L’orizzonte delle scelte nell’epoca del coronavirus

Un recente articolo dell’Economist (“A Grim Calculus” 02/04/2020) ha sollevato una questione cruciale, questione che circola in forma inesplicita in numerose discussioni politiche in epoca di Covid-19. La domanda che muove l’articolo è sostanzialmente la seguente: “Per quanto tempo saremo in grado di considerare la vita di ogni singolo essere umano, di qualunque età e condizione fisica, al di sopra di ogni considerazione economica?” Possiamo permetterci l’atteggiamento morale di “non dare un prezzo ad una vita?” Dopo tutto “ogni scelta ha un costo” e “il costo del distanziamento potrebbe superare i benefici”.

Gli interrogativi esplicitati dall’Economist sono con noi dall’inizio della crisi. Li abbiamo visti incarnati nelle prese di posizione iniziali di diversi paesi (Usa, UK, Olanda, Svezia) e li continuiamo a sentire come minoranza rumorosa nelle discussioni sui social media.

La forma dell’argomento dell’Economist è caratteristica, e merita un’attenta riflessione. Essa contrappone due tesi, che appartengono a due grandi tradizioni della filosofia morale. Da un lato abbiamo la tesi di origine kantiana per cui nel mondo si devono distinguere le cose che hanno un prezzo da quelle che hanno una dignità. Gli esseri umani, in quanto dotati di ragione hanno una dignità, non un prezzo: essi appartengono per Kant ad una dimensione a sé stante, il cui valore non può essere espresso in maniera comparativa. Gli esseri umani sarebbero ‘fini in sé’ e non dovrebbero essere mai considerati mezzi per fini ulteriori. Questo sottrarrebbe la dignità umana ad ogni considerazione in termini di costi-benefici.

La seconda tesi, che segue quella kantiana, è quella utilitarista, che origina in Bentham, si perfeziona in John Stuart Mill e sfocia nell’applicazione economica di Sidgwick. La prospettiva utilitarista può obiettare alla visione kantiana di non consentire scelte ragionevoli, e di indurre una posizione di stallo in molte situazioni in cui i più saprebbero senz’altro qual è la scelta migliore. Possiamo facilmente costruire un caso in cui sentiremmo come giusto sacrificare una vita umana per salvarne altre. La scelta tragica cui si sono trovati probabilmente di fronte alcuni medici tra lasciar morire una persona per poterne salvare un’altra con maggiori chance di farcela (ad esempio perché non ci sono respiratori polmonari per tutti e la seconda è più giovane) sembra essere un caso intuitivamente evidente. Qui l’istanza di incommensurabilità del valore di una vita umana lascia spazio alla necessità oggettiva di effettuare un confronto e dunque di comparare il valore di due vite umane, che perciò non possono essere concepite come valori assoluti. Rimanere fissi sull’idea dell’incomparabilità implica comunque una scelta di fatto, una scelta che avviene per omissione (ci si astiene dal salvare qualcuno con maggiori possibilità di farcela).

Tutti gli utilitaristi classici avevano un eminente interesse per l’economia politica; e con l’assiomatizzazione della teoria economica, nel passaggio dall’economia classica a quella neoclassica, il paradigma utilitarista è divenuto il nerbo filosofico della teoria economica moderna, che concepisce le scelte umane come confronti tra utilità personali e le preferenze umane come ‘curve di utilità’.

È su questo sfondo che arriviamo al problema sollevato dall’Economist, per cui l’idea di poter esentare gli umani da una valutazione costi benefici sarebbe di fatto illusoria. Così troviamo menzionati tra gli esempi la perdita del lavoro a causa della serrata, i bambini che non otterranno a scuola il pasto che la mensa scolastica garantiva, i giovani che vengono gravati di un debito futuro per far fronte agli attuali malati. La visione di fondo che ne emerge è semplice: potrà anche sembrare nobile sentenziare che una vita umana non ha prezzo, ma questa sarebbe in fondo mera retorica, perché niente è fuori dalla comparazione di valore e dunque tutto ha un prezzo.

Questo argomento è prima facie potente e la sua capacità di condizionare le scelte politiche è grandissima. E tuttavia (come ho cercato di mostrare anche in forma monografica) si tratta di un argomento essenzialmente fuorviante.

L’errore tuttavia non è banale, e smontarlo completamente richiederebbe una analisi di dettaglio che qui non possiamo svolgere. Tuttavia il cuore dell’errore può essere espresso in modo sintetico.

Tutto parte dall’opposizione duale introdotta da Kant, con cui vengono create due aree di valore essenzialmente separate: dignità e prezzi, dove la dignità sarebbe incommensurabile e dunque assoluta (ab-soluta, sciolta da relazioni). Una volta accettato come terreno dello scontro questo dualismo è abbastanza facile mostrare come tra gli enti finiti del mondo sia arduo trovare qualcosa di davvero, in ogni condizione, ‘incommensurabile’; e ciò finisce per lasciare il terreno sgombro alla proposta utilitarista.

Qui però c’è un problema di fondo. L’opzione utilitarista, proprio come la sua implementazione economica, afferma qualcosa di più rispetto alla comparabilità tra valori. Essa afferma che tutti i valori sono misurabili secondo un’unità di misura omogenea. Nel caso della teoria utilitarista, questa misura omogenea è rappresentata dal ‘calcolo’ dei piaceri e dei dolori, espressione suggestiva ma dimostrabilmente inconsistente perché piacere e dolore esistono in una dimensione puramente interiore e dunque non sono davvero assoggettabili alla quantificazione di somme e sottrazioni. Nel caso della teoria economica, la misura omogenea invece esiste, ed è rappresentata dalla valutazione monetaria, specificamente dai prezzi di mercato.

In altri termini, la traduzione economica dell’impostazione utilitaristica non si limita a sostenere la comparabilità tra istanziazioni del valore (‘cose/fatti/atti di valore’), ma sostiene che tale comparazione può avvenire sulla scorta di una misurazione in termini monetari.

La tesi della comparabilità e la tesi della misurabilità monetaria sono fondamentalmente divergenti, ma la loro condivisione di uno dei poli del dualismo teorico kantiano finisce per nasconderne l’essenziale differenza.

Un conto, infatti, è dire che si può essere costretti a scegliere il male minore anche in circostanze che implicano il sacrificio di vite umane. Questo è accaduto e continua ad accadere, e pensare di opporvisi proclamando il valore assoluto di ogni singola vita umana non fa fare molta strada. Possiamo cercare di costruire una società che non abbia bisogno di abbandonare i vecchi per nutrire i giovani, o che non abbia necessità di ricorrere alla pena di morte, o che eviti le guerre e le sue scelte tragiche, ecc. Ma non si può mai escludere che simili scelte ci si impongano, e aderire ad un paradigma che vieta assolutamente ogni comparazione di valore tra vite umane finirebbe per risultare paralizzante ed irrealistico.

Ma tutt’altra questione è asserire che la comparazione tra valori, incluso il valore di una o più vite umane, possa legittimamente avvenire in forma di misurazione monetaria, di calcolo costi-benefici, di valori di mercato. Questa seconda tesi formula di soppiatto un passaggio tanto potente quanto inaccettabile. Si assume che, per produrre comparazioni di valore, il sistema di valorizzazione e comparazione prodotto dai meccanismi di mercato sia l’opzione più adeguata e legittima.

Cerchiamo di capire, a partire dal contesto presente, perché parlare di ‘comparabilità’ tra valori e parlare di commisurabilità di mercato sono istanze del tutto diverse. Supponiamo che a una popolazione venga detto che il prezzo da pagare per preservare la salute e la vita dei propri cari è troppo elevato, che dopo tutto la maggior parte delle persone colpite gravemente dal Covid-19 consta di persone anziane ed economicamente improduttive, che sono spesso un costo netto per la società. Questa tesi, in forme edulcorate, è comparsa ripetutamente nelle prime settimane di diffusione del virus, anche se ha preso una veste pubblica solo sulla bocca dei governanti di pochi paesi.

È interessante notare come a farsi espliciti latori di una prospettiva del genere siano stati rappresentanti di paesi con alcune caratteristiche culturali specifiche. I governanti in questione (USA, UK, Olanda, Svezia) sono rappresentanti di paesi dove la prospettiva di un’universale comparabilità costi-benefici di ogni cosa è consolidata nell’opinione pubblica. Sono tutti paesi eminentemente liberali, con legislazioni molto permissive sulla ‘libertà di contratto’ e con una concezione radicalmente desacralizzata della vita. L’Olanda ne è forse il rappresentante più puro: è il paese liberale per antonomasia, nel bene e nel male. È il paese antiproibizionista e tollerante per eccellenza, ed è anche quello con la più lunga tradizione mercantilista e finanziaria, sin dalla fondazione della Borsa di Amsterdam (1602), è un paradiso fiscale nel cuore dell’Europa, il paese dove si vende carne umana in vetrine a luci rosse, ed è il paese che discute apertamente di eutanasia per i soggetti meno produttivi della società (a partire dagli anziani). Non ci si può stupire che guardino con perplessità all’idea di chiudere i coffee shop per salvare il nonno.

E tuttavia, anche in questi paesi tenere fino in fondo il punto è risultato assai imbarazzante, in parte insostenibile. Come mai?

Ci sono sicuramente molti livelli di risposta, ma quello più profondo, ed intuitivo, credo sia il seguente. Fino a quando le scelte di vita e di morte sul piano dei calcoli di mercato avvengono per così dire, ‘fuori scena’, in forma indirette e poco percepibili, la maggior parte delle persone (e degli elettori) non riesce a tenere assieme nella stessa immagine sperequazioni economiche ingiustificabili e danni personali. È inoppugnabile che forme di speculazione finanziaria evitabili (e in passato vietate) hanno prodotto impoverimento, disoccupazione, e a cascata, disagio, malattia, devastazione ambientale, morte. È certo che la globalizzazione economica ha ampliato immensamente le differenze economiche tra ricchi e poveri, come individui e come paesi, devastando le condizioni di vita dei perdenti. Ma questi nessi causali sono indiretti e astratti, e per i più ciò che avviene sui tavoli decisionali di oscuri burocrati e anonimi economisti non compare nella stessa rappresentazione mentale di ciò che tocca direttamente nella carne le persone. Questo distanziamento rappresentativo ostacola il coglimento dei nessi e perciò li lascia sussistere incontestati.

Tuttavia, quando si inizia a discutere direttamente di vita e morte, di malattia e sofferenza, utilizzando apertamente lo strumento della valutazione costi-benefici, dei prezzi di mercato, si finisce per portare alla superficie della coscienza qualcosa di assai pericoloso. Se cominci a spiegare a qualcuno che la vita di suo padre, suo marito, sua sorella andrebbe preferibilmente sacrificata, o messa a repentaglio, perché per il denaro che costerebbe salvarli ci sono impieghi migliori, a questo punto chiunque abbia ancora qualcosa di caro a questo mondo tende ad avere un’ovvia reazione: comincerà a guardarsi in giro, cercando dove siano ora impiegati in maniera cotanto benefica i denari. E a questo punto d’incanto l’esistenza soddisfatta di sé di un parlamentare europeo, un industriale, un broker, un calciatore professionista, un produttore cinematografico, una top model, uno sceicco, un figlio di papà, un palazzinaro, un’ereditiera, ecc. ecc. si rivela d’un tratto con gli inquietanti colori di una minaccia personale: i soldi che sono là potrebbero qui ed ora salvare la vita a te o a un tuo caro.

Il lusso ostentato, il consumo esibito, i differenziali reddituali sbattuti in faccia, la ricchezza occultata al fisco, le sperequazioni patrimoniali più nauseabonde, tutte cose con cui ci hanno abituato a convivere senza scandalo, si rivelano di colpo come taciti atti di aggressione personale. Scricchiola la narrazione per cui il sistema di valutazione del mercato è immensamente saggio, magari imperfetto, ma comunque capace di pesare con equanimità gusti e preferenze, e di attribuirgli un giusto cartellino del prezzo. Finché da questa fiaba non dipendono cose troppo gravi, o finché a subirne serie conseguenze è di volta in volta una preda isolata dal branco, questo mito può continuare ad operare in sottofondo. Ma quando si dice a molte persone simultaneamente minacciate che, prezzi di mercato alla mano, rimuovere la minaccia ‘costa troppo’, la domanda che sale alle labbra è: ‘costa troppo a chi?’ Quando si racconta a chi teme per la vita propria, o dei propri affetti, che la spesa per salvarli è eccessiva o inefficiente, la domanda che non può non fiorire è: “Eccessiva ed inefficiente rispetto a quale impiego alternativo?” E a questo punto l’intero mostruoso sistema di allocazioni arbitrarie, di sfruttamento e ingiustizia che ci sta attorno, viene alla luce.

Quelle domande, che saremmo legittimati a porre sempre, quando vengono poste da questo o quell’individuo separato e inconsapevole dei casi altrui, vengono rimosse dal tavolo nel nome di un vago ‘funzionamento d’insieme del sistema’, la cui presunta ‘ottimalità’ appartiene alle verità rivelate della dogmatica liberale. Il privilegio di non guardare troppo da vicino queste pretese è ora abbattuto dalla minaccia concreta e diretta: se state dicendo che la nostra vita e la nostra salute valgono meno del vostro lusso o della vostra spesa effimera, dovete darvi davvero molto da fare con le spiegazioni.

Il patto sociale che sancisce quel gioco in cui io rispetto la tua proprietà perché essa a te giova e a me (prima facie) non lede, finisce in frantumi. A questo punto, se insisti a giocare il gioco, nella parte che a te conviene e solo in quella, chi sta perdendo a quel gioco è giustificato a chiamare il ‘liberi tutti’, a rovesciare la scacchiera: il patto sociale è infranto, il gioco è finito, se non sono io al sicuro non lo sarai neanche tu.

Gli ideologi liberali che giocano con troppa convinzione la partita della ‘valutazione costi-benefici’ non si rendono conto che insistendovi con tanta serietà ne portano alla luce la fondamentale arbitrarietà, di solito dissimulata. Essi mettono in primo piano quell’idea, per loro portante, ma per i più confusa in una misericordiosa ignoranza, secondo cui le computazioni basate sui prezzi di mercato sarebbero giuste, proprio nel senso che rispecchierebbero la realtà dei valori giudicati. Di fatto l’intera visione del mondo di costoro è modellata da questi standard di giudizio. Essi immaginano che, non fosse per l’inopinata isteria collettiva che ha colto tutti quanti, si sarebbe continuato ad andare al cinema e a prendere l’aperitivo, certo, tossendosi addosso un po’ e trascinandosi con l’occhio infossato, e brindando a chi era venuto a mancare, e certo ogni giorno qualcuno sarebbe sparito e qualcun altro sarebbe riemerso storpiato, ma che ci volete fare, la (non-)vita del capitale deve continuare. Queste spiacevolezze sul bilancino del ‘computo utilitaristico’ avrebbero permesso alla grande ruota della produzione e del consumo di rotolare avanti e avanti, e questa è l’unica cosa che conta e che legittima. Dopo tutto la vita umana, come ogni altra forma di vita, è solo una variabile accanto alle altre nella grande avventura dei mercati.

L’epidemia in corso ha permesso al meccanismo parassitario del capitale e delle sue giustificazioni di farsi vedere per un momento alla luce. Ma come i non-morti della tradizione cinematografica, alla luce del sole esso prende fuoco e si dissolve. L’estraneità alla vita e ai suoi valori del gioco dei giudizi di mercato si è manifestata per un momento: gli uomini e le loro vite sono apparsi per come appaiono attraverso gli occhi del capitale: variabili collaterali, enti sacrificabili come ogni altra cosa, come tutto salvo la produzione di ‘margine’, di profitto. E nonostante decenni di indottrinamento la maggior parte degli umani è ancora capace di ritrarsi inorridita.

Sarebbe però del tutto sbagliato pensare che si tratti di una presa di coscienza durevole e definitiva. Il gioco della ragione liberale continua ad essere quello ideologicamente più accreditato, ed esso continuerà a sbatterci davanti agli occhi la sua forma argomentativa: “Salvare vite è un lusso che non vi potete permettere e che dovrete pagare.” E più passerà il tempo senza che nessuno metta in discussione questo sistema di contare debiti e crediti, questo sistema di prezzare la natura e la morte, senza nessuno che metta in discussione la legittimità di chi gli chiede di pagargli il prezzo della vita, più saranno le persone che cederanno, spezzate dal ricatto.

Siamo nel mezzo di una battaglia, una battaglia ancora aperta, per l’anima degli uomini.

 

 

5 Risposte a “L’orizzonte delle scelte nell’epoca del coronavirus”

  1. ” E nonostante decenni di indottrinamento la maggior parte degli umani è ancora capace di ritrarsi inorridita.”
    Questo mi pare mero ottimismo statistico , la realtà è ben altra e la illustrano bene le manifestazioni di insofferenza al lockdown, praticate da buzzurri semianalfabeti in assetto di guerra, nell’America profonda.
    Decenni di TV spazzatura prima e social network poi, hanno fatto carne di porco dell’intelletto umano.

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