La dinamica storica italiana tra europeismo e sovranismo

Quanto segue è una breve riflessione volta a comprendere l’attuale collocazione storico-economica dell’Italia, con particolare riferimento alla questione del rapporto con l’Unione Europea e con i mercati internazionali.

Parte prima: I dati

Prima di offrire valutazioni di merito proviamo a fare il punto circa l’evoluzione dell’economia e della spesa pubblica italiana negli ultimi 30-50 anni. (Fonti: Istat e Ragioneria Generale dello Stato)
Dal 1980 la spesa legata alla produzione diretta di servizi è sempre stata inferiore alla media europea, con una parificazione con la media europea nei soli anni 1989-1990
1980: 16.3% Italia vs 19,3% Europa;
1990: 19,8% vs. 19,8%;
2000: 17,7% vs. 19,7%;
2009: 20,3% vs 22,5% [Dati in percentuale sul Pil].

La spesa per la Difesa è sempre stata inferiore alla media europea fino al 2004, da allora è sulla media, con uno 0,1% in più nel 2008
1990: 1,5% Italia vs 2,4% Europa;
2000: 1,1 vs 1,5%;
2008: 1,4% vs 1,3%)

La spesa per l’Istruzione era pari alla media europea fino ai primi anni ’90, per poi scendere e rimanere regolarmente sotto la media di circa lo 0,7% dalla seconda metà degli anni ’90 ad oggi.
1990: 5,5% Italia vs 5,4% Europa;
2000: 4,6% vs 5,2%;
2008 4,6% vs 5,4%.

La spesa per la Sanità era leggermente superiore alla media europea all’inizio degli anni ’90, per scendere sotto la media europea dal 1994 al 2004, e attestarsi sulla media da allora (7,1% nel 2008).

La spesa per l’ordine pubblico e la sicurezza è sempre lievemente superiore alla media europea con un’escursione che va da un + 0,4% nel 1990 a un + 0,1% nel 2008.

Anche la spesa per la protezione sociale (pensioni, ammortizzatori sociali) è sulla media europea fino al 2004 per aumentare leggermente dal 2005 e arrivare ad un +1,1% nel 2008 (per far fronte alla crisi subprime).

Come si vede il quadro delle spese correnti italiane degli ultimi 30 anni è complessivamente nella media europea, con divergenze nelle preferenze di spesa: abbiamo speso un po’ meno della media in politica industriale diretta, istruzione e (fino a tempi recenti) difesa, e un po’ più della media in ordine pubblico e protezione sociale.

La grande divergenza, quella che spiega la crescente situazione di difficoltà, esiste in un solo capitolo di spesa, ovvero nella spesa per interessi sul debito. Se ci limitiamo a guardare gli ultimi tre decenni troviamo che la spesa per interessi è sempre marcatamente superiore alla media europea, attestandosi ad un livello circa doppio di quella.
1990: 10,1% Italia vs 5,8% Europa
2000: 6,4% vs 3,4%
2008: 5,1% vs 2,4%.

Questo dato di disavanzo cumulativo produce un effetto di accumulo esponenziale.
Se guardiamo al debito pubblico italiano l’andamento è caratteristico e molto istruttivo.

Nel 1980 abbiamo un rapporto Debito/Pil ancora al 56%; nel 1990 il rapporto è già esploso al 94,7%; continua a crescere fino a toccare un picco del 121% nel 1995, per ridiscendere un po’ fino al 103% del 2004 e risalire poi all’odierno 133%.

Se ampliamo ancora l’immagine vediamo che la spesa corrente dello stato direttamente legata alla produzione di servizi si è ridotta in maniera drastica nel tempo, in particolare se ampliamo la considerazione dei dati confrontandoli con gli anni ‘60. [Dati in percentuale sulla spesa pubblica totale]. Nel 1960 era al 35%; nel 2009 siamo al 15%. Nello specifico la spesa per il personale pubblico è scesa dal 29% del 1960 al 13% del 2009. Il maggior crollo della spesa, va però sottolineato, era già avvenuto per il 1980.

Se prendiamo gli estremi della serie storica disponibile vediamo che tutte le spese pubbliche si sono ridotte in percentuale dal 1960 ad oggi, con l’unica eccezione del ‘rimborso di prestiti’, che è passato dal 3,9% della spesa totale nel 1960 al 25,2% del 2009.

Due ultimi dati sono rilevanti e vanno tenuti a mente.

Dal 1991 ad oggi, con la sola eccezione del 2009 (disavanzo dello 0,9%) l’Italia è sempre stata in avanzo primario, cioè ha sempre ricavato dalle imposte più di quanto abbia speso in servizi pubblici. Questo significa che per l’intero percorso storico della cosiddetta ‘seconda Repubblica’ l’Italia è stata ‘virtuosa’ dal punto di vista del famoso ‘buon padre di famiglia’ (che ovviamente è un’analogia insensata, ma tant’è).

Nonostante cotanta virtù e austerità, negli stessi anni il rapporto deficit/Pil è peggiorato, come ricordato sopra, di quasi il 40%. Al contempo, dal 2000 ad oggi la crescita economica italiana è sempre stata inferiore alla media europea, tuttavia la stagnazione con perdita di competitività comparativa inizia già all’inizio degli anni ‘90.

 

Parte seconda: Le cause

Quali possono essere considerate le cause di tale situazione di persistente stagnazione e crescente indebitamento? Se ne possono citare naturalmente molte, ma proviamo a soffermarci su quelle di impatto più generale.
La seconda Repubblica è nata all’insegna della lotta alla corruzione e di ‘Mani Pulite’ come risposta al sistema di malaffare che circondava parte significativa della spesa statale, in particolare quella per appalti e grandi opere di interesse pubblico. Per molti anni la risposta principale alle difficoltà del paese è stata perciò additata nel sistema di corruzione/concussione che ha avvelenato i rapporti tra impresa privata e committente pubblico. In quest’accusa c’è del vero: dai primi anni ’80 il tasso ‘fisiologico’ di corruzione nel paese sembra crescere e ciò incide in due modi, da un lato perché opera come una ‘tassa occulta’ sulla produzione, dall’altro (e soprattutto) perché incide sulla qualità degli investimenti pubblici che vengono scelti in sempre maggior misura non sulla base dell’utilità pubblica in prospettiva, ma sulla base di chi può beneficiarne obliquamente. Questo punto dunque non va sottovalutato: nessuno Stato può prosperare senza senso dello Stato nella sua classe dirigente, ed in particolare nella sua classe politica.

Tuttavia, nonostante il problema della corruzione sia stato (e sia) concreto, esso non è il principale colpevole nell’esplosione della spesa pubblica, spesa che, come abbiamo visto, continua imperterrita a crescere mossa essenzialmente dal cumulo degli interessi sul debito.
Se guardiamo alla serie storica del rapporto debito/Pil vi troviamo due impennate decisive. La prima dal 1982 al 1997 (dal 63% al 120%), la seconda dal 2008 a oggi (dal 103% al 133%). Quali sono gli eventi cruciali relativi al debito in questo periodo?

Il primo evento è l’autonomizzazione della Banca d’Italia (1981-1982), ovvero la separazione della Banca d’Italia dal ministero del Tesoro e con ciò la rinuncia all’obbligo di garantire l’acquisto dei titoli del debito pubblico. Questa decisione, presa dal ministro democristiano Beniamino Andreatta, rientrava in una classica visione di politica economica liberista (monetarista). L’idea dell’indipendenza della Banca Centrale dai condizionamenti della politica è vista dai suoi promotori come un modo per evitare il rischio inflattivo, assegnando alla Banca Centrale il compito fondamentale di sorvegliare la stabilità della moneta. Essendo l’inflazione tipicamente un problema per i creditori (cioè i detentori di capitale) e non per i debitori, il senso dell’operazione è trasparente.

Al tempo stesso, l’indipendenza dalla sfera politica sottrae alla Banca Centrale la possibilità di intervenire sull’economia reale, ad esempio finanziando operazioni anticicliche. (Nella categoria ‘corsi e ricorsi’, può essere interessante ricordare come il ministro Andreatta, nella polemica seguita a questa decisione, accusò i suoi oppositori di essere “nazional-socialisti”, spiegando poi che con ciò aveva semplicemente inteso ‘socialisti nazional(isti)’…).

L’immediata conseguenza della separazione della Banca d’Italia dal Tesoro fu un’impennata dei costi di finanziamento del debito. La ragione è semplice: fino a quando un debito pubblico è garantito dalla banca Centrale, che può dunque farvi fronte ‘stampando moneta’, c’è la certezza tecnica che quel debito resterà solvibile: in ogni momento il debito reale può essere abbassato con un’emissione di moneta, barattando debito pubblico con inflazione. (Si tratta, per inciso, di un’operazione adottata più volte dagli USA). Al contrario, nel momento in cui il debito dev’essere garantito solo dalla fiducia dei mercati, la possibilità di principio di un default emerge, e tale rischio si ripercuote in termini di tassi di interesse crescenti.

La ragione teorica a monte di quella separazione stava dunque nell’adesione ideologica ad una visione degli stati democratici come entità finanziariamente inaffidabili che, per questo motivo, devono essere subordinate ad un ‘vincolo esterno’ sulla spesa pubblica, vincolo fornito dal saggio ed equanime giudizio dei mercati. Col senno di poi anche le menti più sprovvedute dovrebbero aver imparato a diffidare della saggezza dei mercati, ma in ogni caso è essenziale comprendere che l’attuale situazione, quella in cui ci troviamo sotto perenne ricatto dei ‘mercati internazionali’, non è un fenomeno naturale, non è un accidente della storia, ma è il frutto di una scelta politica ben precisa, ispirata dalla sfiducia nell’autogoverno democratico e dalla priorità assegnata agli interessi della finanza privata.

Il vicolo cieco in cui l’Italia si era cacciata volontariamente spinse successivamente ad aderire al progetto della moneta unica. L’idea, parzialmente fondata, era che i costi di finanziamento del debito si sarebbero ridotti con l’avvento di una moneta europea, l’euro, che avrebbe prestato la sua affidabilità, nutrita dalla potenza economica europea, a tutti i paesi membri, inclusa l’Italia. Inizialmente questo fu effettivamente l’effetto. A partire dalla fine degli anni ’90, quando il progetto dell’euro era oramai instradato e poi nei primi anni dopo l’abbandono della lira, i tassi di interesse si ridussero in modo considerevole, consentendo una riduzione del rapporto debito/Pil (dal 120% al 103%).

Tuttavia l’accordo sulla moneta unica era stato accettato dalla Germania, il paese con la moneta più forte, solo a patto di fissare rigide regole che, da un lato toglievano tutti i margini di autonomia monetaria ai paesi membri, dall’altro esimevano la BCE da ogni intervento come ‘prestatore di ultima istanza’, cioè come finanziatore di eventuali scompensi nei paesi membri. La normativa che regola la BCE è ispirata da una prospettiva rigorosamente monetarista, dove il solo compito della Banca Centrale è di preservare la stabilità della moneta.

È importante ricordare tuttavia, che, una volta di più, l’argomento principe delle nostre classi dirigenti per giustificare l’ingresso nell’euro, anche nei termini severamente vincolanti imposti dalla Germania, fu che ciò avrebbe ‘reso virtuoso’ il paese, togliendogli sovranità e sottoponendolo ad un vincolo esterno. L’idea era che, finalmente, saremmo stati costretti alla virtù. In un paese che viveva ancora sull’onda lunga dello scandalo di Mani Pulite questa simpatica forma di autorazzismo passò senza colpo ferire, alimentando l’idea, patetica quanto catastrofica, che se non eravamo capaci di fare bene i nostri interessi, cedendo sovranità in qualche modo ci avrebbero pensato altri a fare i nostri interessi (o ci avrebbero indotti a farli).

Il redde rationem venne con la crisi subprime del 2007-2008. Quella crisi, di schietta origine finanziaria ed extraeuropea, sarebbe stato un caso da manuale in cui l’intervento difensivo di una banca centrale poteva risultare cruciale per salvare gli istituti di credito e consentire il finanziamento dell’economia reale. Ma risultò invece subito chiaro che questa prospettiva non era affatto nelle corde della BCE, che tenne pervicacemente altissimi i tassi di interesse per oltre un anno dopo la deflagrazione della crisi, e che successivamente intervenne solo in forma condizionale, cioè subordinando eventuali interventi di alleggerimento all’adozione di riforme neoliberiste (riduzione della spesa pubblica, contrazione del perimetro dello stato, riduzione di vincoli e protezioni pubbliche).

La percezione dei mercati che la BCE non avrebbe fatto quello che una Banca Centrale sovrana avrebbe invece ovviamente fatto, cioè salvare i paesi in crisi di liquidità, fece schizzare verso l’alto i tassi sul debito dei paesi più a rischio, tra cui l’Italia (crisi dello spread del 2011).

Fu solo nel luglio del 2012 che Mario Draghi, con il celebre “Whatever it takes”, fece di nuovo la BCE garante della liquidità delle nazioni europee. Il messaggio però oramai era stato compreso e digerito da tutti, mercati internazionali in primis: la BCE non è lì per salvare nessuno. Ogni intervento eventuale dev’essere concesso dall’azionista di maggioranza, cioè dalla Germania, e tale permesso è condizionato all’adozione di interventi graditi ai mercati e alla Germania stessa. In questo contesto dunque l’Italia (come anche, in modo esemplare, la Grecia) si ritrova tenuta a catena corta, in una forma di sovranità limitata, costretta ad adottare politiche inefficaci e impopolari, per evitare di essere strangolata finanziariamente. La fine del mandato di Draghi nel 2019 rappresenta in questo senso una scadenza potenzialmente drammatica.

 

Parte terza: Le terapie

Veniamo così alla questione delle prospettive. Questo è un piano molto più complesso e polimorfo, come sempre è il futuro rispetto al passato. Un paio di cose sono però certe.
In primo luogo, la situazione attuale è, oramai a detta di tutti, insostenibile. Per l’Europa una finanza senza politica in un mondo dove per i big players (USA, Cina, Giappone, ecc.) la finanza è una fondamentale arma di politica estera è un suicidio geopolitico, oltre a richiedere, nella fattispecie, elevati tassi di ‘sacrifici umani’.

In teoria vi sono due direzioni in cui la situazione di catastrofica impasse attuale potrebbe venire risolta: o in direzione di un megastato federale europeo, sul modello degli USA, o in direzione di una ritrazione dall’UE, in forma sperabilmente consensuale, con ripristino della sovranità nazionale degli stati membri (magari con la creazione di aree di libero commercio tra economie più omogenee).

La prima opzione è valida a tavolino, e chi scrive per molto tempo ha ritenuto fosse una possibilità reale. Ma le ragioni che remano obiettivamente contro sono profonde e insuperabili in tempi storici prevedibili. La storia americana è incomparabile con quella europea; le differenze interne tra stati americani sono comparabili forse con quelle tra le regioni interne a uno stato europeo. Perciò la possibilità di avere una politica democratica comune, discussioni politiche comuni e un governo democratico unitario in un continente dove si parlano 30 lingue diverse (e lingue con dietro storie e culture profonde e irriducibili) è francamente utopico. Come è evidente a tutti, le elezioni europee sono sempre mere rivincite delle elezioni nazionali, fatte su agende nazionali, e non esiste alcuna politica democratica dell’Europa unita, né si comprende come potrebbe venire realisticamente istituita.

Questo non significa che le intensificazioni di contatti avvenuti in questi anni all’interno dell’Europa non siano un patrimonio di cui far tesoro. Quando si perverrà alla dissoluzione dell’Unione Europea come la conosciamo, l’attenzione a non ricadere nelle conflittualità di un secolo fa dovrà essere preminente. Ma al momento, contrariamente alle aspettative, è proprio la gabbia europea a generare le condizioni per una conflittualità crescente.

Il secondo punto da sottolineare è che le possibilità per uno stato come l’Italia di navigare nei marosi della nuova economia globalizzata dipendono da alcune caratteristiche, caratteristiche che il paese ancora possiede. Esse sono: una capacità produttiva industriale di alto livello, un sistema formativo che, nonostante i tentativi di distruzione perpetrati negli ultimi anni, rimane su standard elevati, un mercato interno ancora capace di interessare i venditori esteri, e un sistema infrastrutturale in parte senescente, ma ancora robusto.

Inoltre, in una fase di contrattazione per uscire dall’euro e dai trattati europei (da Maastricht in poi), paradossalmente, anche un debito pubblico grande come quello italiano rappresenta un asset, essendo un incentivo affinché nessuno faccia saltare il tavolo.

Queste sono caratteristiche che rendono l’Italia un paese che, naturalmente in un quadro di accordi commerciali e trattati internazionali come si è sempre fatto (nessuna chiusura autarchica), può cavarsela.

È importante vedere, tuttavia, cosa accadrebbe se dovessimo seguire le ‘terapie’ che ci vengono caldamente suggerite a livello europeo. Tali terapie tendono precisamente a rendere il nostro paese internazionalmente innocuo.

Quali sono infatti i loro capisaldi? L’austerità, la riduzione della spesa pubblica, la compressione salariale e la riduzione del debito.

La compressione della spesa pubblica comporta anche una compressione degli investimenti. Ciò rende il paese progressivamente meno competitivo sul piano dell’innovazione industriale, toglie ossigeno alle risorse per la formazione e condanna all’obsolescenza il sistema delle infrastrutture.

Al tempo stesso la contrazione dei salari (oramai purtroppo già molto avanzata) rende l’Italia un mercato meno interessante. La conseguenza più drammatica della riduzione di peso del mercato interno sta nell’incentivo che fornisce alla delocalizzazione delle attività produttive presenti sul territorio nazionale. Infatti, i costi di produzione non sono l’unica variabile che un’attività produttiva prende in considerazione: molto importanti sono anche le infrastrutture del paese ospitante, e la prossimità del luogo di vendita al luogo di produzione, che consente di risparmiare sulle attività di mediazione e trasporto. La riduzione del peso del mercato interno dunque tende a creare un avvitamento nell’impoverimento del paese.

Infine, in vista di una negoziazione, il nostro stesso debito pubblico è un’arma. Nel momento in cui ridivenisse debito sovrano (cosa tecnicamente possibile tramite ridenominazione), esso diverrebbe solvibile e potrebbe continuare a rimanere su livelli alti per tempi molto lunghi, senza necessità di venire ridotto. E un debitore solvente, che eroga ciclicamente gli interessi dovuti, è prezioso per ogni creditore.

Al contrario il suggerimento (caldeggiato dai tedeschi) di riportare il debito al 60% del Pil, attraverso austerità e compressione salariale, otterrebbe il mirabile effetto di renderci inoffensivi sia come competitore economico che come debitore, distruggendo ogni possibilità di autonomia futura per lo Stato italiano.

Beninteso, i tedeschi non lo fanno per malvagità. È solo che le loro classi dirigenti fanno gli interessi del proprio paese, e sanno farlo.

Nota finale. Credo che debba essere chiaro a tutti che la necessità di riconquistare sovranità non abbia, né debba avere, nulla a che fare con istanze nazionaliste, con pretese di superiorità, con il disprezzo per altri paesi o popoli. Niente di tutto questo. Personalmente, per quel nulla che conta, nutro amore e ammirazione per ciascuno dei paesi europei in cui ho avuto occasione di vivere. La ricchezza storica straordinaria dell’Europa fa di ogni pezzo del suo territorio un gioiello di cui, giustamente, ciascun popolo europeo è orgoglioso. Ma l’infernale sistema di relazioni, vincoli e conflittualità economica in cui ci hanno condotto gli ideologi del liberismo corre il rischio di esacerbare una volta di più sospetti, sprezzi, ostilità tra i popoli in forme che ci ricordano, queste sì, tragici errori del passato.

 

2 Risposte a “La dinamica storica italiana tra europeismo e sovranismo”

  1. Un altro articolo fenomenale, chiarissimo, lucido, razionale, senza concessione alcuna a pretese ideologiche, necessitaristiche o fatalistiche.

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