Natura e storia (Transcripts FB)

1) ‘ELITARISMO’, ‘EGALITARISMO’, ‘POPULISMO’.

Uno degli errori fondamentali della contemporaneità consiste nel confondere l’eguaglianza di dignità umana tra gli uomini, con l’eguaglianza nel valore degli atti e delle opinioni degli uomini.

Il riconoscimento dell’eguaglianza della dignità umana è stata un’importante conquista storica, cui hanno contribuito forze molto diverse, dal cristianesimo, all’illuminismo, al liberalismo, al comunismo. E’ una visione del mondo importante che ci consente di ‘dare una chance’ a chiunque di presentarsi come nostro amico, collaboratore, amante, compagno, ecc., non precludendo a priori l’accesso ad una sfera di mutuo riconoscimento. Si differenzia dalle numerose tradizioni storiche in cui invece differenze di sangue, classe, ceto, razza, casta, ecc. fungevano da sbarramento preliminare ad ogni possibile incontro.
Questa conquista rappresenta un prezioso progresso civile e morale, di cui dobbiamo avere cura.

Detto questo, questo progresso sgombra il terreno alla possibilità del mutuo riconoscimento, ma non fa in alcun modo spazio per la sua necessità: non può esistere l’obbligo del riconoscimento.

Sul piano morale, intellettuale, estetico, fisico, culturale, tecnico, ecc. gli individui preservano le proprie caratteristiche e le proprie maggiori o minori differenze. In questo contesto io posso riconoscere che un certo professionista di basket è molto più alto, abile, atletico di me, e ammirarlo e applaudirlo per questo. Oppure posso riconoscere che un valido ingegnere ha una capacità di costruire e valutare il funzionamento di una struttura che io non ho neppure lontanamente, e per questo lo posso ammirare e affidarmi ai suoi servigi. E così può accadere per un abile medico, per un meccanico in gamba, ecc. ecc., tutte persone che su vari argomenti ne sanno a pacchi più di me, e che per questo spesso ammiro e ascolto.

Riconoscere le capacità altrui, ed eventualmente cercare di farne tesoro è un tratto umano fecondo, latore di miglioramento antropologico. Naturalmente esiste sempre la possibilità di cedere a qualche forma di invidia o risentimento (cfr. Nietzsche, Scheler, ecc.), ma è parte di una buona educazione morale rimuovere queste eventuali pulsioni, dalle conseguenze distruttive.

I problemi sorgono quando comincio a pensare che, siccome stiamo tutti formalmente su di un piano di pari dignità, questo comporterebbe in qualche modo che la mia opinione o la mia azione, su qualunque oggetto o in qualunque contesto, valga quanto quella di chiunque altro (a meno che io, benevolmente, non conceda diversamente). E, peggio ancora, quando mi viene fatto notare che così non è, che io mi inalberi stigmatizzando questo giudizio come ‘elitarismo’.

Queste differenze di competenze e capacità, beninteso, non sussistono solo in campi ‘tecnici’, ‘specialistici’, come se esistesse un confine invisibile tra capacità e competenze ‘speciali’, e capacità e competenze di valore generale. Niente affatto. Ciò vale assolutamente per ogni giudizio che possa ambire all’obiettività.
In verità l’unica cosa su cui tuo giudizio di singolo individuo è, per definizione, autorità assoluta insindacabile è il giudizio sul tuo stato interiore di benessere o malessere, piacere o dolore, agio o disagio.
Su tutto il resto qualcuno può saperne, e stai certo che qualcuno ne sa, più di te.

Ecco, ‘populismo’, in un senso proprio e non giornalistico, è l’aggregarsi in corpi sociali di significato politico di tutti coloro i quali compiono sistematicamente quel tipo di fraintendimento: ritengono che, siccome ciascuno di essi ha pari dignità, allora il loro giudizio, quale che sia la loro preparazione o esperienza, di per sé vale quanto quello di qualunque altro.

E, per inciso, questo populismo non si affronta blandendolo, ritirandosi nella ipocrisia, chiudendo un occhio di fronte alle cazzate, tutto ‘per non passare per elitari’. Proprio no.

 

2) IL NUOVO CHE AVANZA

Esiste un tipo di atteggiamento, politico e culturale, connesso alla cultura liberale dei ‘diritti’, che trovo sempre straordinariamente inquietante.
È quel tipo di atteggiamento che di fronte a tendenze storiche e/o possibilità tecnologiche che si mostrano all’orizzonte, predica la serena accettazione di quelle che giudica essere di volta in volta ‘inevitabili conseguenze’.
È l’atteggiamento che si ritrova in chi dice cose come (sono esempi reali):

“L’immigrazione è un fenomeno storico fatale, inarrestabile. Per quanto si cerchi di regolarla troverà sempre una strada e finirà per imporsi; non resta che prenderne atto e accettare ciò che porterà con sé, come avvenne già nella storia, con le invasioni barbariche.”

Oppure:

“L’utero in affitto, essendo nell’interesse sia di chi può pagare che di chi ha bisogno del denaro, sarà una pratica che andrà fatalmente affermandosi in futuro. Opporsi con leggi è una battaglia di retroguardia, destinata alla sconfitta.”

[Lo stesso argomento può essere svolto sostituendo ‘utero in affitto’ con ‘compravendita di organi’].

O ancora:

“In futuro raggiungeremo la tecnologia per la gestazione esterna dalla madre (utero artificiale) e a quel punto nessuna donna che se lo possa permettere vorrà più passare nove mesi gravida, e chiunque potrà avere figli suoi semplicemente pagando l’affitto di un meccanismo esterno. Opporsi normativamente è una battaglia di retroguardia, destinata alla sconfitta.”.

E potrei continuare.

Trovo questo atteggiamento sbagliato, pericoloso e anche personalmente irritante.

Sbagliato, perché prende per liberalità progressista una sorta di acquiescenza blasé, molto da privilegiati, che sembra guardare al mondo da Marte e che vede ovunque destini storici fatali. Io non ho una sfera di cristallo che mi consenta di discernere sin d’ora ciò che può essere modificato dai miei atti e ciò che non lo è, ma, nel dubbio, se un risultato non mi piace, continuerò fino all’ultimo ad oppormici come posso.

Pericoloso, perché questo tipo di argomenti dà, per reazione, straordinaria autorevolezza morale alle forme più ottuse di conservatorismo: chi a cuor leggero articola quegli argomenti sta involontariamente preparando il terreno per la reazione violenta del fascismo 2.0 prossimo venturo.

Irritante, perché mi costringe a trovarmi sullo stesso fronte insieme ai conservatori. Davanti a chi prende ogni possibilità nutrita da interessi attivi per un destino da accogliere con liberale ottimismo, mi ritrovo mio malgrado a rivalutare la diffidenza conservatrice verso ogni spensierata accettazione del ‘nuovo’.

Non sopporto i conservatori dogmatici a prescindere, ma temo di sopportare persino di meno i progressisti a prescindere, desiderosi di correre incontro al ‘nuovo’ purchessia.

Dopo tutto i conservatori hanno dalla loro almeno una realtà testata, magari pessima, ma discernibile; i progressisti a manovella hanno solo le loro fantasie in saldo.

 

3) L’ATTACCO POSTMODERNISTA ALLA NORMALITÀ
(ovvero il costruttivismo sociale e i suoi danni politici)

Nel corso del ‘900 una tra le istanze filosofiche che ha avuto maggior impatto sociale, in particolare in settori della psichiatria (1) e del femminismo militante (2), è stata l’idea che ogni identità e ogni giudizio di normalità siano costrutti integralmente storico-culturali, ed in definitiva contingenti (costruttivismo sociale). Il pensatore di maggior spessore che ha contribuito a questa direzione di pensiero è stato Michel Foucault, ma l’idea si è poi sviluppata autonomamente.

Qual è il nocciolo politico (e dunque semplificato rispetto alla complessità di Foucault) di questa linea di pensiero?

In sostanza si tratta dell’idea per cui ciascuna identità (ad esempio l’identità personale o l’identità sessuale) e ciascuna istanza di normalità (cioè un’identità ritenuta normale e normante) siano in definitiva costrutti sociali, qualcosa di integralmente dipendente da variazioni culturali e contingenze storiche. In questo senso il costruttivismo sociale è una variante del relativismo culturale.

(1) In ambito psichiatrico questa prospettiva ha influenzato movimenti come quello della cosiddetta ‘antipsichiatria’. L’esito è stato la contestazione della possibilità e legittimità stessa di distinguere tra salute e malattia mentale. A questa conclusione estrema si giunse sulla base di diverse riflessioni, alcune peraltro preziose e cariche di potenziale emancipativo.

Si osservò, ad esempio, come l’accusa di malattia mentale fosse stata spesso adoperata strumentalmente per eliminare dal contesto sociale persone la cui situazione era considerata moralmente imbarazzante (ad es. ragazze con una precoce attività sessuale) o anche politicamente scomoda (oppositori in regimi dittatoriali).

Si constatò, inoltre, come diverse forme di disturbo psichiatrico non traessero giovamento dalla medicalizzazione della malattia e della reclusione in istituti (queste riflessioni furono al centro della proposta di Basaglia), mentre, al contrario la migliore terapia consisteva nella creazione di un contesto sociale ordinario e normalizzante.

Queste osservazioni erano ben fondate e ricche di potenziale emancipativo. Ma quando ad esse si aggiunse la cornice teorica del costruttivismo sociale, l’esito fu la contestazione alla radice della distinzione stessa tra salute e malattia mentale.
Poiché in natura non esistono mai categorie con confini netti, ciò vale anche nel caso della malattia mentale, che presenta sempre un continuum sintomatico tra salute e malattia. Ora, però, tale continuum venne considerato la prova dell’impossibilità (e soprattutto dell’illegittimità) di discernere tra i due casi. Ma, come osservava Wittgenstein, l’assenza di un confine netto tra categorie non significa affatto che ogni appartenenza ad una o all’altra categoria sia dubbia.
Gli esiti spesso drammatici, per malati e famiglie, di questa liquidazione del problema della malattia mentale sono abbastanza noti e oramai universalmente riconosciuti come esiziali (diversamente dalla contestazione della tradizionale istituzione manicomiale, che conserva una sua validità).

(2) Simili forme di ragionamento vennero adottate da numerose componenti del second-wave feminism nei confronti del tema dell’identità di genere, che venne considerato un costrutto storico-culturale più o meno arbitrario; ciò imponeva di astenersi rigorosamente da ogni appello a idee come quella di ‘normalità’, considerata alla stregua di un’imposizione autoritaria.

Mentre nel caso della psichiatria quel movimento ha dato alcuni frutti e poi è sostanzialmente morto, sul piano delle questioni di genere questa tesi è tutt’altro che tramontata ed è ancora ampiamente influente.

Anche la prospettiva femminista aveva in sé un autentico potenziale emancipativo, utile alla creazione di una società più inclusiva, nella misura in cui aveva richiesto che le donne potessero “godere degli stessi diritti concessi all’uomo – all’istruzione, all’esercizio delle professioni, alla partecipazione amministrativa e politica” (Harriet Taylor).

Ora, è vero che il processo che passa dal riconoscimento di una normalità, alla creazione di stereotipi (sul piano cognitivo) e infine di modelli (sul piano normativo) basati su quella normalità è un processo sociale consueto, di fatto inderogabile, cui però frequentemente può aggiungersi un utilizzo aggressivo e stigmatizzante di quei modelli e stereotipi.

Un conto infatti è dire che normalmente le persone si comportano così e così (descrizione), un’altra cosa è dire che le persone devono conformarsi a questi comportamenti e che chi non vi si conforma dev’essere sanzionato socialmente (prescrizione).
In una società che si voglia inclusiva e accogliente è importante che quest’ultimo fattore, prescrittivo-aggressivo venga minimizzato, e soprattutto che ogni tendenza punitiva o sanzionatoria dell’anomalia in quanto tale venga eliminata.

In altri termini, con un esempio centrale, il fatto che la distinzione uomo – donna sia normale, e che dunque tendano anche a crearsi stereotipi (cognitivi) e modelli (assiologici) di maschilità e femminilità, non deve trasformarsi nella stigmatizzazione o discriminazione di chi non si conforma a tali stereotipi o modelli.

Notiamo di passaggio che, nonostante la nozione di ‘stereotipo’ goda di pessima stampa, la crescita cognitiva necessita della costruzione di stereotipi (se con ciò si intende una rappresentazione unitaria delle caratteristiche medie di una categoria viste come esemplari). Ciò che va contestato è l’irrigidimento dogmatico e la povertà (l’impermeabilità all’aggiornamento) dello stereotipo.

D fronte all’indubbio problema della stigmatizzazione delle anomalie, il femminismo influenzato dal costruttivismo sociale è caduto in una sorta di “eccesso colposo di legittima difesa”. Traendo ispirazione dall’idea della contingenza culturale delle identità si è ritenuto di dover senz’altro colpire l’idea di identità sessuale e di normalità. Questo attacco è stato così efficace, che oggi in qualunque contesto colto ci si sente quasi in imbarazzo a parlare di ‘normalità’, e si preferisce appunto collocare il termine tra virgolette, quasi per scusarsi del cattivo gusto di parlarne.

Il modello di argomentazione usato per minare il concetto di normalità è il medesimo già visto sopra: poiché in natura non esistono mai confini esatti per nessuna categoria, è sempre possibile applicare una forma di paradosso del Sorite, chiedendo all’interlocutore se aggiungendo o togliendo una singola caratteristica si passi di colpo dalla normalità all’anomalia. E naturalmente ciò non è mai possibile. Da ciò si trae la conclusione completamente erronea che in verità non di due categorie distinte si tratterebbe, ma di una sola indistinta (o di una vaga e fluttuante moltitudine, che è lo stesso).

L’esito paradossale di questa tendenza culturale è stata quella di creare una sorta di insofferenza (almeno nelle classi più istruite) verso concetti così triviali come normale-anormale, o maschio-femmina. L’idea stessa di educare un figlio o una figlia, come si è fatto da che esiste l’homo sapiens, avendo in mente un modello (sia pure approssimativo ed elastico) di virilità e femminilità è stata messa sotto accusa, come un atto di intrusione, di coazione, una forzatura.
Nell’universo panculturalista dei costruttivisti cose come le funzioni e le disposizioni a base biologica e fisiologica vengono trattate come fattori trascurabili, quando non addirittura come ostacoli ideologici da denunciare. La non necessaria coincidenza tra sesso e genere, che è un fatto, viene letta come un disaccoppiamento integrale delle due nozioni, che è invece un mito.

In sostanza, per evitare il rischio di discriminazioni (finalità del tutto condivisibile), si è giunti, con un’operazione scientificamente e filosoficamente priva di senso, a intaccare ordinamenti fondamentali delle comunità umane, ordinamenti che hanno avuto e continuano ad avere un ruolo essenziale sia per l’orientamento pedagogico che per l’autointerpretazione degli individui.

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