Volendo vedere il bicchiere mezzo pieno, le motivazioni della decisione del Presidente della Repubblica che ieri ha posto fine all’incarico esplorativo del premier incaricato danno un contributo importante di chiarificazione. Esse hanno reso manifesto ed evidente a chiunque abbia occhi per vedere e orecchi per ascoltare, proprio per l’autorevolezza istituzionale del pulpito, qual è l’autentico crinale su cui si gioca la vicenda politica e storica del nostro tempo.
Per molti non si tratta di una novità, ma raramente tale grande cesura si era palesata in maniera più diretta ed esplicita nella politica italiana.
L’opposizione in questione è trasversale alla distinzione tradizionale tra destra e sinistra. Essa corre tra un indirizzo politico che cerca di far riconquistare sovranità alle entità politiche, democratiche e territoriali (gli stati nazionali innanzitutto, ma non solo), e un indirizzo politico che ritiene che l’orizzonte storico futuro sia quello di individui che si muovono seguendo orientamenti economici in uno spazio transnazionale e idealmente planetario.
Il primo indirizzo mira ad attribuire priorità decisionale alla dimensione politica e sociale rispetto alla sfera economica. Il secondo indirizzo mira inversamente ad accogliere le esigenze normative dei mercati come istanze che sosterrebbero nel modo migliore il bene degli individui.
Si tratta di una divisione epocale, che è tacitamente all’opera da tempo, ma che stenta ad essere riconosciuta come tale, camuffata com’è dalla chiave di lettura classica, derivante ancora dalla Rivoluzione Francese, in termini di opposizione tra destra e sinistra.
I termini più corretti per definire questa opposizione credo siano Sovranismo da una parte e Liberismo dall’altra.
Entrambi i termini sono però fraintendibili.
Il Liberismo ha conosciuto un’epoca di compatibilità con gli stati nazionali nell’800 (lo Stato come “comitato d’affari della borghesia” di cui parlava Marx), tuttavia la sua natura lo porta a travalicare naturalmente e sistematicamente i confini delle nazioni. Il Liberismo del XIX secolo, non riuscendo ad abbandonare la dimensione nazionale, finì per tradurre la competizione economica in competizione coloniale e poi in in confronto bellico (le Guerre Mondiali). Il Liberismo è tuttavia strutturalmente mercatismo transnazionale, nella misura in cui gli spostamenti del capitale e le transazioni economiche tendono ad essere indifferenti ai confini nazionali (politici in generale).
Il Sovranismo, termine di conio recente, soffre invece di una diversa, triplice ambiguità.
Essendo stato spesso usato dagli avversari in forma genericamente dispregiativa, esso ha finito per essere assimilato in modo vago al populismo. Ma l’intento di consegnare la sovranità al popolo, anche se può essere naturalmente brandeggiato in forme meramente populiste, non è però significativamente differente dall’ideale democratico. Non naturalmente l’ideale democratico ridotto a mero rituale elettorale (per quanto essenziale), ma l’ideale democratico come democrazia reale, partecipativa, non esclusiva, come autogoverno consapevole di una comunità.
In seconda battuta, e non meno insidiosamente, il sovranismo può essere assimilato al nazionalismo. Questo è forse il punto più rischioso, giacché, come la storia insegna, la competizione economica può essere facilmente incanalata, falsificandola, in forma di conflitto tra nazioni. Questo è un punto in cui alcune delle istanze tradizionalmente attribuite alla sinistra storica possono ritornare utili, segnalando la separabilità di principio tra il desiderio di identità collettiva e di sovranità politica da un lato e gli impulsi aggressivi, sciovinisti, o addirittura razzisti, che talvolta prendono in ostaggio il primo desiderio. Per essere una comunità capace di autogoverno non c’è bisogno di costruire un nemico esterno, per quanto la dinamica del capro espiatorio sia sempre una tentazione insidiosa.
In terza battuta, il sovranismo può essere letto in termini di pulsione autarchica, come se rivendicare la capacità di decidere politicamente dei destini della propria comunità debba significare la rinuncia agli scambi e alle relazioni di mercato. Questa è forse l’obiezione più ingenua e banale, giacché gli scambi si sono sembre fatti storicamente nella cornice di compagini politiche, monarchiche, aristocratiche o democratiche, e solo in tempi recenti è emersa l’idea che la dimensione politica in quanto tale possa essere di principio rimpiazzata da quella economica. Che il controllo di ultima istanza sulle regole e le dinamiche degli scambi economici sia assegnato alla sovranità politica, questo è tutto ciò di cui c’è bisogno per preservare la priorità del politico sull’economico. Non c’è bisogno né di piani quinquennali, né di chiudere le frontiere col filo spinato.
Un sovranismo democratico e non nazionalista è, a mio avviso, l’orizzonte politico su cui dovrebbe scommettere chiunque ritenga che il mondo futuro non debba consistere essenzialmente di relazioni economiche tra individui.