Un’emergenza silente

Il principio guida di un’educazione efficace consiste nello sfruttare la capacità umana di ‘compensazione’ dopo uno sforzo superiore al normale. Così, se vuoi educare un muscolo ad essere più forte o reattivo lo sottoponi ad uno sforzo anomalo, che poi verrà compensato dall’organismo, sviluppando le parti coinvolte. La stessa cosa accade per qualunque capacità mentale, dalla memoria alle capacità di codifica e decodifica verbale. Questo significa, molto semplicemente, che qualunque buona educazione richiede di sottoporre il discente (soprattutto in crescita) a sforzi mirati superiori alla propria norma. Se e quando lo fa, la relativa facoltà cresce.

Ora, la specie umana fino a tempi recenti ha vissuto in condizioni in cui gli ‘ostacoli’, le necessità di fare uno sforzo fuori dalla norma, provenivano da sfide ambientali, da circostanze pratiche esterne. Alcune di queste circostanze, soprattutto nell’ambito della maturazione intellettuale, venivano dall’esposizione durante la crescita alla richieste normative, comportamentali, concettuali e linguistiche delle proprie società.

Come rispetto al cibo, i soggetti di norma non avevano la necessità di ‘mettersi a dieta’ con uno sforzo di volontà, perché ci pensavano le sfide ambientali a mantenere in efficienza la propria corporeità, così l’esposizione dei bambini (per lungo tempo concepiti come ‘adulti in miniatura’) al confronto con un mondo di norme, ragionamenti e tenzoni verbali adulte forniva uno stimolo spesso sufficiente ad una buona maturazione intellettuale.

Con l’incremento dell’agio e della protezione nella società, il necessario fattore di ‘sforzo supplementare’ è stato introdotto nel processo educativo ricorrendo ad una disciplina esterna. La disciplina, naturalmente, non è fine a sé stessa, ma finalizzata ad esercitare quel grado di coazione capace di spingere il discente al di là dei propri limiti correnti. Tradizioni culturali dotate di una struttura disciplinare particolarmente articolata e rigorosa, come quella ebraica, hanno mostrato il loro successo plurisecolare attraverso l’evidente sovrarappresentanza nell’intellighentsia europea.

Tutto ciò ha cominciato a disgregarsi circa mezzo secolo fa. Alla radice di questo processo dissolutivo sta la convergenza dei processi di liberalizzazione educativa, avvenuti sulla scorta del ’68, e dell’imporsi della moderna ‘società dei consumi’. Questa convergenza da un lato ha invitato i soggetti in crescita a perseguire durante la propria crescita le ‘linee di minimo sforzo’, e dall’altro ha dato accesso crescente a ‘dispositivi per il consumo passivo di stimoli’.

Così, mentre sul piano ideologico si diffondeva l’idea di un’educazione che dovesse rifuggire da comportamenti disciplinari, sul piano della struttura economica la società dei consumi creava a getto continuo mirati strumenti di di-vertimento (cioè dis-toglimento) da sottoporre ai propri piccoli consumatori.

Di passaggio, questo è uno dei punti (non certo l’unico) in cui la convergenza storica di New Left e neoliberalismo si manifesta con grande chiarezza.

Gramsci nei Quaderni dal Carcere poteva ricordare con il consueto acume che “lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio, oltre che intellettuale, anche muscolare-nervoso: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza.” Queste riflessioni per la Nuova Sinistra nata dalle ceneri del ‘68 erano il segno di un’epoca oscura, non ancora illuminata dal proprio ardito libertarismo, il quale ora etichettava come ‘autoritarismo’ ogni forma di disciplina, inclusa quella educativa, aprendo la strada a tutte le innumerevoli forme di degrado culturale che la società dei consumi era pronta ad alimentare.

Il venir meno di giustificazioni socialmente condivise per la disciplina, insieme a un accesso crescente a forme di consumo intensificato e semplificato, hanno iniziato a produrre i propri effetti: soggettività fragili, con ridotta capacità di concentrazione e tenuta attentiva, e con un repertorio concettuale in rapido tracollo.

Come tutti i processi storici, anche questo va letto in tutta la sua complessità, e dunque un’analisi estesa dovrebbe esaminare le interazioni con il processo, di poco precedente, di estensione della scuola dell’obbligo, e con l’inerzia intergenerazionale dei processi educativi, per cui ogni ‘tradizione famigliare’ offre sempre un qualche grado di resistenza ai processi di cambiamento. Ma, una volta fatta la tara per tutto questo, la situazione emersa è quella di generazioni che, in misura crescente, non iniziano neppure quel percorso di ‘maturazione attraverso la fatica’ che è il cuore di ogni educazione.

Dalla televisione agli smartphone la tendenza costante è quella verso l’accesso a stimoli precotti, facilmente fruibili, che non richiedono alcuna elaborazione, che si succedono con rapidità, e che lasciano un senso di vuoto quando uno vi si sottrae. Un sistema che crea dipendenza. Si tratta di mezzi che producono stimoli che generano eccitazione senza rischio o fatica, producendo una forma di esperienza rispetto a cui ogni confronto con la realtà esterna normale rappresenta un incremento di sforzo, e dunque è vissuto come una situazione di disagio e straordinarietà.

Al contempo l’intero sistema educativo è concepito in maniera di preservare il soggetto in crescita da tutte le sfide che potessero risultare ‘traumatiche’. Si assiste così alla proliferazione delle diagnosi di DSA, che se da un lato certificano la costante crescita dei disturbi dell’apprendimento, dall’altro creano di fatto percorsi protetti, che finiscono per stabilizzare e istituzionalizzare i problemi, anziché risolverli (invero l’idea stessa che qualcuno li possa considerare ‘problemi da superare’ tende ad essere vissuta come un’aggressione e una violazione della dignità.)

Non so davvero se da questo gorgo regressivo ne usciremo, e se sì, come.

Nel caso di un analogo sviluppo sul piano del consumo alimentare ad un certo punto si è corsi ai ripari, e ciò potrebbe indurre all’ottimismo. Nel secondo dopoguerra l’accesso nuovo e illimitato a grassi e zuccheri produsse un boom euforico dei consumi di tali prodotti altamente ‘stimolanti’ per un metabolismo normale (tarato sulla loro scarsità). Successivamente, il riconoscimento della tendenza biologica a perseguire la ‘linea di minimo sforzo’ (e dunque al sovraconsumo) e la constatazione dei danni fisici ad esso associati, ha prodotto una reazione sociale di contenimento degli abusi.

Nel caso di TV, Smartphone, Videogiochi ecc. una presa di coscienza sociale e diffusa è però ancora di là da venire. Il carattere intossicante e la dipendenza psicologica prodotti da questi dispositivi, anche se intuiti da molti, sono ampiamente sottovalutati. Non di rado si sentono discorsi autoconsolatori che lodano, senza il benché minimo fondamento, le presunte peculiarità cognitive dei cosiddetti ‘nativi digitali’. Inoltre il terreno su cui operano quei dispositivi è quello, potentissimo, della condivisione sociale, che rinforza le pratiche in questione. Infine la riduzione dei tempi di presenza famigliare per molti genitori, sottoposti a crescenti pressioni lavorative, tende a conferire a questi dispositivi il ruolo di ‘babysitter dei poveri’.

Tutto ciò naturalmente non rappresenta un mero problema di ‘buon gusto’ o una proccupazione per le sorti dell’‘alta cultura’. Ciò che è qui in gioco sono molto semplicemente i presupposti di funzionamento delle democrazie, la cui premessa ineludibile è la capacità del ‘demos’ di esercitare un ruolo di decisore accettabilmente razionale. Il vero problema non è infatti mai l’esistenza di gente che dice sciocchezze (o magari ‘fake news’), che siano su internet o sulla carta stampata, ma l’esistenza di masse di persone che quelle sciocchezze si bevono.

Le democrazie muoiono in due modi. Uno è quello noto del ‘rovesciamento dell’ordine costituito’ e dell’imposizione di ‘un uomo solo al comando’: modalità spettacolare e facilmente identificabile. L’altro è un modo assai più insidioso e avviene nella forma di dissolvimento del senso della democrazia dall’interno. Esso ha luogo quando la materia prima della democrazia, il ‘demos’, si sfalda. Oggi questo accade sotto i nostri occhi, mentre parti sempre più rilevanti di popolazione sono lasciate a guardare il mondo e la scena pubblica come uno spettacolo del tutto inintelligibile, rispetto a cui essi oscillano tra apatia e rabbia, alla mercé della prossima televendita di gadget politici.

 

 

 

2 Risposte a “Un’emergenza silente”

  1. Abbiamo tutta l’informazione sotto i polpastrelli. Non servono più i preparatori di programmi didattici, oltre i minimi necessari naturalmente. Ognuno può preparare il proprio sapere presbitero istantaneamente. La fatica dello studio di interi programmi si è trasformata nela fatica di digitazione rapida. I tempi corrono e gli schemi si infrangono. L’unico vero schema è la regola della logica, del buono stile e della buona digitazione. Chi è Ingegnere e tace, sbaglia. Chi è scrittore e non muove le sue dita, non appare. Chi è avvocato e non apre campagne sociali, resta nell’oblio. Chi è ricca e con una nave negriera non sfonda una moto vedetta italiana è una sfigata. Chi vuole contare, e non si avventa ai microfoni, scompare. Questa mutazione della tendenza formativa, fa dimenticare zappe e presse ai rampolli degli italiani, mentre ciò non accade ai nostri immigrati, che saranno i futuri maestri d’ascia, e i futuri aratori di campi. Chi avrà la produzione e i negozi più belli vincerà come sempre.
    Cinesi e immigrati si danno da fare come sempre in silenzio mentre i titolari di in territorio litigano tra di loro, con la politica interna a cui non verranno mai a capo finchè non applicheranno la legge elettorale sportiva, quella del vero vincitore e non delle coalizioni, e finché non ricostituiranno moneta e banche pubbliche. I cinesi lo sanno, loro lavorano e stampano moneta che noi accettiamo. Noi, coglioni, scriviamo e non agiamo più.

  2. Come sempre la Storia è maestra, ma dal momento che la Storia non viene più studiata sembra a tutti che il mondo sia nato ieri. La fine dell’impero romano ha ripercorso esattamente queste strade, i cittadini romani sono scomparsi, sostituiti da altri popoli che ne hanno preso il posto semplicemente perché più “affamati”. Amen.

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