Il liberalismo come malattia etica

Il pensiero liberale nasce e si sviluppa come reazione alle Guerre di Religione che avevano devastato il XVII secolo in Europa. L’idea che credenze etiche forti, come quelle confessionali, fossero latrici di scontri privi di margine di mediazione alimentò l’idea che l’etica dovesse essere rinchiusa in una sfera privata, sottraendola alla sfera pubblica. In certo modo l’idea di base del liberalismo politico consiste nello svuotare la sfera dei valori e delle convinzioni in modo da togliere di mezzo le ragioni stesse che possono portare a conflitto valori e convinzioni contrastanti. Tutta la sfera etica nella visione liberale è una sfera che, in linea di principio, è garbato tenere per sé.

Gli epigoni di questo pensiero sono i pensatori relativisti e nichilisti della postmodernità, che concepiscono ogni tentativo di giungere ad una ragione comune, ad una convinzione collettiva, come una specie di abuso, una violenza. Tuttavia questa visione, comprensibile come reazione ai conflitti di religione, è costitutivamente insostenibile per due ragioni di fondo: da un lato gli uomini non possono convivere e collaborare senza un’ampia sfera di valori condivisi; dall’altro negli uomini valori e convinzioni esistono solo quando possono avere valore intersoggettivo, quando possono essere condivisi.

Il grande tentativo storico del liberalismo politico fu di sostituire la collaborazione, l’accordo e la condivisione politica, con un sistema di liberi scambi individuali dove il perseguimento di ciascuno del proprio interesse egoistico avrebbe condotto magicamente (la ‘”mano invisibile” di Adam Smith) a crescita e benessere generalizzati. Da questo punto di vista si comprende bene la costante sottovalutazione nella teoria economica, a partire dalla Ricchezza delle Nazioni (1776), della dimensione politica, giuridica e nazionale: i mercati idealizzati dell’economia classica e neoclassica sono mercati utopici che funzionerebbero senza cornici giuridiche, senza controllo sociale, senza comunanze culturali, ecc. Né la storia né l’antropologia hanno mai conosciuto niente del genere, ma questa visione è funzionale a promuovere una società di individui eticamente autosufficienti, individui che non hanno alcun bisogno di cooperare, condividere, intendersi, e che possono risolvere ogni situazione ‘votando con i piedi’, cioè andandosene in silenzio, uscendo da uno scambio per rivolgersi ad uno scambio differente (o parimenti uscendo da uno stato per andarsene in uno diverso).

Sul piano etico il problema di questo sistematico depauperamento della dimensione di valori, convinzioni, cooperazione e condivisione è dunque duplice: 1) da un lato esso non può mai essere davvero condotto sino in fondo, pena il collasso di ogni struttura di convivenza (incluso il mercato); 2) dall’altro lato esso è umanamente insostenibile: valori e convinzioni depauperati riemergono sempre di prepotenza. Tuttavia, avendone il progetto liberale privatizzato l’essenza, essi riemergono in forme rozze, inarticolate, confuse e rabbiose. Il liberalismo è la teoria che produce in assoluto nella storia il maggiore analfabetismo morale, giacché tende a deprivare il discorso pubblico di confronti normativi, tende a negare l’esercizio del dialogo etico.

Il contesto argomentativo liberale tende così a produrre due effetti fondamentali.

A) In primo luogo esso produce un effetto paradossale per una teoria nata in opposizione alla conflittualità delle guerre di religione. L’atteggiamento liberale, privatizzando valori e convinzioni, non è in grado di eliminarli, ma li svuota di razionalità, li sottrare alle mediazioni argomentative, li rinchiude idealmente nella sfera irrazionale e inintelligibile della pulsione e dell’istinto privato. In questo senso, il modello etico liberale ricrea proprio il peggio di quelle convinzioni di fede che avevano condotto alle guerre di religione, cioè la loro componente dogmatica, l’incapacità di giungere ad una mediazione razionale. L’intera sfera dell’etico è appaltata alla sfera dell’irrazionale non negoziabile e non motivabile. Il mondo finisce per dividersi in due grandi ambiti: quello dell’obiettività razionale dove avrebbe parola solo la ragione scientifica e quella della soggettività irrazionale dove vigono convinzioni private parareligiose (e qui credenze New Age, sette sataniche o religioni del libro vanno bene uguale).

B) Il secondo effetto è ancora più peculiare: il discorso etico liberale aveva tendenzialmente sottratto al discorso pubblico la componente propositiva, attiva, la propulsione dei valori e delle convinzioni. Ma nessun discorso al mondo può avere senso compiuto senza appellarsi ad una qualche, ancorché minimale, dimensione di valore. E tale dimensione residua nel liberalismo è sempre stata il ‘non nuocere agli altri’. La libertà liberale è archetipicamente quella libertà dove uno dovrebbe essere libero di fare qualunque cosa purché ciò non nuoccia ad altri. Questa bella e nobile espressione è purtroppo del tutto vuota se non viene riempita con la sostanza di valori positivi. Dopo tutto se la valutazione di ciò che ‘mi nuoce’ non ha validità intersoggettiva, ed è lasciata alla mia valutazione privata di valori e convinzioni, è chiaro che con l’appello al ‘non nuocere agli altri’ non abbiamo ancora detto assolutamente nulla. Io posso essere infastidito da fatto che tu ti vesta con colori sgargianti o che non ti vesta affatto, che mangi carne o asparagi, che non usi deodorante, che ti sposi con un contratto a distanza, che parli ad alta voce, che raccolga stelle alpine o canti in autobus, ecc. ecc.

Lo svuotamento assiologico liberale porta perciò alla luce a sua volta un effetto bicipite: 1) da un lato crea lo spazio per una contrattazione e microconflittualità costante, 2) dall’altro accoglie come istanza etica preferenziale la passività, l’essere ‘offeso’, ‘ferito’, l’essere ‘vittima’.

B.1) Il primo aspetto si rivela nella dimensione del perenne contenzioso, nella microaggressività diffusa alimentata da un pullulare caotico di istanze rivendicative. Il mondo liberale è il mondo dei ‘diritti individuali’ che si presumono mitologicamente già sempre esistenti, solo in attesa di essere portati alla luce. Questi presunti diritti sono spazi di mia libertà, positiva o negativa, di fare o ricevere qualcosa, e vanno ottenuti in un contenzioso con altri che osteggiano quella mia libertà. Va qui sottolineato che solo un’esigua minoranza di libertà possono contare come pure libertà negative, cioè come libertà che richiedono solo la non interferenza di altri. Se voglio fumare oppio a casa mia si può argomentare che questo non tocca nessun altro e che quindi può valere come pura libertà negativa, che non ha margini di conflitto con pretese altrui. Può essere così, ma sotto condizioni comunque piuttosto restrittive: già se quell’oppio ho dovuto acquistarlo da altri, abbiamo dei problemi; se invece che essere oppio fosse una sostanza con effetti allucinatori ed eccitanti il rischio di ‘perdere il controllo’ e andare a danneggiare altri andrebbe contemplato, ecc. Simili argomenti si potrebbero portare per il diritto al suicidio e qualche altra situazione. Dunque possiamo sì concepire alcune libertà come quasi puramente negative (libertà individuali che non interferiscono affatto con altri), ma queste sono un numero davvero molto limitato.

La condizione normale dei presunti ‘diritti’ ha invece tutt’altra natura. Si tratta qui sempre di battaglie per ottenere alcuni spazi d’azione a scapito di altri. Qui non esiste mai davvero una neutralità etica. Esistono solo battaglie legali, gruppi di pressione, lobby, contenziosi a colpi di parcelle d’avvocato e tempeste mediatiche, ecc. In assenza di una cornice di ragioni collettive condivise ciò con cui abbiamo a che fare sono conflitti di potere in cui chi è più ricco, più organizzato, o con le migliori entrature nelle classi dirigenti, vince la sua ‘fetta di diritti’.

B.2) Il secondo aspetto summenzionato è ancora più interessante. L’aver stigmatizzato la dimensione positivo-propositiva del valore e l’aver conferito legittimità residua solo al ‘non subire danno’ ha fatto del discorso etico contemporaneo il regno del ‘vittimismo’. L’unico argomento che il discorso etico liberale considera generalmente vincente e legittimo è infatti quello in cui a qualcuno viene attribuito il ruolo di vittima di qualcosa: della sfortuna, delle circostanze, della natura, della società, delle iniziative altrui quali che siano. Le battaglie retoriche su chi ha diritto a cosa vengono combattute tendenzialmente a colpi di vittimismo, dove il punto fondamentale consiste nello stabilire chi ha sofferto di più, chi è stato più vittima. Esistono in sempre maggior misura interi gruppi sociali che diventano ‘vittime di professione’. Una volta individuata una vittima, naturalmente, ciò legittima la persecuzione del presunto carnefice senza andare tanto per il sottile (mi sovvengono, per dire, i 500 civili serbi morti sotto i bombardamenti NATO del 1999). Almeno fino quando una situazione sufficientemente emblematica e fotogenica non possa fare apparire anche il precedente carnefice sotto le vesti di una vittima, e così avanti.

Contrapporre un valore positivo, una volontà di fare, un ideale esistenziale, un modello sociale, una forma di vita alle pretese del valore negativo rappresentato da una vittima è divenuto qualcosa di pressoché inintelligibile.

Naturalmente, siccome ogni essere umano ha in sé una pluralità di aspetti, ogni individuo o gruppo reale nel momento in cui appare come vittima dissimula altri aspetti sotto cui è anche portatore di istanze propositive, desideri positivi, brame e progetti. Perciò si può sempre giocare anche contro questo gruppo di vittime prima facie la carta del vittimismo, facendoli apparire a loro volta come ‘carnefici’ di altri.

In questa battaglia di vittimismi l’unico esito certo è la proliferazione di una cultura della menzogna opportunistica, della passività aggressiva, della ricerca di scuse, e di contro il deperimento della sfera etica con la sua sempre maggiore incapacità di muovere, animare, vivere e far vivere.

4 Risposte a “Il liberalismo come malattia etica”

  1. Gentile Prof. Zhok, la leggo spesso e trovo in genere efficaci e condivisibili le sue riflessioni. Non mi convince però fino in fondo questo articolo, per due ragioni.
    1) Non trova riduttivo parlare di “liberalismo” al singolare? Mettere sotto un’unica etichetta un universo che spazia da Smith a Rawls, da Friedman a Popper, da Einaudi a Croce fino a Gobetti e così via, mi pare appiattisca un po’ l’immagine del liberalismo, dalla quale lei filtra, comprendibilmente, solo gli aspetti più utili al suo discorso.
    2) È davvero possibile slegare il pluralismo democratico, la democrazia rappresentativa, dalle istanze liberali? In altri termini, non è il liberalismo interpretabile anche come un “contenitore positivo” all’interno del quale le istanze dei diversi corpi sociali si confrontano e competono fra loro? Non è già questo contenitore un imprescindibile valore eticamente connotato?
    Le riflessioni di Rawls in particolare, mi sembra mostrino efficacemente questo concetto.

    Conseguentemente, esistono un liberalismo-sociale, un liberalismo conservatore, forze liberal-democratiche, un cattolicesimo liberale, liberisti più ortodossi che ritengono il mercato la panacea per ogni problema e così via. Mi sembra ci sia un largo spettro di tensioni etiche che si intrecciano inevitabilmente con diverse espressioni del liberalismo, delle quali non trovo proficuo, filosoficamente parlando, proporre una riduzione a puro “svuotamento di valori” come lei mi sembra faccia.

    Più che “analfabetismo morale”, il liberalismo mi sembra sia stato il volano della lotta al “fanatismo morale”: non lo butterei via con questa leggerezza, come se fosse semplicemente “una malattia”.

    Grazie

    1. Caro Luca, la sua obiezione è del tutto comprensibile, ed anche sensata. In verità sto scrivendo un libro proprio su questo tema, dove affronto tra le altre cose proprio la questione di cosa vada legittimamente sussunto sotto il nome di ‘liberalismo’. Quello che lei dice è empiricamente vero: il liberalismo, non essendo una vera e propria corrente filosofica, dotata di un fondatore riconosciuto e di un’ortodossia, ma piuttosto un costrutto a posteriori, ha fatto spazio nel corso del tempo sostanzialmente per tutto e il contrario di tutto: vi si trovano idealisti come Croce o Bosanquet, e materialisti come Bentham o Mill, socialdemocratici (o così definibili) come Stiglitz e Keynes, e liberisti arrabbiati come Friedman e Nozick, ecc. ecc. La verità è che questo uso della categoria ‘liberalismo’ impedisce di discuterne seriamente, perché finisce per nominare qualunque cosa non sia a favore dell’Ancien Regime e non si dichiari esplicitamente antiliberale, dunque un marasma da cui tutti possono salvare qualcosa.
      Per ragioni che qui non posso argomentare (ma che pubblicherò prossimamente), io ritengo che il nocciolo centrale del liberalismo, quello che nel tempo si impone e conferisce l’egemonia culturale a questa tendenza, sia il ‘liberalismo classico’, ovvero quell’insieme di riflessioni che abbracciano Hobbes, Locke e Adam Smith (e poi collateralmente Bentham, Hume, ed altri). A quel nucleo concettuale, che si sviluppa poi nel Novecento in Hayek, Friedman, Nozick, Buchanan, Mises, ecc. si può applicare la riflessione svolta qui sopra.

      1. Gentile Prof. Zhok, grazie per la risposta. Aspetterò il suo libro. Il tema mi interessa. Al momento, trovando a me politicamente affini autori che vanno da Ralws a Gobetti, da Stiglitz a Mill, da Popper a Rosselli, non trovo molti argomenti forti per non definirmi “liberale”, ovviamente in alcune delle tante sfaccettature che il termine può assumere ed ha assunto in tempi più recenti. A lei l’onore di aiutarmi in questo “discernimento”.

  2. Sulla cultura del vittimismo, ho trovato le tue considerazioni consonanti col bel libro di Daniele Giglioli “Critica della vittima”, che consiglio.

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