad una classe di soggetti, e non sulla base di un’appartenenza biologica. Un soggetto ha il diritto di voto sotto certe condizioni come la maturità, o la rettezza morale (ne sono esclusi minorenni e talvolta autori di reati), ha il diritto alla libertà sotto certe altre condizioni (ad esempio non essere di nocumento agli altri), ha il diritto a firmare contratti sotto ancora altre condizioni (sanità mentale, maggiore età), ha il diritto alla conservazione della vita purché non minacci la mia vita, o non sia un nemico in guerra, ecc. Può poi accadere che si ritenga che, per lo più, certe qualità siano in possesso di tutti i membri della specie umana, e su questo assunto forfettario possono nascere approssimazioni non inutili come le dichiarazioni sui diritti umani. Ma è necessario tenere ben fermo che sono le qualità specifiche (attuali o potenziali) e non l’appartenenza ad una specie biologica a fornire una base per il conferimento di diritti. Conferisco il diritto di opinione, di espressione o l’Habeas Corpus ad un soggetto che ritengo abbia le capacità di pensare, di esprimersi e di capire le motivazioni di un’accusa. Non lo conferisco ad un genoma. Infatti, se domani scoprissimo che persone capaci di razionalità, riflessione, linguaggio e giudizio morale non hanno il genoma che finora abbiamo riconosciuto agli umani questo non cambierebbe di una virgola il fatto che considereremmo quelle persone come recipienti di diritti attribuiti ad altre persone razionali, riflettenti, ecc. E quanto alle specifiche biologiche del genoma ce ne faremmo una ragione e avvieremmo una ricerca ulteriore.

Ad α): Infine, è utile ricordare che la prima specie che sfruttiamo da sempre è proprio quella umana, e lo facciamo ampiamente a tutt’oggi in gran parte del mondo. Chi si appella all’antispecismo per trarre conclusioni circa la pari dignità di tutte le specie animali dovrebbe prendere molto sul serio le conseguenze di ciò che sta sostenendo: sta sostenendo, che lo voglia oppure no, che tra la zanzara che punge tuo figlio e tuo figlio, oppure tra il cameriere che ti sta portando il menù vegano ed un ratto nella fognatura sottostante non c’è alcuna concepibile differenza di diritti e di dignità. Il mio sommesso suggerimento a chi voglia davvero sostenere qualcosa del genere è di farlo molto sottovoce, perché questo passo è semplicemente un’uscita senza possibilità di rientro da ogni forma morale nota, e il potenziale tasso di immoralità conclamata di una posizione del genere è roba di fronte a cui le più devastanti ideologie storiche impallidiscono.

Su II°:

Veniamo ora all’opzione consequenzialista.

  • Un’istanza consequenzialista mira a sopprimere conseguenze negative. Quali sarebbero le conseguenze negative che il veganesimo avrebbe di mira? L’appello allo ‘sfruttamento’ degli animali è un concetto molto vago e, direi, anche piuttosto retorico. Noi abbiamo più o meno un’idea circa cosa possa contare come sfruttamento sul piano delle relazioni interumane. In un senso generalissimo, sfruttamento è uno ‘scambio ineguale’ in cui uno dei partecipanti allo ‘scambio’ dà molto più di quanto riceve. In questa nozione di sfruttamento entrano notoriamente molte componenti di non facile valutazione, ma se passiamo al piano delle relazioni tra umani e animali ciò che prima era una difficoltà diviene d’un tratto un abisso di incomprensibilità. Se uso il cuoio di un animale morto è sfruttamento? Se lo nutro per molti anni e poi lo sopprimo per usarne il cuoio è sfruttamento? Perché gli avrei dato meno di quello che gli ho preso? Secondo quale criterio? E se nutro una mucca e poi le prendo il latte è sfruttamento? Se alimento una gallina e le prendo le uova è sfruttamento? Francamente messa in termini di ‘sfruttamento’ la questione mi pare manifestamente intrattabile: ci si può fare sopra un cartone animato tipo “Galline in fuga”, ma se vogliamo costruirci sopra un’argomentazione che stia in piedi la vedo male, perché mancano proprio i presupposti di fondo per applicare sensatamente la nozione di sfruttamento.

 

  • Una interpretazione alternativa potrebbe essere quella di valutare non la nozione di sfruttamento, bensì quella di sofferenza animale. Qui l’argomento ha certamente maggiore presa. Esso però diventa immediatamente un argomento non assolutista e legato a specifiche condizioni empiriche. Potremmo dire che la mucca che pascola serena sui prati alpini per anni e poi viene uccisa in modo rapido e indolore ha un bilanciamento piaceri-dolori vantaggioso, non foss’altro perché se non venisse allevata per fornire carne non sarebbe proprio mai venuta in esistenza. Interrogare la mucca a proposito è notoriamente arduo. In quest’ottica il problema diverrebbe quello di cercare, in termini di buon senso e a spanne, di minimizzare la sofferenza animale. Questa è una posizione che personalmente condivido integralmente. Essa però non è più minimamente in grado di portare a tesi vegane: se mangio le uova dal pollaio di mia nonna, o bevo il latte di un allevamento montano di qualità sono moralmente a posto al cento per cento. A questo punto l’idea di astenersi dal consumo di prodotti di derivazione animale sembra non entrarci più se non in modo del tutto contingente. Il vero problema si sposta sul piano del miglioramento della gestione delle condizioni di vita degli animali negli allevamenti o nella gestione indolore della loro morte. Tutte cose che possono o non possono avere rilevanza per le nostre pratiche dietetiche. A questo proposito le osservazioni dell’articolo di cui sopra, contestatissimo dai vegani, rimangono decisamente pertinenti: di per sé spostare le proprie scelte alimentari in direzione di svariati succedanei vegani (a base di soia, quinoa, anacardi, ecc.) non garantisce affatto né la riduzione dello ‘sfruttamento’ di animali (inclusi naturalmente quegli sciagurati primati che siamo), né una riduzione della sofferenza di animali. Il nesso qui è puramente immaginario.

 

  • Conclusione

Il problema posto dall’ideologia vegana (nella misura in cui è appunto un’ideologia, non se rimane sul piano di una scelta privata), è posto dal fatto che essa si presenta con caratteristiche inquietanti. In primo luogo, tale ideologia si configura come un’istanza morale con pretese assolutistiche: non si tratta di ridurre un processo con esiti sgradevoli, di valutarne i meccanismi di implementazione, di cercare di modificarne gli esiti, bensì di adottare un certo comportamento senza se e senza ma. In secondo luogo, la nettezza di questa istanza normativa, sia pure con un sorriso pacifista sulle labbra, sembra basarsi su qualcosa che esprimerei in termini ‘specisti’ come un “tradimento di specie”: il vegano che rivendichi la moralità universalizzabile della sua pratica sembra ci stia dicendo con ciò che tu ed un tafano per lui pari sono. Difficile pensare a qualcosa di più moralmente eversivo. In terzo luogo, questo assolutismo si presenta con fondamenti vaghi, fragili, e perciò in ultima istanza come una posizione dogmatica refrattaria al ragionamento. La combinazione in un movimento culturale di tratti dogmatici, assolutisti e moralmente eversivi è oggettivamente inquietante, per quanto buone possano essere le intenzioni. Poi, naturalmente, nella speranza che il Movimento Vegano non si presenti mai alle elezioni, ce se ne può legittimamente disinteressare.

 

 

14 Risposte a “Nota critica sul “Veganismo””

  1. La cosa curiosa sono i marchi vegani, che certificano come non sia stato sfruttato alcun animale. Peccato che lo sfruttamento dell’uomo non sia contemplato. Insomma, l’uomo, alla fine dei conti, è meno degno di un animale di essere tutelato. Il che risulta una sorta di autospecismo.

  2. Articolo molto interessante. Tuttavia non condivido la conclusione. Credo che fare appello alla sofferenza animale sia il migliore argomento per il veganesimo. Sembra un dato di fatto abbastanza ovvio che uomini e animali (a esclusione forse di alcune specie al limite del regno vegetale) siano in grado di provare sofferenza allo stesso modo. Ad esempio, prendere a bastonate un uomo o una mucca sembra produrre bene o male gli stessi effetti su chi le bastonate le riceve. Detto questo, dato che sono disponibili stili di vita che non provocano gravi sofferenze agli animali e che provano piccoli svantaggi agli esseri umani (es. mangiare un hamburger di soia anzichè uno di manzo), sembra moralmente giusto adottare quegli stili di vita. Il fatto che l’argomento che si muove dalla sofferenza animale non sia assolutista non mi sembra un problema. Diverse massime morali quasi universalmente accettate non lo sono. Come lei osserva, “non mentire” sembra un’ottima massima morale, eppure sembra corretto mentire se un ufficiale nazista ci chiede dove sono nascosti degli ebrei. O più banalmente, “non attraversare col rosso” sembra una buona norma di condotta, a meno che non si stia trasportando un malato urgente all’ospedale e nella situazione contingente attraversare col rosso non comporta rischi.

    1. Pur non essendo rilevante all’argomento svolto devo ricordare che non è affatto ovvio che la capacità di sofferenza sia equanimemente distribuita nel regno animale. Reagire ad un dolore e soffrire per un dolore sono fenomeni neurofisiologicamente diversi, e anche nell’uomo si possono creare condizioni in cui la capacità di percepire un dolore rimane intatta, mentre la sofferenza per il dolore è sostanzialmente assente (v. Damasio). Il disaccoppiamento tra sensazione dei nocicettori e sofferenza è visibile anche nei comportamenti masochistici.
      Detto questo, resta del tutto aperto l’argomento se essere in vita e dare il proprio latte sia peggio che non essere proprio in vita del tutto (destino di ogni mucca da latte sul pianeta nel momento in cui dovesse essere lasciata libera, o nel momento in cui non fosse allevata per produrre il latte in primo luogo).

      L’unico punto che riguarda l’argomentazione dell’articolo sembra limitarsi a non prendere in considerazione quanto detto.
      Lei infatti si limita ad AFFERMARE il nesso tra mancato consumo di un derivato del latte e riduzione della sofferenza animale, ma proprio questo nesso è del tutto aleatorio. Ci sono specifiche forme di allevamento industriale che abbiamo ragioni per credere che possa essere causa di sofferenza, in particolare quelli dove l’animale non ha possibilità di movimento, e su questo punto concordo che sia un atteggiamento moralmente raccomandabile quello di cercare di sostituire quelle forme di allevamento con forme che si adattino di più alle disposizioni naturali di una specie (tra cui vi è senz’altro la libera deambulazione). Ma il nesso tra “eliminazione del consumo di derivati animali” e “riduzione della sofferenza animale” è un nesso prevalentemente immaginario, sia perché la riduzione della sofferenza animale si può ottenere senza eliminare dal consumo tutti i derivati animali, sia perché, come detto, la produzione di succedanei dei derivati animali possono danneggiare direttamente e indirettamente altri animali (dalla deforestazione allo sfruttamento di ‘animali umani’).

      1. sì, ho assunto che il consumo di derivati animali GENERALMENTE provoca sofferenza negli animali. Certo, ci sono casi in cui questo non è il caso. Esempio: ho una gallina felice in giardino e decido di cibarmi delle sue uova. Oppure potrebbero esserci cause di morti naturali in cui non ci sarebbe nulla di male nel cibarsi del corpo dell’animale quando edibile. Ora, queste mi sembrano tutte considerazioni empiriche che dipendono da fattori contingenti. Tuttavia, questi distinguo non mi sembrano intaccare il principio che secondo me dovrebbe essere alla base di scelte orientate al veganesimo. Il principio non è o non dovrebbe essere “necessariamente, cibarsi di prodotti animali è moralmente sbagliato”. Questo, come lei osserva, si espone a controesempi. Il principio guida dovrebbe essere secondo me “è moralmente corretto ridurre o eliminare la sofferenza animale causata dai comportamenti umani, quando possibile”. Chiaramente la clausola “quando possibile” apre il campo a una miriade di considerazioni pratiche e legate alla contingenza del mondo nel quale viviamo. Tuttavia, come scrivevo nel precedente intervento, questo mi sembra il destino di molti (se non tutti) i principi che comunemente accettiamo e quindi non mi pare un’obiezione solida. Ad esempio, massime che comunemente accettiamo come “non uccidere individui innocenti” possono essere messe tra parentesi in casi in cui per un qualche motivo un bambino nasce con una malattia mortale infettiva altamente contagiosa e per cui non si conoscono cure.
        Tornando alle considerazione contingenti, è vero che ci sono modalità di allevamento che minimizzano o annullano la sofferenza animale. Certo, è certamente concepibile un allevamento dove una mucca ha a dispozione un verde pascolo da diversi ettari, e la cui morte avviene con metodi eutanasici. Anzi, questo è spesso quello che vediamo nella pubblicità. Tuttavia, è abbastanza chiaro che allevamenti di questo genere non possono servire un consumo di massa come noi oggi lo conosciamo. Gli allevamenti di animali che producono i prodotti che troviamo nei nostri supermercati sono ispirati dal principio del maggior profitto con la minima spesa, come bene o male ogni altra attività produttiva. Se si devono tagliare le spese il più possibile, è chiaro che il primo fattore di spesa che viene tagliato è quello legato al benessere animale in termini di spazio disponibile, cibo, cure veterinarie e qualità della vita in generale. Da qui gli allevamenti intensivi che di fatto sono basati sul principio della schiavitù. Stipo quanti più animali possibili in un capannone, fornendo il minimo sindacale all’animale in termini di qualità della vita in modo che abbia buone possibilità di arrivare vivo alla macellazione. Qualcuno morirà nel processo. Pazienza, l’alto numero di capi allevati costituisce una buona ragione per tenere al minimo i fattori legati alla qualità della vita, visto il contenimento delle spese. Detto questo, mi sembra che sia corretto affermare che se vogliamo che il consumo di prodotti animali sia alla portata di tutti nel quotidiano come avviene di fatto oggi, allora necessariamente la produzione di tali prodotti genera sofferenza.
        Per quanto riguarda invece il suo passaggio “la produzione di succedanei dei derivati animali possono danneggiare direttamente e indirettamente altri animali (dalla deforestazione allo sfruttamento di ‘animali umani’).” mi limito a osservare che una delle principali cause di deforestazione sono gli allevamenti intensivi, e non certo i vegani. La stessa FAO incoraggia da anni orientamenti vegani per ragioni ambientali.

        1. Non ho nessuno problema col principio “è moralmente corretto ridurre o eliminare la sofferenza animale causata dai comportamenti umani, quando possibile”. Tuttavia in quel “quando possibile” io includo: “quando fare così non implichi un aumento di sofferenza umana”. Se è ‘specismo’ me ne farò una ragione.

          Se la FAO incoraggia orientamenti vegani per ragioni ambientali, direi che non sanno di cosa parlano. Tutto ciò che si può ragionevolmente argomentare è che una riduzione comparativa del consumo di carne rispetto a quella di prodotti vegetali è consigliabile. E questo è ben lontano dal veganismo.

  3. Il presupposto di un azione morale e’ il fatto di avere possibilita’ di scegliere, e quella di minimizzare la sofferenza animale e’ una scelta che l’uomo (oggi) ha a sua disposizione.

    Chiaramente e’ necessario un atto di bilanciamento intelligente fra interessi contrapposti. La sopravvivenza della specie umana richiede un certo inevitabile (assenza di scelta) grado di distruzione dell’ambiente naturale chiamato agricoltura. Mentre invece non hai bisogno di condannare quantita’ sterminate di animali ad una esistenza di tortura e sofferenza per sopravvivere.
    https://www.youtube.com/watch?v=I1STdr4Y3l8

    Prendiamo l’esempio del formaggino: i due interessi che staremmo cercando di bilanciare in questo caso sono (1) il tuo desiderio di provare un certo gusto e (2) la sofferenza causata alla mucca e al vitello dal fatto di essere separati alla nascita perche’ la mucca possa destinare il latte, invece che alla sua progenie, alla produzione del tuo prelibato formaggino.

    Volendo sforzarsi a dare peso ad 1, si potrebbe dire che in passato privarsi del formaggio di orgine animale significava privarsi del formaggio tout court. Non e’ piu’ cosí da quando il numero dei vegan e’ aumentato abbastanza da sostenere un mercato di formaggi alternativi. In UK si trovano anche al supermercato a poco prezzo e di discreta qualita’.
    http://www.sainsburys.co.uk/webapp/wcs/stores/servlet/gb/groceries/dairy/dairy-free-cheese?langId=44&storeId=10151&krypto=t4i0Z4MXMNxXAx8eM81%2BwqSsBd%2Br2aclWwuaRZ0%2BeqPXa66mbW7%2Bslsa7ouKcNLohHqKHEg1WEI9%2Bgh1bSPOHNOvt1D9BWg47g9FY%2BWhMiDAX776HPlN0Cruck0s2M8stiBpXtc1EH%2FTvSa701%2BUGOO4JHuFzzW37DdB6QtFDxw%3D&ddkey=http%3Agb%2Fgroceries%2Fdairy%2Fdairy-free-cheese#langId=44&storeId=10151&catalogId=10123&categoryId=273761&parent_category_rn=267396&top_category=267396&pageSize=36&orderBy=FAVOURITES_FIRST&searchTerm=&beginIndex=0&hideFilters=true

    Se nonostante questo mi vuoi venire a dire che la forza di 1 e’ ancora preponderante su 2, direi che questa posizione ha la stessa forza di uno che (fra 15 anni) sostenesse che, benche’ le macchine elettriche costino uguale e abbiamo le stesse prestazioni con una frazione dell’impatto ambientale, lui preferisce lo stesso coprare una macchina col motore a scoppio perche’ gli piace il rombo.

    O anche la stessa forza di uno che sostenesse che ha diritto a struprare le donne quando vuole perche’ non ricava abbastanza piacere dalla masturbazione.

    1. 1) Quella mucca e quel vitello esistono perché qualcuno vuole dei derivati del latte, altrimenti non sarebbero mai nati. Valuti lei cosa è meglio. Posso capire che a una vita di sofferenza sia preferibile una non vita, e in questo senso credo sia giusto cercare di migliorare le condizioni di vita degli animali da allevamento, ma se sia meglio la loro non esistenza è una tesi che mi pare difficilmente sostenibile.
      2) Quanto all’allontanamento della mucca dal vitellino sono alquanto incerto, al netto di immaginazioni disneyane, di quale impatto possa avere in termini di sofferenza. Segnalo che, per quanto ne sappiamo, nessuna altra specie ha vincoli emozionali e dipendenze relazionali tra cospecifici così stretti come la specie umana. Dunque proiettare ciò che proveremmo in prima persona come umani sul regno animale tende a produrre un’esagerazione degli effetti immaginati. Noto peraltro (e mi si perdonerà la punta polemica, non necessariamente rivolta a lei) come gran parte di coloro i quali non alzano ciglio davanti alla separazione di madri e neonati umani nella pratica dell’utero in affitto poi si crucciano davanti allo stesso evento nel caso di un bovino.
      3) Resta del tutto in piedi l’argomento che un passaggio da prodotti di derivazione animale a prodotti di origine vegetale non è automaticamente sinonimo di riduzione della sofferenza animale, anche per le ragioni addotte dall’articolo citato in testa al pezzo qui sopra.

    2. Mi sembra riduttivo dire che, nell’esempio del formaggino, la produzione e il consumo abbiano come scopo solamente il soddisfacimento di un desiderio. Alcuni giorni fa, un’associazione pediatrica ha vivamente sconsigliato la dieta vegana e in parte quella vegetariana (fai date, senza l’introduzione di alcuni elementi) per i bambini sotto i cinque anni d’età. Motivo: le carenze alimentari derivate da questi comportamenti porterebbero a scompensi neurologici e fisici ai più piccoli. Non sono un pediatra e nemmeno un alimentarista, ma mi fido del parere degli esperti. Stando così le cose, mi sembra quantomeno paradossale voler eliminare le sofferenze degli animali per poi infliggerle ai nostri figli.

      1. 1) Su queste stesse basi si potrebbe giustificare opporsi all’aborto, perche’ l’interesse della persona ad essere nata e’ superiore alla non-disponibilita’ della mamma a farla nascere, ed e’ meglio che vivere da orfano che non essere nato. Su queste stesse basi si potrebbe inoltre giustificare non interrompere il lavoro di un laboratorio che produce umani da destinare allo schiavismo, perche’ di sicuro una vita da schiavo e’ meglio di non essere mai nato.

        2) E’ una risposta interessante perche’ ammetti che se fosse provabile che la separazione tra madre e progenie e’ cause di sofferenza, questo avrebbe conseguenze per la moralita’ dell’atto di separarli [necessario perche’ tu possa gustarti l’ambito formaggino].

        Tale sofferenza da separazione e’ stata osservata in diverse specie:

        “These trials proved that nourishment is more than just feeding, and the bond between a mother and child is not solely because of feeding but because of the time spent with the child. The monkeys used in these experiments eventually became mothers themselves and were observed to see the effect their ‘childhood’ had on them. All of the mothers tended to be either indifferent towards their babies, or abusive. The indifferent mothers did not nurse, comfort, or protect their babies however they did not harm them either. The abusive mothers would violently bite, or otherwise injure their infants. Many of the babies from the abusive mothers died in this process. This proved that how you were mothered has a major impact on how you will be as a mother.”
        https://sites.psu.edu/dps16/2016/03/03/harlows-monkeys/

        Il criterio della equa considerazione degli interessi di tutti, animali compresi, che Singer sviluppa si basa proprio sulla sofferenza non necessaria inflitta agli animali. Ed e’ proprio sulla base di questo argomento che rigetta lo specismo.

        “H. F. Harlow of the Primate Research Center, Madison, Wisconsin, reared monkeys under conditions of maternal deprivation and total isolation. He found that in this way he could reduce the monkeys to a state in which, when placed among normal monkeys, they sat huddled in a corner in a condition of persistent depression and fear. Harlow also produced monkey mothers so neurotic that they smashed their infant’s face into the floor and rubbed it back and forth.”

        Sulla comparabilita’ del dolore animale e umano, vale la pena citare un altro pezzo del libro:

        “To back up our inference from animal behaviour, we can point to the fact that the nervous systems of all vertebrates, and especially of birds and mammals, are fundamentally similar. Those parts of the human nervous system that are concerned with feeling pain are relatively old, in evolutionary terms. Unlike the cerebral cortex, which developed fully only after our ancestors diverged from other mammals, the basic nervous system evolved in more distant ancestors common to ourselves and the other ‘higher’ animals. This anatomical parallel makes it likely that the capacity of animals to feel is similar to our own. ”
        http://www.stafforini.com/txt/Singer%20-%20Practical%20ethics.pdf

        Altro esempio e’ quello della separazione tra Orca madre e progenie allevate in cattivita’ per gli spettacoli di intrattenimento:
        “orcas or for several other social mammals, such as other toothed cetaceans, elephants and many species of primates, all of which have been observed to exhibit behavior that is suggestive of grief at the loss of an offspring or parent (Bekoff 2000). In addition, in dolphins (including orcas), the death of socially important individuals in a group can result in long-term destabilization of other social bonds (Lusseau and Newman 2004; Williams and Lusseau 2006).”
        http://www.seaworldfactcheck.com/calfseparation.htm
        https://seaworldcares.com/separation/

        Sulla separazione di Mucca e vitello alla nascita e’ facile trovare materiale online, un esempio:
        https://www.sciencedaily.com/releases/2015/04/150428081801.htm

        3) Usando la quantita’ di terra da destinare alla coltivazione come proxy per la quantita’ di ambiente naturale che e’ necessario distruggere per sostenere la stessa popolazione, le analisi quantitative (vedi lo studio quotato sotto e citato dall’articolo di risposta) sembrano supportare l’idea che la dieta vegana ha meno impatto. A patto che la sostituzione non avvenga tutta con avocado e altra roba hipster, che ovviamente non e’ consumata da soli vegani e di sicuro non e’ necessaria per sostituire i nutrienti mancanti. Per rispondere a Hubert: B12, Omega 3 e calcio sono considerati gli alimenti potenzialmente mancanti e possono essere tutti sostituiti (in modo sostenibile), quindi immagino le remore dei nutrizionisti riguardino la disciplina dei genitori.

        “Our analysis indicates that the effect of a reduction in livestock product consumption on arable land use (which is a critical component of the link with deforestation) will depend on how consumers compensate for lower intakes of meat, eggs and dairy products. A switch from beef and milk to highly refined livestock product analogues such as tofu and Quorn could actually increase the quantity of arable land needed to supply the UK. In contrast, a broad-based switch to plant based products through simply increasing the intake of cereals and vegetables is more sustainable. We estimate that a 50% reduction in livestock production consumption would release about 1.6 Mha of arable land (based on the yield of crops supplying the UK) used for livestock feed production. This would be offset by an increase of about 1.0 Mha in arable land needed for direct crop consumption (based on UK yields). In addition to the release of arable land, between 5 and 10 Mha of permanent grassland would be available for extensification, other uses, or re-wilding.

        Some substitute crops required are currently only grown overseas (e.g. soy, chickpea, lentils). The land required for all these crops to replace beef and lamb is about 1,352 kha, compared with about 135 kha to supply concentrates for ruminant meat now. So, the substitution of beef and sheep meat with Quorn, tofu and pulses clearly demands more overseas land. Part of this is because two major crops selected for substitution are low yielding (lentils and chickpeas at <=1 t/ha). Were higher yielding pulses used, this demand would clearly be reduced."

        1. 1) L’argomento sull’aborto è un totale non sequitur: non sono infatti io a sostenere scelte sulla base di una presunta scala utilitaristica dei piaceri e dei dolori. Il mio argomento mira a mostrare al contrario che si tratta di un argomento dai piedi d’argilla perché ognuno può fare le valutazioni che crede nella computazione benthamiana di piaceri e dolori in una mucca.

          2) Che i mammiferi manifestino comportamenti di attaccamento è ben noto, a partire dagli esperimenti sulle scimmie di Harlow. Ma non è questo il punto. Il punto è la ponderazione di queste condizioni di disagio. Quello che dico io è che non ci sono ragioni per credere che la rottura dell’attaccamento abbia effetti profondi quanto li ha negli umani, giacché a) per gli umani le relazioni intersoggettive hanno importanza incomparabilmente superiore (argomento dimostrabile su base sia evoluzionistica che ontogenetica); b) solo gli umani hanno la capacità di conservare nella memoria a lungo termine un’emozione differita, rievocandola riflessivamente. Questo non significa che non ci siano ragioni per credere che il distacco non possa creare disagio in qualunque mammifero, ma abbiamo ragioni per credere che sarà un disagio inferiore a quello che legalmente consentiamo nella pratica dell’utero in affitto tra gli umani (che comunque io respingo).

          3) Che produrre carne sia più ambientalmente oneroso che produrre vegetali in genere è certo. Che da questo si debba evincere un dovere ad astenersi dal consumo di derivati del regno animale non ne consegue affatto. Tuttalpiù ci può essere un consiglio a ridurre comparativamente la dieta carnea a favore di quella vegetale (cosa su cui concordo).

  4. L’unica argomentazione che potrebbe far decidere a favore del veganesimo, in qualità di “corretta way of life”, sarebbe la scoperta che mangiare carne animale e i suoi derivati anche in pochissima quantità, durante la vita, causa problemi di salute. Curiosamente dunque l’unico motivo per il quale saremmo disposti a compiere un gesto di “altruismo” nei confronti degli animali, sarebbe l’egoismo insito nella argomentazione stessa. Saremmo altruisti solo perché egoisti.

  5. Salve. Spero che qualcuno avrà la pazienza di leggere e mantenere attivo il confronto e scambio di idee. Sarò un po’ disorganizzata (excusatio di partenza), nella replica tocco solo i punti che ho tenuto a memoria, perchè sono una pigra poco analitica.
    Credo, in primo luogo, che la definizione di Veganismo riportata in 1), per quanto ufficiale, abbia alcuni problemi poichè presenta come conclusione, quasi fosse un punto teorico fondamentale, quello della dieta. Suggerisco che un obiettivo meno facile da abbattere è l’antispecismo (trattato più avanti). Gli “habita” in cui si manifesta l’intuizione (corrente? Filosofia? Espressione di buonsenso?) antispecista sono alimentari e non, ma in ogni caso si tratta di CONSEGUENZE della presa di coscienza del “fatto darwiniano”: non esiste una scala naturae con dei gradoni qualitativi, l’uomo non può vantare nessun primato evolutivo (anche se ha chiamato “primati” le diramazioni del proprio rametto adattativo da un certo punto in avanti…), non sta in cima a nessuna piramide del vivente, non è stato creato nel VI giorno quando tutti gli altri erano già stati confusamente spadellati a casaccio nei mari e nei cieli, non è incarnazione dell’assoluto che si autocomprende nè telos ultimo dopo una sequela di scimmioni che tentano goffamente di erigersi etc etc. Qui salto al punto γ: non si sta scadendo nell’ “ought from is” ma, piuttosto, si sta cercando di sviluppare un sistema di pensiero coerente nel quale le migliori conoscenze scientifiche sulla piazza vengono fatte interagire con le proprie intuizioni morali o le implicite linee guida della propria azione quotidiana. Dal fatto “siamo animali” non sarebbe, peraltro, direttamente inferibile il “rispetta gli altri animali” (basti pensare a quel gran difensore dell’eccellenza dell’uomo -logon èchon- che era Huxley, il mastino di Darwin). Non più del “màgnate chi ti pare, oh animale umano”. Dal fatto che abbiamo certi denti e un certo apparato digerente non si deduce direttamente il dovere morale di mangiare verdure così come dalle osservazioni di molti casi di primati che ammazzano i cuccioli non si deduce la legittimità di queste pratiche. E’ in atto una evoluzione più o meno lenta, più o meno punteggiata nei ritmi a livello ecologico, biologico e per quello specifico tipo di (auto)indagine etologica che è la riflessione morale umana.
    2)”Le scelte che non danneggiano terzi sono fino a prova contraria sempre legittime”. Si, peccato che il consumo di prodotti animali danneggi “terzi”: gli animali non umani in questione. O non vogliamo considerarli terzi? Quali sono allora le buone ragioni per escluderli? E qui adotto ‘paro paro’ la politica teofrastea riportata da Plutarco: l’onere è a carico dell’”escludente”. Il vegano può farsi carico dell’onere nel caso dell’esclusione delle piante (organismi autotrofi non dotati di agglomerato neuronale bla bla bla, i.e.: non soffrono=non hanno interessi. Spero che almeno sul fatto che vi sia una differenza tra una carota e un coccodrillo non si voglia stare a discutere. Curiosamente i carnivori, al momento del dibattito esprimono tutta la loro solidarietà ai pomodori e mostrano un’ empatia coi tuberi talmente viscerale che, se non fosse così straziantemente sentita, si potrebbe pensare che derivi da una necessità argomentativa…). Forse che si vuol far coincidere agenti e pazienti morali? Ma la mossa di considerare gli interessi solo degli agenti morali (reali o “potenziali” termine ben problematico!) si è dimostrata discutibile già parecchie volte. Tutte le volte che “i negri, pseudoumani animaleschi”, le donne “uomini mancati con una forte emotività ed istintività”, i bambini e i disabili (“i nani” dice Aristotele a riprova della loro condizione di minorità), “quei ratti degli ebrei” sono finiti nella sfortunata categoria-accozzaglia “animale”, legittimamente sfruttabile (argomento vecchio come il cucco ma tutt’altro che inattuale).
    Il peso in termini di vite annualmente PRODOTTE E SOTTRATTE con pratiche brutali (le soluzioni “humane” che millantano un “menopeggio paradisiaco” sono equiparabili a quelle di un assassino che ti porta i cioccolatini e ti fa le coccole prima di sgozzarti) fanno del problema messo in luce dal pensiero antispecista un problema sociale, morale, culturale, politico etc. Che le soluzioni adottate siano ancora insoddisfacenti, incomplete, claudicanti dal punto di vista della difesa teorica si deve ad una serie di fattori tra cui mettiamoci pure la scarsa verve di quegli sfigati degli antispecisti. Ma anche, probabilmente
    -la portata rivoluzionaria del messaggio: non c’è nulla di più balordo della affermazione vox populi vox dei, diceva Darwin (parafraso) a difesa della propria teoria scientifica. La stessa cosa, suggerisco, può valere per la riflessione etica. Si derideva Darwin e se ne facevano caricature non diversamente da come si ridicolizza l’antispecismo oggi…
    – è in atto un meccanismo psicologico di autodifesa, collettivo, che oscilla tra la ridicolizzazione, la rimozione, la negazione e la dichiarazione di inefficacia teorica o mancata coesione del “movimento vegano”, “ideologia vegana” o chiamatela come vi pare (sul titolo si può soprassedere). Sospetto che si tratti di misure di autoinganno per proseguire in orribili pratiche millenarie (nella loro versione massificata). Il “senso comune” ben radicato si spende in tutti gli ambiti e in tutti i dibattiti (la ricerca, la sperimentazione, la pubblicità, le università…) suda, sbuffa e mette rattoppi qua e la, per evitare di ammettere il nostro ruolo attivo, in qualità di individui compratori, in una mattanza quotidiana di proporzioni cosmiche. Aggiungiamoci pure la beffa di impiegare le sbucciatrici di anacardi per dire quanto sono stronzi e radicalchick i vegani, non perchè ce ne fotta qualcosa delle sbucciatrici per se. Questo meccanismo socio-psicologico è estremamente logico se per logica intendiamo “logica di mercato” e giova assai al sistema economico vigente (non a caso si dice “avere le fette di salame sugli occhi”).
    Lasciando d’un canto quest’abbozzo di (sano, a mio avviso) complottismo, penso che dovremmo riformulare il dibattito etico per reindirizzare le nostre azioni e tenere alla mente quante più questioni possibili. L’obiettivo dell’antispecismo è quello dell’inclusione dei senzienti come moralmente rilevanti (come moral patients). La coerenza assoluta può e deve servire come ideale regolativo ma non si può invalidare lo sforzo etico di un individuo con la sola obiezione di incoerenza in un minuscolo frangente della sua esistenza. Si può far presente all’individuo in questione che c’è ANCHE una variabile x che non ha tenuto in conto. “Guarda che i 20 anacardi che ti sei scofanato nel corso del 2016 sono stati prodotti sfruttando etc etc”. L’inchiesta dovrebbe essere un tema portato all’attenzione della società con l’intento sincero di boicottare la produzione degli anacardi di certi stati del mondo, non sbattuta in faccia al vegano per “mettergliela a quel posto”. Dopo aver fregato l’antispecista con la mossa degli anacardi, con un gigantesco sorrisone, possiamo continuare a possedere e mangiare cadaveri di animali che sono stati ingabbiati e uccisi senza aver potuto neanche vagamente provare a mettere in atto le proprie abilità specie-specifiche o a soddisfare il più banale e fondamentale desiderio di stare accanto alla propria madre, a stabilire una gerarchia formando un gruppo sociale, a rotolarsi nel fango o a vivere 12 ore di luce e 12 di buio (piu o meno). Questo sembrerebbe l’obiettivo ultimo…

    Per quel che riguarda le tre critiche:
    La premessa stessa è accusabile di antropocentrismo: ancora una volta si cercano le “buone ragioni intersoggettive” come se si dovesse dimostrare di essere sufficientemente “eulogon” per poter essere rispettati. Non è sufficiente l’evidenza del poter provare piacere e dolore? Non è di buon senso e ragionevole e condivisibile intersoggettivamente (ancora una volta perchè, di default, i soggetti interessanti non devono conicidere con gli interessati ma sarebbero unicamente i detentori del potere allo stato attuale?!) rispettare chi ha la costituzione biologica per poter star bene e male? A essere sinceri e mettendo da parte gli interessi personali (stasera mi faccio un bel ragù che mi piace tanto e me ne posso (cito) ”legittimamente disinteressare”) e la sottigliezza delle argomentazioni filosofiche che, Carneade docet, valgono a difendere tutto e il contrario di tutto, cosa c’è di più sensato del “first do no harm” ? A me sembra quasi tautologico: rispetta gli interessi di chi ha interessi, non provocare dolore a chi può provare dolore. No?
    Chi ha stabilito che tra le “qualità specifiche rilevanti” non ci debba essere la banale, animalesca, bruta, grezza (disprezzabile? senz’altro disprezzata!) capacità di soffrire?
    Con rispetto ad α, credo si tratti di una giocata scaltra che fa leva sulle paure del lettore “oh no! Allora non posso piu difendere mio figlio dalle zanzare”. Intanto, credo, la tecnologia che abbiamo consente ad oggi di evitare un buon numero di casi controversi attraverso misure preventive (mi vengono in mente autan e zampironi). In seconda istanza io, come individuo, quando devo scegliere tra salvare mio figlio e salvare il porcellino d’india che vive in giardino, opero una scelta secondo quelli che sono i miei vincoli di individuo con i soggetti a rischio e valutando il livello di danno potenziale per ciascuno. In ogni caso, ancora una volta, sono ben pochi i casi effettivi di aut aut che si danno. L’etica, stiamo pure tranquilli, può essere per lo più inclusiva. Forse è ora di mettere da parte questa impostazione competitiva del “chi arriva primo, chi viene prima, chi è più intelligente, chi salviamo per primo…”. Posso rispettare la procavia E il figliuolo E la signora che sbuccia anacardi, non ha molto senso stare a fantasticare su casi empirici in cui si dovrà scegliere (mossa che suggerisce di avvallare lo status quo in base all’ipotesi per cui forse, un giorno, non si sa in che occasione, dovrò lanciare il cameriere con tutto il menu vegano nella fogna perchè faccia da salvagente al ratto che è scivolato nella corrente mentre sto per ordinare un panino all’avocado che viene dalla micronesia dove mio figlio ha preso la malaria perchè non me la sentivo di uccidere la zanzara tigre…?!?)
    Per quel che riguarda le famose galline della nonna e la vacca di Heidi si possono fare mille interessanti esercizi teorici destinati a restare tali. Questa forma di sfruttamento moderato è semplicemente impensabile de facto date le quantità che richiede il mercato (il solo dato 7 miliardi di umani è sufficiente a fare scomparire l’ipotesi heidi-nonna-galline felici e a catapultarci nuovamente nella filiera amadori in cui i polli stanno letteralmente uno sopra l’altro, vivi e morti).
    Saludos
    francesca

    1. Cara Francesca, ho approvato il suo commento perché non si pensi che io voglia censurare nulla, ma confesso che, con tutta la pazienza del mondo, fatico a trovare un argomento discernibile in questo fiume di retorica. Se riesce ad estrarne uno o più argomenti ordinati, senza che io debba indovinare cosa, forse, avrà voluto dire, le risponderò volentieri. Per ora lascio a chiunque lo desideri di valutare da sé la lucidità delle ragioni addotte.

  6. Molto interessante, relativamente al tema, trovo sia un estratto dalla conversazione di J.Derrida con J.L. Nancy, apparso in Cahiers Confrontation, 20, hiver 1989
    Il titolo è “IL FAUT BIEN MANGER OU LE CALCUL DU SUJET”. Credo vada a monte del problema assumendo come sfondo la vita nelle sue molteplici forme, anche quella vegetale. Da questo punto di vista, al quale si giuunge con la decostruzione, appare chiaro che il problema reale non è cosa mangiare per sentiri moralmente a posto ma l’atto stesso del mangiare. Bisogna pur mangiare, secondo l’intraducibile espressione di Derrida il faut bien manger, che significa tanto bisogna pur mangiare quanto bisogna ben mangiare. Il doppio senso contenuto nell’espressione rinvia al motivo etico fondamentale della decostruzione: l’ospitalità dell’altro.
    La questione del mangiare non può non implicare, infatti, il rapporto con l’altro, perché non si mangia mai da soli, né esiste un solo modo di mangiare. Bisognerà ben mangiare. Una massima che Derrida definisce indecidibile a priori e che si indirizza inevitabilmente all’altro ancora a venire. Il mangiare rivela l’eterogenesi dell’identità, che non può fare a meno di assumere l’altro, contrarlo, turbata ogni volta dalla modalità indecidibile con cui l’altro chiede di essere mangiato, come pure, a sua volta, di mangiare.
    Trovo questo punto di vista ricco di spunti per discutere con i vegani o chiunque assolutizzi un regime alimentare come il più etico possibile.

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