La Sinistra sinistrata (Transcripts FB)

1) UNA STORIA NATURALE INVOLUTIVA, OVVERO COME E’ STATO POSSIBILE DA GRAMSCI ARRIVARE A VELTRONI

Esergo:
“Nella discussione scientifica, poiché si suppone che l’interesse sia la ricerca della verità e il progresso della scienza, si dimostra piú «avanzato» chi si pone dal punto di vista [dove] l’avversario può esprimere un’esigenza che deve essere incorporata, sia pure come momento subordinato, nella propria costruzione. Comprendere e valutare realisticamente la posizione e le ragioni dell’avversario (……) significa appunto essersi liberato dalla prigione delle ideologie (nel senso deteriore, di cieco fanatismo ideologico), cioè porsi da un punto di vista «critico», l’unico fecondo nella ricerca scientifica.”
(Antonio Gramsci – Quaderni dal carcere: Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce)

Ma poi Gramsci è morto.
E chi ne doveva raccogliere l’eredità ha proseguito nella scia della peggiore tradizione nazionale, quella dove le forze e l’ingegno vengono usate non per comprendere e superare le ragioni dell’avversario, ma prendendo la scorciatoia di definirsi attraverso la repulsione dell’avversario (l’avversario che ci si sceglie).

Così, i discendenti politici di Gramsci hanno cominciato la loro carriera in tempo di pace definendosi attraverso l’Antifascismo (hurrà).

E qualche lustro dopo hanno proseguito definendosi attraverso l’Antistalinismo (doppio applauso e ola).

E poi, oramai dimentichi che i nemici che si erano scelti (Fascismo e Stalinismo) erano stati fratelli degenerati del socialismo (degenerati sì, ma anche fratelli) hanno potuto proseguire negli anni ’60, definendosi contro l’Autorità Costituita, e poi contro l’Oppressione della Famiglia, dell’Identità, della Tradizione, della Nazione…

Eh, ohibò, chi lo avrebbe mai creduto.
Negli anni ’80 hanno cominciato a scoprire di essere tanti piccoli anarco-liberali in erba, figli di papà con la bocca piena di diritti umani e soggettivi, di libertarismo a buon mercato, di insofferenza ad ogni disciplina e dunque anche incapaci di ogni azione collettiva, frammentati sempre di più in ribellismi individuali, imbottiti di americagate, quelle con l’indignazione sociale a molla.

A questo punto, erano finalmente maturi per nuotare con la corrente, diventando dei perfetti benpensanti liberali, pronti a saltare sul carro del ‘migliore dei mondi possibili’, quello del ‘Sogno Kennedyano’, di ‘Martin Luther King’, dell’ ‘America dal volto umano’, la cui filmografia ha sulla coscienza personaggi come Veltroni. Tutta roba che, naturalmente, nessuno aveva mai incontrato nel proprio cortile di casa, ma che sembrava più vera del vero, visto che era in TV.

Il resto è solo l’attuale minutaglia, priva di qualsivoglia identità da decenni, ma che ancora ci perseguita.

 

2. RIFLESSIONI PER UN’ABOLIZIONE DELLA ‘SINISTRA’

C’è una differenza di fondo tra essere marxisti, o socialisti, o comunisti, o ambientalisti, o liberali, ecc. e essere “di sinistra”.

Le prime espressioni indicano collezioni (solo parzialmente sovrapponibili) di desiderata storici e sociali. Tali desiderata sono perseguibili in una pluralità di modi, e dunque anche adattabili nelle forme, purché lo scenario ultimo desiderato venga preservato.

La seconda espressione indica invece una collocazione relativa in uno scenario competitivo con altre forze parlamentari (questa è anche la sua origine storica nella Assemblea Nazionale Costituente dopo la Rivoluzione Francese). Essa indica una sorta di sentimento, informalmente tramandato, per cui di fronte a certe posizioni “si sa” che essere di sinistra implica il tirarle verso un certo estremo: “si sa” cosa sia essere più o meno a sinistra di x, senza avere la più pallida idea di dove questo ‘essere più a sinistra’ debba portare.

Dopo ponderata riflessione sono giunto alla conclusione che la seconda espressione è semplicemente generatrice di confusione, di scuse, di pretesti, di disorientamento. Consente a personaggi di piccolo o piccolissimo cabotaggio di correre dietro strumentalmente al generico ‘sentire’ di pezzi di popolazione, senza essere mai chiamati a chiarire che mondo in ultima istanza vogliono e come pensano di ottenerlo.

Credo dunque che la terapia per il ritrovamento della oramai mitica “identità perduta della sinistra” passi per l’eliminazione dell’espressione stessa di ‘sinistra politica’, che è oramai parte del problema e non della soluzione.

 

3. LA SINISTRA DEI DIRITTI A COSTO ZERO (da l’Espresso)

La proclamazione della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (1948) venne accolta con un certo scetticismo dalle forze che si ispiravano alla tradizione socialista e comunista. Paradossalmente, oggi, a settant’anni di distanza, l’unica cosa che sembra accomunare le varie ‘sinistre’ occidentali pare essere l’appello ai ‘diritti soggettivi’ (diritti civili, diritti umani). L’idea che un “ampliamento dei diritti” in quanto tale sia un’agenda politica di sinistra è diventata senso comune.

Questa metamorfosi sarà forse un’evoluzione politica ben giustificabile, ma tale giustificazione non sembra che nessuno abbia sentito l’urgenza di fornirla.

Se indugiamo nel prestigioso ossario della Sinistra vi troviamo interessanti reliquie come le critiche marxiane alle concezioni dei Diritti dell’Uomo espresse dalle Rivoluzioni americana e francese. Marx obiettava a quei proclami che essi concepivano l’uomo in modo artificiale, astorico e isolato, con interessi indipendenti e conflittuali, sul modello delle moderne relazioni di mercato. Molti dei diritti proclamati, per quanto condivisibili, constavano di rivendicazioni formali astratte e mistificanti. Così, la proclamazione solenne dell’eguaglianza formale tra gli uomini lasciava intoccate, ed anzi legittimate, tutte le diseguaglianze economiche e di potere.

Naturalmente può ben darsi che Karl Marx avesse torto dove Laura Boldrini ha ragione. Ma forse non bisognerebbe aver fretta di darlo per acquisito.

I diritti soggettivi sono primariamente libertà di fare qualcosa a prescindere dalla volontà altrui, o richieste che terzi facciano qualcosa per noi. Tali istanze pretendono di essere imperative, cioè di prescindere da valutazioni di opportunità, moralità, utilità, ecc. Se qualcosa è un diritto può essere preteso sempre.
Inoltre, molti diritti soggettivi (es.: i diritti umani) si dicono fondati in natura, dunque inerenti ad un’essenza che prescinderebbe da storia, tradizione, cultura.

Nel nome dei diritti umani e civili molte battaglie importanti sono state combattute e vinte, dunque nessuna critica può sminuirne il ruolo storico. Tuttavia è utile sottolinearne alcuni limiti.

Innanzitutto, la pretesa indipendenza di diritti soggettivi ‘naturali’ da contesti storici e antropologici è notoriamente una finzione. Per dire, fissare che ogni essere umano ha per sua essenza diritto ad un giusto processo in tribunale rimuove il fatto che istituzioni come tribunali e processi erano ignote in molte comunità storiche. Inoltre, e più importante, la pretesa che i diritti siano una sorta di imperativi categorici è anch’essa manifestamente una finzione.
Nessun diritto ha validità assoluta, essendo concretamente condizionato ad altri diritti e/o a valutazioni morali o di utilità.

Ho diritto alla privacy, ma essa può essere limitata per esigenze di sicurezza nazionale.
Ho diritto alla libertà, ma per esigenze di difesa sociale sono carcerabile.
Ho diritto di espressione, ma purché non promuova il razzismo, o non minacci la privacy, o la sicurezza, o non violi un contratto, ecc.

Di fatto i diritti fanno solo il gesto di essere imperativi non negoziabili. La loro implementazione è sempre valutata contestualmente, e definita in rapporti di forza, di potere contrattuale o di egemonia culturale (da avvocati, giudici, governi).

Il linguaggio stesso dei diritti è pervaso da una pretesa di assolutezza, su base individuale, che promuove aspettative irrealistiche bloccando la ricerca di un terreno comune e alimentando confronti conflittuali. L’espressione “È un mio diritto!” funziona come punto d’arresto non negoziabile, dove le motivazioni avrebbero termine e dovrebbe semplicemente seguire l’esecuzione. Ma questa insindacabilità è illusoria, giacché persino i più consolidati tra i diritti sono relativizzabili in contesti specifici.

È inoltre diffusa l’idea che un’estensione dei diritti soggettivi vada di per sé in una specifica, e lodevole, direzione etica. Ma le cose non stanno così. Ad esempio, supportiamo il diritto al godimento del proprio corpo e a non essere ridotti in schiavitù, ma, con una piccola variazione dello Zeitgeist, potremmo decidere che ciascuno deve avere il diritto di vendere la totalità delle prestazioni del proprio corpo (come schiavitù), oppure pezzi di esso (come compravendita d’organi). E anche questo potrebbe passare per ‘ampliamento dei diritti dell’individuo’.

La diffusione di una ‘politica dei diritti soggettivi’ ha una sola direzione effettiva, ancorché involontaria: mentre in teoria diritti come rivendicazioni individuali e come esigenze collettive possono essere formulati con pari legittimità, di fatto una ‘politica dei diritti’ alimenta costantemente le prime a scapito delle seconde.
Gli articoli della Dichiarazione del 1948 parlavano anche di diritto al lavoro, a una rimunerazione soddisfacente, al riposo e allo svago, a un tenore di vita sufficiente, alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia, a un’istruzione indirizzata al pieno sviluppo della personalità umana, ecc.
Curiosamente gli odierni appelli contro le ‘violazioni dei diritti umani’, obliano questi articoli, così massicciamente disattesi. In questa amnesia non c’è alcun mistero. I diritti la cui implementazione richiede prevalentemente omissioni o non interferenze (diritti formali come libertà d’espressione, di culto, ecc.) sono relativamente facili da imporre, spesso a costo zero. Al contrario, diritti la cui implementazione esige redistribuzione di risorse, o ripensamenti dell’organizzazione sociale tendono ad essere annacquati, sacrificati, rimossi.

Questo processo è compendiato al meglio nel passaggio storico da cui sono emersi i lineamenti delle odierne forze di sinistra: il ’68. Nel variegato panorama delle rivendicazioni del ’68 due gruppi di istanze erano distinguibili: istanze libertarie (contro l’autorità della famiglia, dei professori, dei ‘guardiani della morale’, ecc.) e istanze strutturali (palingenesi dello stile di vita, modelli di vita non occidentale, contestazione della logica del profitto, ecc.).
Quali che siano i rispettivi meriti, qualche decennio dopo delle due linee ‘rivoluzionarie’ solo la prima, di ordine individualistico e libertario, aveva lasciato tracce consolidate.
La seconda, sociale e strutturale, ci appare oggi come una curiosità storica.

Dall’eredità culturale di quegli anni le forze di ‘sinistra’ uscirono con un’agenda sempre più indirizzata verso lidi liberali, un’agenda dove era avvenuta la santificazione delle voci individuali e delle relative rivendicazioni, mentre simultaneamente si era atrofizzata l’analisi del processo storico e delle sue forze.
Solo che per magnificare i diritti degli individui – istanza talvolta lodevole – esisteva già una ideologia storica, il liberalismo libertario. Ora, se questo vuol essere l’odierno orizzonte delle sinistre, va benissimo, ma allora non sarebbe forse opportuno liberare uno spazio politico occupato abusivamente agitando, di quando in quando, vaghe nostalgie ‘rosse’? Avessero il coraggio e l’onestà di fondare un bel partito liberaldemocratico.
Non è escluso che qualcuno ne senta il bisogno.

 

4. L’IDENTITA’ DELLA SINISTRA COME PATOLOGIA POLITICA

http://mimesis-scenari.it/2016/01/19/lidentita-della-sinistra-come-patologia-politica/

1. Anamnesi

Il tema della perduta, fragile, confusa e smarrita identità della sinistra italiana rappresenta da tempo un luogo comune, del pensiero politico non meno che della satira. L’afasia politica del funzionario del PCI Michele Apicella in Palombella Rossa (1989) è attuale oggi quanto un quarto di secolo fa.

Per ribadire tale condizione patologica, divenuta oramai seconda natura, possiamo ricordare la recente riunione, tenutasi quasi clandestinamente tra i quattro partiti/movimenti che oggi si muovono alla sinistra del PD (Rifondazione Comunista, Sinistra Italiana, i civatiani di Possibile e SEL). Questi gruppi, riunitisi il 14 dicembre scorso per ‘trovare una sintesi’ in vista delle prossime elezioni amministrative, nella migliore tradizione della sinistra italiana non sono giunti ad alcun accordo. E per apprezzare appieno lo spirito tragicomico di questo fallimento è utile ricordare che questi quattro gruppi non rappresentano neppure la totalità del panorama politico alla sinistra del PD: andrebbero infatti aggiunti diversi gruppi a tutt’oggi non disciolti, anche se dallo statuto ontologico incerto, come i Verdi, l’Italia dei Valori, l’Altra Europa con Tsipras, e gli arancioni (De Magistris).

Tutto ciò ha un aspetto ovviamente comico, ma ha anche un lato tragico ben visibile se si pensa a cosa ciò significhi in termini di domanda politica priva di riferimenti credibili. Sondaggi alla mano il bacino potenziale di un partito unitario di sinistra sarebbe, persino oggi, superiore al 20%; per tacere del fatto che una gran parte dell’elettorato PD e M5S sarebbe molto sensibile a una forza di sinistra credibile e innovativa. A fronte di questa domanda, le classi dirigenti della sinistra italiana rispondono con la tradizionale inconsistenza pulviscolare, che conduce all’ennesimo suicidio politico: il moto browniano sinistrorso, che non smuoveva una foglia neppure con sistemi elettorali proporzionali, con la nuova legge elettorale non comparirà neppure come epifania televisiva dello zerovirgola.

2. Diagnosi

Ora, sin dalla svolta della Bolognina, la sinistra italiana ha manifestato due problemi, apparentemente disgiunti.

1) Da un lato una carenza di personalità di rilievo, – ma in presenza di un’ubertosa selva di personalismi (rivalità, gelosie, ambizioncelle umane troppo umane).

2) Dall’altro lato un senso di drammatica perdita di identità, – ma travestita da ‘radicalismo privo di compromessi’.

È curioso notare, a questo proposito, come faccia parte dei riflessi condizionati del discorso pubblico associare a ‘sinistra’ l’aggettivo ‘radicale’, in un ritornello preformato. Questo definizione è naturalmente del tutto obsoleta: sulla scena politica italiana quasi tutti, dalla Lega al M5S, da Forza Italia a Fratelli d’Italia, ecc. hanno da tempo posizioni di ben maggiore radicalità su quasi ogni questione rispetto alle posizioni della sinistra-sinistra. Ma l’aggettivo ‘radicale’ associato a ‘sinistra’ sopravvive a se stesso, soprattutto perché non viene contestato da chi lo incarna: esso infatti appaga l’immagine di sé del popolo di sinistra e dei suoi rappresentanti (“Siamo minoranza sì, ma a causa del nostro temibile radicalismo…”).

Questi due fenomeni (personalismi senza personalità e radicalismo identitario senza una chiara identità) definiscono il quadro sintomatico della malattia storica della sinistra in Italia.

La domanda che dobbiamo ora porci è la seguente: questi due fenomeni sono disgiunti e solo accidentalmente compresenti o c’è tra di essi un nesso di fondo?

Una breve riflessione ci può far vedere come i due fenomeni siano strettamente connessi. Per cominciare a scorgere questo nesso bisogna innanzitutto riconoscere che la politica ha sempre avuto bisogno di personalità: ciò non è un recente prodotto dell’imperio mediatico dell’immagine, che si limita ad accentuarne alcuni aspetti esteriori (fotogenia, capacità di ‘bucare il video’, ecc.). Personalità politiche forti come centro (pro-tempore) di decisione ed iniziativa sono sempre state in varia misura necessarie. La ragione prima è che nella quotidianità politica c’è bisogno di formulare continuamente risposte a problemi parzialmente inediti, e queste risposte richiedono elaborazioni personali dotate di libertà di movimento e di fiducia (in sé e degli altri) per poter improvvisare e inventare.

Ma affinché esistano personalità politiche forti non è sufficiente disporre di personalità umane forti: è ulteriormente necessario che vi sia un intorno di persone disponibili a riconoscere quelle personalità. Un leader esiste solo come complemento di una diffusa disponibilità gregaria, e se per qualche motivo tale disponibilità non si manifesta, non c’è personalità naturale che tenga.

Ma quali sono le condizioni perché tale disponibilità gregaria si dia? Possono esservene molte, ma per una forza di sinistra è essenziale che una certa personalità appaia come buona incarnazione di ideali qualificanti: non ci si subordina ad una semplice personalità forte, ma si accoglie una condizione gregaria quando una certa personalità appare con una valenza generale, come convincente rappresentanza ideale. E con ciò scorgiamo il nesso tra mancanza di personalità e carenza di identità: lo stato di perenne incertezza di identità ideale fa sì che a sinistra difficilmente qualcuno si possa imporre come soddisfacente incarnazione dell’ideale medesimo. L’incapacità di lasciar emergere leader di peso nella sinistra non è un accidente antropologico, ma il sintomo di una patologia ideale.

Ma cosa questa patologia ideale sia è meno ovvio di quanto sembri. Dire che si tratta di una patologia ‘identitaria’, che rende difficile l’identificazione di un’essenza della sinistra, dice ancora molto poco. In effetti, messa in questi termini, qualcuno potrebbe credere che alla sinistra manchino alcune ‘idee supplementari’, alcuni ‘lineamenti distintivi’, che si sarebbero perduti o illanguiditi nel tempo. E la terapia dunque consisterebbe nel recuperare o aggiungere tali tratti, o nel rimarcarli.

Quest’idea è del tutto fuorviante. La tragedia della sinistra contemporanea non è il ‘tradimento dell’eredità della sinistra’, non è la ‘mancanza di memoria’. L’odierna sinistra richiama alla mente piuttosto quel personaggio di Borges, Funes el Memorioso, che ricordava tutto ed era incapace di dimenticare alcunché; la tragica fine di Funes consiste nel suo rimanere oppresso e schiacciato dal peso infinito dei dettagli mnemonici in indefinito accumulo, finendo per ridursi ad uno stato di totale passività e paralisi. Il ‘patrimonio ideale’ della sinistra somiglia insomma alle case degli ‘accumulatori seriali’, quei soggetti psichiatrici che non riescono a buttare via niente: vi si ritrova un coacervo di opinioni accumulatesi in momenti e contesti diversi, attorno a cui si sono aggregati nel tempo gruppuscoli eterogenei, gelosi custodi di certune o cert’altre tesi. Invece di un nocciolo coerente e strutturato di idee, la sinistra presenta un’infinita collazione di opinioni convenzionali, che possono essere tenute assieme dai loro portavoce solo al prezzo di infinita cautela, prudenza ed esercizio di casuistica.

Per capirlo basta gettare uno sguardo alle innumerevoli tesi che appaiono legittimamente ‘di sinistra’. Chi può negare che la sinistra sia ‘tradizionalmente’ dalla parte dei giovani; ma anche ‘tradizionalmente’ per la tutela degli anziani? O che sia ‘tradizionalmente’ per i diritti individuali; ma non meno tradizionalmente per la tutela di un’etica comunitaria? Ed è ‘tradizionalmente’ per i ‘lavoratori’, ma anche per i ‘pensionati’; per l’identità europea ma anche contro l’eurocentrismo; per la cultura occidentale, ma anche per le culture ‘altre’. È per il progresso tecnologico e industriale, ma anche per la preservazione dell’ambiente. È filoaraba, ma anche laica e illuminista. È filopalestinese, ma non antiebraica. È libertaria, ma anche antiliberale. È razionalista, ma anche post-moderna. È ‘rivoluzionaria’ e ‘radicale’, ma anche rispettosa del politicamente corretto. È ‘popolare’, ma non prova alcuna curiosità per ciò che si agita nella pancia del popolo. È con i giudici, ma contro il giustizialismo. È con Kennedy, ma anche con Fidel Castro. È con il papa, ma per lo stato laico; ecc. ecc.

Beninteso, il problema in questo guazzabuglio non è che non ci possano essere, o essere state, di volta in volta buone ragioni per prendere posizioni che possono ricadere sotto ciascuna di quelle voci. Alla sinistra è accaduto ciò che accade a tutte le tradizioni storiche quando si sclerotizzano in riti ripetitivi, sentenze, opinioni ortodosse: è rimasta solo una silloge di prese di posizione, senza più alcuna intuizione del nocciolo motivazionale che in passato le aveva giustificate. In mancanza di questa capacità di andare alle ragioni, le tesi diventano rigide, fragili, convenzionali, spesso meri riflessi condizionati. Barcamenarsi in questo oceano di frammenti convenzionali è difficile e costringe a muoversi nel discorso pubblico ingessati e tentennanti. E in effetti, il tratto più caratteristico dell’espressività pubblica dell’odierno rappresentante di sinistra è la difficoltà ad identificarsi con le proprie parole, l’incapacità di manifestare con convinzione rabbia o speranza, sdegno o desiderio. La sinistra finisce per avere tutti i problemi di franchezza e chiarezza che hanno forze di governo di lungo corso (quelle forze che, dovendo mediare tra numerose istanze, hanno difficoltà a conservare una linea univoca), solo che ha questi problemi senza essere forza di governo e mediazione.

3. Terapia

Ora, in un quadro del genere cosa dovrebbe fare un leader di sinistra in pectore, un novello ‘Principe rosso’? Beh, dovrebbe fare il contrario di quello che molti predicano. Non dovrebbe aggiungere nulla al famoso ‘patrimonio ideale della sinistra’, ma dovrebbe piuttosto operare per sottrazione. Dovrebbe liberarsi della stragrande maggioranza delle ‘ovvietà di sinistra’ e concentrarsi nell’afferrare poche idee di fondo ed imprescindibili, esercitandosi poi a scoprirne e spiegarne le implicazioni in contesti e situazioni attuali.

Ma giustamente, arrivati a questo punto qualcuno chiederà “quali sarebbero quelle ‘poche idee di fondo ed imprescindibili’?” Ora, sarebbe ovviamente del tutto pretenzioso pensar di fornire qui un quadro non dico esaustivo, ma anche solo rappresentativo di tali idee. È ovvio che per fissare un punto così cruciale ci sarebbe bisogno di un serio lavoro argomentativo, non risolvibile in poche battute. Ma interrompere a questo punto la discussione, rinviando ad approfondimenti futuri sarebbe un gesto prudente, ma anche fastidiosamente evasivo. Provo perciò a formulare comunque, a mero titolo di suggestione, le tre idee centrali (o valori), che credo catturino il nocciolo di un’identità politica all’altezza della migliore tradizione socialista e comunista. – Chi si aspetta un’analisi articolata può senz’altro saltare, senza perdere nulla, i prossimi tre paragrafi e andare direttamente alle conclusioni.

3.1) La prima idea qualificante da tenere ferma come nocciolo fondativo di un’identità ‘di sinistra’ è uno specifico tipo di egalitarismo. Non si tratta qui dell’egalitarismo astratto (stigmatizzato già da Marx) secondo cui ‘gli uomini sarebbero tutti uguali’. È del tutto ovvio che gli uomini uguali non sono e che mai lo saranno. Si tratta invece di un egalitarismo normativo, che ha come ideale guida il mettere ciascun individuo egualmente nelle condizioni per esprimere le proprie specificità, e per dare e ottenere riconoscimento dai propri simili. Perciò ad essere rifiutate non sono le diseguaglianze intrinseche tra talenti, virtù o disposizioni naturali, ma le diseguaglianze estrinseche (non inerenti all’individuo) di sangue, denaro e potere; ed in particolare queste ultime diseguaglianze vanno censurate in quanto tramandate o in quanto ottenute accidentalmente (immeritatamente, fortunosamente, ecc.). Tali diseguaglianze sono rigettate non per gelosia o invidia, ma in quanto ostacolano la libera espressione della persona e il libero riconoscimento interpersonale. Un’analisi dettagliata potrebbe mostrare come da un tale ideale normativo siano deducibili molte prese di posizione particolari su diritti di cittadinanza, welfare, tassazione redistributiva, ecc.

3.2) La seconda idea qualificante è quella per cui il senso della propria esistenza di attori politici si gioca in un orizzonte comunitario e storico. Questo significa che il senso della propria esistenza viene giocato nella cornice di una collettività e della sua esistenza nel tempo. Ciò ha uno specifico connotato ‘laico’: forme di ‘salvezza’ individualistica e/o extra storica sono escluse dalle considerazioni utili alla conduzione dell’azione politica (possono naturalmente conservarsi in una sfera di credenza privata, ma non rappresentano la base per alcuna decisione pubblica). Scommettere su una dimensione comunitaria e storica significa leggere la propria esistenza nella cornice delle possibilità di un lascito storico, di valori che travalicano l’esistenza individuale in quanto sono storicamente ereditabili dalla (o dalle) comunità di appartenenza. Questo punto, per inciso, chiama in causa la questione cruciale delle identità sociali di appartenenza (cosa conta, o vorremmo contasse, come la ‘nostra comunità’). Qui un’analisi di dettaglio potrebbe mostrare come dall’applicazione razionale al presente di un tale ideale normativo si possono dedurre prese di posizione su temi come l’educazione pubblica, la tutela ambientale, l’accesso all’informazione, ecc.

3.3) La terza idea fondamentale è la subordinazione di principio dell’agire economico a fini sociali. Questa è una conquista teorica duratura e caratterizzante della tradizione socialista e comunista: la sfera dell’economico non rappresenta un valore in sé stesso, e non è capace di autoregolamentarsi. Ergo, la sfera decisionale pubblica deve essere sempre, in linea di principio, in grado di dire l’ultima parola sui processi economici. Ciò non significa che la sfera della decisione pubblica debba dirigere passo passo l’economia, ma significa che non ci deve essere alcuno spazio per l’anarchia dei rapporti di forza economica (di potere contrattuale), né per le pulsioni all’accumulo illimitato, né per l’acquisizione di posizioni dominanti dell’economico sul politico ecc. In questa cornice si inquadrano tesi sulla progressività della tassazione, sui limiti all’accumulo patrimoniale indefinito, sulla regolamentazione dei mercati del lavoro, delle merci e dei capitali, ecc.

4. Conclusioni

Come detto, i tratti di fondo di cui sopra sono solo uno spunto ed un suggerimento, tutto da discutere, ma il punto terapeutico essenziale non sta tanto nel condividere queste istanze, quanto nell’operazione di pulizia mentale e semplificazione cui si deve giungere. L’esercizio fondamentale che bisogna imparare a fare di nuovo è spiegare come da certi principi condivisi si possano argomentare tesi politiche concrete attraverso conoscenza (dati) e ragionamento. Bisogna cioè dare per scontato infinitamente di meno di quanto si fa ora e imparare a spiegarlo infinitamente meglio. (Provandoci, probabilmente molti sedicenti rappresentanti di sinistra scoprirebbero che non sono in grado di spiegare efficacemente alcunché perché loro stessi non hanno ben capito ciò che dovrebbero spiegare a terzi).

Così si dovrebbe cominciare a sgombrare il campo da una marea di apparenti ovvietà. Bisognerebbe avere il coraggio di capire, prima, e di dire, poi, che non esiste in natura alcuna posizione ovviamente ‘di sinistra’, ad esempio, sull’ingegneria genetica o sulla questione mediorientale, sulle armi da fuoco o sulla pena di morte, sul misticismo, sullo scientismo, sul senso dell’onore, sull’uso di cannabis, su non-violenza e pacifismo, su americanismo o europeismo, sul matrimonio gay o sul divorzio etero, su un’etica della disciplina o su un’etica edonistica, sull’identità nazionale o sull’immigrazione, sugli OGM o la macrobiotica; non esiste invero neppure una posizione ovviamente di ‘sinistra’ su ‘progresso’ o ‘conservazione’; e molto molto altro ancora.

Il problema non è quello, molto discusso e ricorrente, se si debba o non si debba andare oltre l’opposizione ‘destra-sinistra’. Porre così la questione è mera superstizione nominalista: come se decidersi o meno a tale ‘superamento’ risolvesse qualche cosa. (Spesso, peraltro, la pretesa di ‘andare oltre destra e sinistra’ si è tradotta nel passare da stereotipi sinistrorsi a stereotipi liberali, il che è come sostituire una partita di pane ammuffito con una di brioche ammuffite: arduo definirlo un progresso).

Il punto di fondo non sono le etichette, ma le istanze: se ciò che è stato noto nel ‘900 come ‘sinistra’ vuole avere non solo un nobile passato ma anche un qualche futuro deve innanzitutto fare una grande operazione di pulizia rispetto alle proprie infinite ‘ovvietà convenzionali’, concentrandosi su pochi valori qualificanti, e poi esercitandosi in fondati ragionamenti capaci di spiegare e convincere. Smettere di fingere di sapere a priori ‘da che parte stare’, e cominciare ad avere il coraggio anche di posizioni inedite (senza l’eterno timore di una qualche eterodossia).

 

5. SINEDDOCHE (PROMEMORIA ALLE SINISTRE A VENIRE)

Se hai infarcito una frase di asterisc*, mentre hai lasciato inalterato i posti negli asili nido, non è che hai manifestato il tuo rispetto per le donne.
Le hai solo prese per il culo.

 

6. DUE ANIME DELLA ‘SINISTRA’
(UN ABBOZZO DI CHARIMENTO TEORICO)

Lo so che è infinitamente più divertente seguire le vicissitudini del PD e capire se si scinde, quando si scinde, come si scinde, ecc. [siamo nel Febbraio 2017, ndr.]

Però io francamente tenderei a sbattermene, perché il tutto mi annoia, e perché credo che finché si tratterà di scissioni tra diversi portatori sani di marasma mentale, le differenze per le sorti del paese saranno irrilevanti.

Provo invece a segnalare, in forma di semplice abbozzo, perché la questione richiederebbe ben altra elaborazione, un punto teorico che a me pare tanto qualificante quanto normalmente occultato.

Esiste da sempre (è già presente nei partiti socialisti di fine ‘800) una duplice tensione assiologica nell’area politica che interpretiamo come ‘di sinistra’.

La prima, radicata nella proposta marxiana, era incentrata su una visione del ‘lavoro’ come mediazione fondamentale tra uomo e natura, e del ‘lavoratore’ come essenza umana realizzata. Il lavoro va nobilitato, difeso, compreso, e comprenderne la funzione è un modo per affrontare la questione della realizzazione della natura umana. Questa visione concepisce la ‘sinistra’ (meglio il socialismo o comunismo) come una proposta sociale e organizzativa in grado, letteralmente, di ‘salvare l’umanità da sé stessa’, ovvero di salvarla da quel peculiare vicolo cieco della storia rappresentato dall’organizzazione del lavoro capitalista.

La seconda visione è incentrata su una visione della ‘sinistra’ come difesa degli oppressi, dei deboli, dei meno fortunati. Questa visione affonda le sue radici sia nel cristianesimo che nel liberalismo progressista. Il suo fondamento non sta in un’analisi delle dinamiche storiche, ma in un’istanza morale basata essenzialmente sull’empatia. Questa prospettiva si incarna in una visione del progresso civile come tutela e rivendicazione di diritti individuali, di diritti delle minoranze, come difesa della parte pro tempore più debole rispetto alla parte protempore più forte.

Queste due visioni sono spesso perfettamente compatibili.

Nella visione marxiana queste due visioni sono anche occasionalmente coincidenti nel concetto di ‘proletariato’, che incorpora simultaneamente l’uomo nella sua veste eminente di lavoratore, e l’uomo in una condizione di oppressione storica. (Tale coincidenza è stata malauguratamente latrice di molte confusioni).

E’ però utile comprendere come queste due visioni, pur potendo spesso collaborare proficuamente, sono fondamentalmente differenti.

Solo la prima visione possiede una prospettiva che si estende all’uomo in quanto uomo e dunque all’umanità tutta, alla comunità o società tutta. L’altra visione si dedica strutturalmente all’interesse di una parte, nell’intento di portare alla luce una peculiare idea di giustizia.

Un po’ di riflessione da parte di ciascuno dovrebbe mostrare facilmente come in merito a certe questioni concrete, anche cruciali, queste due visioni possono trovarsi a collidere.

Personalmente credo che senza il coraggio di affrontare apertamente questa duplicità, chiarendo a quale delle due istanze si voglia dare priorità nei casi in cui esse possano confliggere, non si possa mai pervenire ad un autentico chiarimento teorico dell’identità della ‘sinistra’ (o di quel che ne resta).

 

7. VENDETTA, TREMENDA VENDETTA…

Ecco, io me lo ricordo Achille Occhetto che spiegava alla platea costernata alla Bolognina che era giusto che il PCI non si chiamasse più tale, che nuovi contenuti richiedevano nuove parole, che i conti-col-passato e Gorbacev e il Muro di Berlino e la conventio ad excludendum e bla e bla e bla,
ed era perciò giunto il momento di indossare un nuovo glorioso nome,
un nome latore di un brillante futuro:

P…D…S…

Volevo dire

D…S…

Oops,

P…D…

Ecco, e allora a questo punto diciamocelo.

Ma “Partito Democratico” esattamente che mme sta a significà?

Perché lui è democratico e quegli altri sono antidemocratici?

Perché a noi l’Amerika ce piace, e vogliamo essere come la Happy Clinton Family?

O magari perché volevamo il cappello più slambricciato e comodo possibile, dovendo farci stare dentro alla rinfusa chiunque, anche solo di passaggio?
Destra-sinistra-centro-alto-basso-magro-glabro-cattolico-bestemmiatore-katanga-radicalchic-punkabbestia-Bilderberg-Franza-o-Spagna-purché-se-magna,
checcefrega annoi, basta che ramazzi voti…

Ecco, e allora mozione d’ordine compagni, amici, carbonari, camerati o chi diavolo siete: è ora di cambiarlo questo nome, perché, ficcatevelo bene in testa: “Partito Democratico” non vuol dire proprio un’emerita cippa.
E si vede.

 

8. PICCOLA NOTAZIONE SULLA TRASFORMAZIONE GENETICA DELLA SINISTRA

Mi è capitato recentemente di trovarmi a discutere su FB in un paio di thread sul tema del chiasso notturno provocato da molti locali nel centro (TS), chiasso che non consente ai residenti di dormire.

Si possono naturalmente concepire proposte e soluzioni diverse, ma l’idea che a me pareva (erroneamente) ovvia è che non sia possibile trattare su di un piano di pari dignità il diritto al riposo notturno e l’esigenza di divertirsi rumorosamente in notturna.

E’ un po’ di tempo che non rientra tra i miei costumi, ma ho un ricordo vivo di quando si cantava in compagnia in città vecchia, e ci si beccava un cazziatone quando l’ora diventava troppo tarda, e senza sognarsi di protestare, ci si trasferiva altrove (Barcola, ecc.). Ora naturalmente non si parla di cantare (non si canta più), ma di inserire il superbass sulle casse per ascoltare, spesso, ciarpame inqualificabile. Ma questo è un giudizio di gusto, che appartiene alla sfera delle convinzioni private.

CIò che mi ha davvero sorpreso è come una significativa componente di sinistra giovanile si schierasse in modo aperto a difesa del ‘diritto al divertimento’, tacciando di intolleranza chi segnalava la propria necessità di dormire la notte.

Questo punto mi pare un emblematico segno dei tempi. Chi ha bisogno di dormire la notte è spesso qualcuno che deve lavorare di giorno. Capita, c’è ancora gente che lavora.

Mi pare però esemplare il fatto che per una parte significativa della gioventù ‘progressista’ l’idea che esista un ‘diritto al divertimento’, e che chi non lo capisce sia ‘geriatrico’ o ‘intollerante’, si presenti come un riflesso condizionato.

Ma la coerenza con lo spirito dei tempi mi pare esemplare.
In effetti oggi la sinistra è sempre di più il luogo dove si ritrovano i pasdaran degli apericena, le guardie rosse del diritto umano al cazzeggio, il ‘popolo della movida’.
Quanto a quei coglioni che lavorano per vivere, che vadano a farsi difendere da qualche morto di fame come loro.

 

9. DOPO GLI ATTENTATI DI BRUXELLES DEL MARZO 2016

Tutti conosciamo le abiette imbecillità dei saprofagi di destra che trasformano, di professione, i cadaveri in voti.
E anche oggi personaggi come Salvini non ci hanno fatto mancare nulla.

Ma oggi stesso mi è capitato incidentalmente di inciampare in un sito, piuttosto rappresentativo di una certa sinistra, una sinistra che, da persona di sinistra, non frequento abitualmente, ma che temo di non poter continuare ad ignorare.

Ecco, a titolo informativo e come supporto alla riflessione, un florilegio (copia-incolla) delle opinioni sugli attentati di Bruxelles che si erano appena verificati
(Ho omesso i nomi, ma mi sono permesso di introdurre una classificazione, ad orientamento del lettore):

1) Il pacifista:
“Una cosa è certa: il vero vincitore sarà chi la smette per primo!
Una cosa vorrei sapere esattamente: quale elemento delle bombe europee le rende migliori degli uomini bomba? Qualcuno è in grado di rispondere a questa domanda?”

2) L’animalista benaltrista
“Ogni millisecondo si contano pezzi di animali (umani o non umani che siano) e ci sarebbe poco da ridere. Eppure ridiamo e ce ne fottiamo.”

3) Il non-interventista
“Dovremmo imparare a non rompere sempre gli “zebedei” a tutti.
Non penso che sia giusto ciò che è accaduto, ma è una delle tante conseguenze prevedibili.
“Esportare democrazia” come viene comunemente detto, non può funzionare…”

4) Il complottista
“voi pensate che sia l’isis, e invece è la CIA. è tutto fatto a tavolino, l’imperialismo…il colonialismo…le guerre, i flussi migratori, le frontiere”

5) Il flagellante (o dell’automortificazione cosmica)
“quando si parla di responsabilità, tutti ti si rivoltano contro. Ognuno è responsabile al 100% di tutto ciò che succede anche fuori dai propri confini fisici, dal momento che la coscienza è sconfinata e non può essere rinchiusa in un territorio. Ciò non significa ne di essere fatalisti, ne di sentirsi perennemente in colpa ma di osservare le gestire al meglio le proprie emanazioni di odio e aggressività.”

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Ora, il mio istinto pedagogico sarebbe stato di mettermi pazientemente a spiegare nei dettagli perché quella era una stronzata agghiacciante, quell’altra l’indice di uno scollegamento tra tastiera e cervello, quella terza la manifestazione di un prolungato abuso di sostanze psicotrope, ecc.

Ma la giornata è già abbastanza faticosa di suo e dunque, diligentemente, civilmente e sommessamente mi limiterò al seguente giudizio forfettario. Al netto di tutte le possibili obiezioni costruttive, andate un po’ a quel paese.

 

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