Ancora su destra e sinistra (riflessioni di un post-Comunista)

Le righe che seguono riassumono un percorso recente nella consapevolezza politica, un percorso quasi ‘dialettico’, nel senso hegeliano del termine, un percorso vissuto dallo scrivente e, credo, in modo non troppo diverso da altri soggetti appartenenti alla tradizione post-comunista.

Provo qui a riassumerne i tratti di fondo.

  1. Autocoscienza e crisi

Il punto di partenza di questo percorso è stata una lunga, frustrata e reiteratamente delusa militanza nella sinistra politica, in cui per anni, decenni, si è cercato indefessamente di vedere il bicchiere mezzo pieno, di interpretare posizioni sempre più astratte e indifendibili come se fossero errori passeggeri, distorsioni da cui si sarebbe potuto rientrare se solo si fosse insistito abbastanza.

Gli slittamenti gestaltici sono quei passaggi studiati dalla psicologia della percezione in cui d’un tratto, guardando una figura, vi si scopre una figura alternativa che conferisce nuovo senso all’immagine.

Nei confronti della storia della sinistra ad un certo punto per alcuni è avvenuto uno slittamento gestaltico. Dopo l’ennesimo tentativo di imporre i lineamenti della ‘vera’ sinistra a ciò che si configurava sempre di più come un’idra policefala, contraddittoria e irriconoscibile, qualcuno ha scoperto che quei tratti si prestavano ad una lettura completamente diversa. Una volta avvenuto questo slittamento gestaltico, tutto appariva in una luce differente e più chiara.

L’errore di fondo era stato nel continuare ad immaginare che quella cosa informe che chiamavamo ‘sinistra’ (o ‘centrosinistra’) dovesse in qualche modo essere comunque l’erede della tradizione del PCI (tra alti e bassi fino al 1984) e del PSI (tra alti e bassi fino al 1976). Con tutti i loro difetti queste due tradizioni avevano temperato nel contesto italiano molte delle astrattezze ideologiche che caratterizzavano il comunismo e il socialismo in altri paesi: erano popolari ma non populisti, radicati territorialmente, scevri dell’ateismo militante e dello scientismo positivistico che altrove ne avevano drammaticamente impoverito i contenuti. Per quanto si possano e debbano ricordare i molti errori di queste forze politiche, tuttavia esse hanno rappresentato l’ultima prospettiva politica vitale alternativa all’imperio capitalista, e rispetto a qualunque cosa oggi offra il mercato della politica si presentano come immensamente superiori per capacità di elaborazione e qualità delle classi dirigenti.

Per chi ha vissuto dolorosamente la trasformazione del PCI nella ‘Cosa’ di Occhetto (ma ci sta anche Carpenter) si è spesso verificato un altro fenomeno noto alla psicologia della percezione: l’abitudine dell’occhio alla forma precedente ha continuato a dettare l’interpretazione della forma successiva, anche quando oramai i tratti comuni rimasti erano una manciata insignificante. Davanti agli occhi avevamo in effetti non più le vestigia del PCI, ma un confuso gruppetto di partiti usciti dall’evoluzione della ‘nuova sinistra’ anticomunista degli anni ’70: da un lato un partito liberale ortodosso, votato al mercatismo, dall’altro qualche altro partitino espressione del libertarismo postmoderno e dell’individualismo fricchettone. Dell’ispirazione disciplinare, austera, collettiva, popolare, umanistica, nazionale e internazionale del vecchio PCI (e in parte del PSI) non era rimasta quasi traccia.

Erano rimasti, confusi tra di loro, due orientamenti post-comunisti. Uno, che designiamo con la grafia Post-comunista, intendeva identificarsi attraverso il rifiuto di quell’esperienza, mostrando di aver ‘imparato dai propri errori’ (senza peraltro aver speso un giorno a capire quali fossero). Il secondo, che designiamo come post-Comunista, intendeva tenere in vita il meglio della storia comunista, ma per farlo aveva bisogno di tempo per elaborarne gli errori. (Nonostante all’indomani della Bolognina questa partizione sembrasse incarnata in partiti specifici, si è visto poi come in effetti queste posizioni fossero entrambe trasversalmente presenti in tutti i partiti post-comunisti.)

Una volta preso atto di quanto poco ci fosse da salvare, era necessaria un’operazione reinterpretativa e un riposizionamento teorico, recuperando luoghi che erano stati completamente abbandonati nella fretta di abiurare alla storia del PCI (e in parte anche prima). Per un post-Comunista dovevano ritornare perciò organicamente in primo piano cose come il nesso tra identità di popolo (anche nazionale) e democrazia, il comunitarismo hegeliano e del primo Marx, le rivendicazioni di una natura irriducibile al relativismo culturale, e altro ancora. Sciaguratamente questi terreni erano stati lasciati del tutto scoperti e nominalmente abbandonati alla destra, la cui componente ‘conservatrice’ (invero sempre minoritaria in Italia) li riconosceva come di valore. Di fatto, va detto, la destra italiana, pur trovandosi gratuitamente in dotazione quel patrimonio ideale, ne ha fatto soltanto un uso retorico da comizio, perché per farne qualcosa di concreto avrebbe dovuto rimettersi radicalmente in discussione, cosa cui la destra italiana è strutturalmente refrattaria.

Così, paradossalmente, una riconquista del terreno di maggior successo della “sinistra” italiana del ‘900 passava attraverso un recupero e una rilettura di temi che erano stati lasciati alla destra (senza che in effetti essa sapesse bene che farne, salvo sfruttarla sul piano propagandistico).

Nessuno poteva aspettarsi che un tale tentativo di riconfigurazione potesse essere indolore, ed infatti esso ha comportato (e continua a comportare) per chi lo ha tentato un’infinita serie di rotture e anatemi.

 

  1. La Storia non aspetta: dalla crisi subprime alla crisi da Covid

Il bello – e brutto – della Storia è che non sta mai ferma.

E così venne la crisi del 2007-2008. Questa crisi mondiale ebbe il merito di togliere uno dei veli con cui l’eredità post-comunista aveva coperto la propria metamorfosi, rendendosela irriconoscibile. Quella crisi ha cominciato a far scricchiolare la passiva fiducia che una parte della ‘sinistra’ aveva riversato nell’europeismo, per lungo tempo vissuto confusamente come una specie di succedaneo storico del comunismo. Si è cominciato a scoprire che i trattati europei non erano stati redatti con l’intento di creare in Europa una terra di giustizia sociale e comune prosperità, ma solo un mercato a maggior gloria del capitale, e si è cominciato a vedere che l’emergente cosmopolitismo classista non era affatto un altro modo di chiamare l’internazionalismo socialista.

È importante capire che quella transizione all’europeismo per il ‘popolo’ post-comunista era nutrito da istanze ideali che realmente esistevano e che avevano un senso storico distintivo. L’idea di scommettere sull’adesione ad un sistema di alleanze, che si speravano politiche e popolari, con gli altri paesi europei aveva un senso preciso, ovvero quello di creare un’alternativa al modello americano. Negli anni in cui il progetto europeo prende inizialmente forma l’Europa si caratterizzava per un modello di sviluppo molto più socialmente attento di quello statunitense, con una sostanziale accettazione dell’impianto keynesiano, e l’idea di, per così dire, porre rimedio alla debacle europea delle due guerre mondiali, riportando l’Europa al centro dello scenario mondiale, liberandosi del basto americano, era affascinante e di principio percorribile.

Tuttavia gli anni decisivi per la concretizzazione del Trattato di Maastricht furono anche gli anni della svolta neoliberale e del crollo dell’URSS, e perciò l’atmosfera in cui quei trattati vennero redatti era un’atmosfera oramai lontana anni luce dal ‘modello sociale europeo’, e invece incline ad una ripresa dell’ordoliberismo, rimasto sempre influente nella storia del paese europeo più potente, la Germania.

L’Europa perciò finì per configurarsi – e volersi – come una brutta copia degli USA.

Comprendere che l’”europeismo reale” non solo era agli antipodi della tradizione comunista, ma era in effetti un’incarnazione di tutto ciò che quella tradizione aveva combattuto, comportava per i post-comunisti una presa di coscienza faticosa. Si tratta di un percorso che molti non hanno ancora neppure cominciato a fare, e tuttavia, dopo la crisi subprime, l’indecente spettacolo della cannibalizzazione della Grecia e i ricatti senza pudore rivolti ai membri più deboli del club europeo avevano aperto per la prima volta da molti anni una breccia critica in quella specie di letargo mentale in cui era finito il ‘popolo’ postcomunista.

Purtroppo o per fortuna la Storia ha spesso tempi molto più veloci di quelli in cui un popolo riesce a ripensare e ricategorizzare la propria situazione. Così dieci anni dopo la crisi subprime, e ben prima che i suoi effetti sulle coscienze collettive potessero farsi pienamente sentire, la pandemia da Covid ha messo in tavola un elemento del tutto nuovo con cui confrontarsi.

La crisi da Covid ha innanzitutto accelerato in modo vertiginoso le diseguaglianze interne all’Europa (e interne ai singoli stati), esponendo i limiti funzionali delle istituzioni europee e minacciando di far esplodere socialmente in brevissimo tempo l’area finora più ricca del mondo. Gli scricchiolii dell’Unione Europea sono diventati così assordanti e frenetici, che in molte coscienze insospettabili e finora inerti ha iniziato a maturare la necessità di chiarire cosa l’Europa vuol fare da grande, pena non arrivarci mai alla maggiore età.

Quale direzione tutto ciò andrà a prendere non è chiaro, ma un bivio spesso evocato, e altrettanto spesso rinviato, è ormai davanti agli occhi: o i paesi europei pervengono ad una revisione radicale delle regole che hanno sottoscritto trent’anni fa o si giungerà rapidamente ad un collasso interno delle istituzioni europee, collasso che verrà pagato duramente da tutti, inclusi i paesi più economicamente solidi.

In questo scenario tutto si sta muovendo e niente è davvero deciso. Questo è uno dei classici momenti storici in cui la buona politica fa (farebbe) la differenza (come la fa, in altro modo, la cattiva politica). In questo scenario molte carte sono disponibili, e andrebbero giocate tutte senza preclusioni. Nell’ottica qui assunta, quella di un post-Comunista, che a giocarle siano pasdaran progressisti dell’ “europeismo reale” è tanto rischioso quanto che a giocarle siano forze di destra mercatista essenzialmente disinteressate alle sorti delle classi lavoratrici.

 

  1. Una crisi nella crisi

Ma la crisi da Covid ha creato una seconda soglia di confronto fondamentale.

Il primo movimento (crisi subprime) ha spinto i post-Comunisti verso una rottura su punti qualificanti con la recente sinistra, e ad un’apertura a temi che erano stati lasciati in mano alla destra o parte di essa. A questo punto però la crisi pandemica ha messo nel mezzo del sentiero un nuovo macigno, che ha rimescolato le carte.

Il Covid ha accidentalmente predisposto una specie di test naturale, a due stadi, per la valutazione politica (e anche umana) delle persone.

Il primo stadio è rappresentato dal ‘dilemma tragico’ (spesso più apparente che reale) che contrappone il valore di vita umana/salute alle richieste della libertà individuale e dell’economia.

Il secondo stadio è rappresentato dalla divergenza di atteggiamento tra mentalità disposte alla semplificazione volontaristica e mentalità disposte alla complessità raziocinante.

La prima cosa da osservare è che in rapporto ai posizionamenti politici tradizionali, entrambi questi spartiacque tendono a identificare istanze abbastanza chiaramente connotate sul piano politico.

Nella tradizione post-Comunista (e anche in parte nella sinistra Post-comunista) è sempre esistita una tendenziale netta subordinazione teorica della libertà individuale ed economica al valore della vita e della salute. Sono invece i libertari alla Nozick, insieme a neoliberali e ‘neocon’, nella linea storica emersa dalla prima Rivoluzione Industriale, a subordinare tipicamente la salute alla libertà di scelta e alle esigenze della produzione.

Quanto al secondo spartiacque, è parte della tradizione dialettica post-Comunista, ma anche della sinistra Post-comunista, l’accettazione della complessità, ovvero dell’esistenza di policausalità non facilmente riducibili ad una chiave di lettura unica. Al contrario, fa parte di una specifica tradizione di destra (non quella libertaria, ma quella fascista) la tendenza alla mitizzazione semplificatoria, al taglio netto della complessità attraverso una lettura monocausale (e spesso volontaristica e personale) della realtà. Questa è una disposizione culturale che si ritrova ampiamente rappresentata nel fascismo e nel neofascismo.

Come si vede, queste due opposizioni non separano esattamente gli stessi gruppi, né a destra né a sinistra, però grossolanamente vi è una significativa sovrapposizione con quelle partizioni tradizionali.

Va poi subito sottolineato come queste contrapposizioni non possano definire in maniera univoca e netta ragioni e torti, virtù e vizi. Si tratta sempre di tendenze in bilanciamento. Nessuno è disposto a sacrificare ogni libertà a qualunque ancorché trascurabile difesa di vita e salute. E nessuno è disposto a sacrificare del tutto vita e salute per un qualunque ammontare di libertà, personale ed economica. Parimenti, nella seconda opposizione, una complessità razionale perseguita illimitatamente porterebbe alla paralisi della volontà, mentre una mitizzazione semplificatoria perseguita illimitatamente porterebbe senz’altro a forme deliranti.

Questi due grandi divisori esprimono tendenze antropologiche e psicologiche che hanno sì un tradizionale correlato politico, ma che richiedono sempre un bilanciamento. I punti di bilanciamento tra ‘destra’ e ‘sinistra’ sono però largamente divergenti.

 

  1. La durezza della storia e l’inerzia neoliberale

Ora, la crisi da Covid è esplosa nel mezzo di un faticoso processo di rimessa in discussione delle tradizionali categorie di destra e sinistra, e lo ha fatto mettendo in luce, con quella brutalità di cui solo natura e storia sono capaci, il livello di confusione e ambiguità racchiusa in quella (necessaria) ridiscussione.

Si è scoperto – come forse era da attendersi – che nei fronti in fase di costituzione ribollivano, in ignara contiguità, istanze ampiamente differenti.

Così, nel recente antieuropeismo era celata sia la raggiunta consapevolezza della natura neoliberale dell’Unione Europea, sia il più classico atlantismo filoamericano, senza soluzioni di continuità da Nando Mericoni ad oggi.

Parimenti, nel recente rifiuto delle posizioni scioccamente esterofile ed autorazziste diffusesi in Italia era celata tanto la consapevolezza dell’importanza di un’identità di popolo e di cultura, quanto tronfie dosi di provincialismo gozzuto, quando non di vero e proprio razzismo.

E ancora, nel recente rifiuto del ‘pensiero unico’ liberale promosso all’unisono dai media sedevano in prossimità tanto l’esigenza di una visione più critica e approfondita rispetto alla chiacchiera mainstream, quanto un incredibile bestiario di leggende metropolitane, mitologie complottarde e schiette forme di paranoia non diagnosticata, in cui vale come unico indice di verità il non comparire nei resoconti mainstream.

Ed è a questo punto, solo a questo punto, che l’entità della catastrofe storica in cui ci troviamo acquisisce appieno i suoi lineamenti di fondo. Per un breve momento, per alcuni anni, era potuto sembrare che l’evidente crisi dell’ortodossia liberale ed europeista, mercatista e individualista, evidenziata dalla crisi subprime, avesse avviato un processo di rovesciamento dialettico, capace di rimettere in gioco una visione alternativa, una visione che alcuni immaginavano ancora come covante sotto le fredde ceneri del comunismo e socialismo (italiani).

L’illusione è stata di breve durata, e l’impatto della pandemia ha fatto emergere impietosamente il disastro culturale ed umano creato dal quarantennio neoliberale.

Di fronte ad una situazione emergenziale inedita come la pandemia quella che sembrava una salutare risposta di rigetto dei frutti del quarantennio neoliberale si è rivelato prevalentemente – e inconsapevolmente – una risposta tutta interna alla lezione della peggiore destra neoliberale.

Di fronte alla rottura di una normalità da tutti prima ferocemente criticata, invece di alimentarne le possibili opportunità, si è finito per bramare un ritorno purchessia allo status quo ante; qualunque cosa purché il business as usual possa continuare.

Di fronte alle esigenze di tutela e difesa della vita e della salute si sono attivati tutti i più feroci automatismi neoliberali, pronti a sacrificare tutti e tutto purché io e i miei affari possano proseguire la loro corsa.

Tutti i più classici meccanismi neoliberali del mors tua, vita mea sono partiti senza freni, dalla lotta fra poveri, al sacrificio degli anziani ‘improduttivi’, alla critica dello stato e degli statali, al rifiuto libertario di ogni vincolo volto al bene comune, ecc.

L’avvenuta devastazione della formazione critica, della cultura media e degli strumenti intellettuali di base si è manifestata nel modo più straordinario e pervasivo. Si è palesata una forma di nescienza specifica, del tutto diversa dall’ignoranza contadina o premoderna.

Qui si tratta non solo di non sapere, ma di non sapere di non sapere, e laddove per caso si intuisca di non sapere, di fregarsene, perché il proprio libero pregiudizio non può giammai sottostare all’oppressiva disciplina di prove, verifiche, argomenti. Questo è un prodotto storico inedito, in cui l’individualismo libertario neoliberale si allea alla santificazione dell’interesse privato, sfociando nel rifiuto di ogni ricerca dell’obiettività, vissuta come oppressiva. È come se sul fondo delle coscienze neoliberali avesse preso oscuramente forma una visione riassumibile così: “la ricerca stessa del vero ha una pretesa di universalità e di accordo collettivo, dunque in fondo la verità è una forma di collettivismo che opprime l’individuo.” Ciò che resta, una volta che questa idea ha preso possesso delle coscienze è solo una concezione integralmente strumentale di ogni dato ed argomento, che prende vita solo se e nella misura in cui serve a giungere a quella conclusione che privatamente mi fa comodo.

I cosiddetti “negazionisti”, i variopinti “no mask”, sono solo la componente venuta a galla con la pandemia di un sottobosco di soggetti per i quali il pregiudizio autointeressato è l’unica guida autorevole della ragione, che si riduce a ricerca del colpo di teatro per ottenere la vittoria locale in un confronto: una battuta è buona quanto un link esoterico, uno sfottò quanto un’estrapolazione strumentale.

Il triste ma chiaro risultato è che, contrariamente a quanto qualcuno aveva sperato, tutto o quasi il movimento di liberazione dal quarantennio neoliberale si è mosso all’insegna di una ripresa e adeguazione ai peggiori frutti della stagione neoliberale.

Ciò che è emerso – ma c’era da aspettarsi qualcosa di diverso? – è che l’irrazionalismo coltivato da una certa destra (tradizionalmente fascista e neofascista) si è combinato con l’individualismo anarcocapitalista in un rifiuto di ogni verità ostativa dei propri affari. La propensione alla mitologia semplificatoria che ha così spesso caratterizzato la matrice fascista si è alleata con la sacralizzazione dell’interesse privato prodotto dal regime neoliberale. Il risultato (di cui non abbiamo ancora visto l’intero potenziale) è un degrado di ogni argomentazione a strumento politico, e di ogni politica a strumento dell’interesse privato.

  1. Il cerchio si chiude

Per il sempre più sparuto ‘popolo post-Comunista’ la sacrosanta critica all’involuzione della ‘sinistra’ si trova così a doversi confrontare con una destra individualista tumultuante e crescente, che, senza averne contezza, unisce neofascismo e neoliberismo. Gli argomenti ‘conservatori’ che il Post-comunismo aveva lasciato colpevolmente alla destra sono scomparsi dalla tavola, lasciando spazio alla più schietta destra liberista, spesso inconsapevole di esserlo, ma pronta a tutto.

E a questo punto la necessaria critica post-Comunista all’astratto ‘buonismo’ della sinistra corre il rischio di supportare semplicemente il sereno ‘cattivismo’ di una destra neoliberale che brandisce l’egoismo come una medaglia.

La necessaria critica post-Comunista all’astratto ‘scientismo’ di parte della sinistra liberale corre il rischio di dar semplicemente man forte al virulento irrazionalismo di una destra neoliberale, orgogliosa di subordinare il sapere al privato volere.

E persino la doverosa critica post-Comunista all’economicismo mainstream, travestito da ‘competenza’ super partes, corre il rischio di alimentare semplicemente la più sbracata incompetenza, che pensa di sostituire l’analisi della realtà con illusioni di comodo.

E così si arriva al capolinea, il cerchio si chiude.

La critica post-Comunista aveva avviato un’indispensabile e feroce critica del degrado della sinistra, e lo aveva fatto perché capiva che quel degrado apriva le porte alla peggiore destra, e lo temeva .

Ma ora quella destra non è più un timore. Sta bussando alla porta. E per un post-Comunista l’ordine di priorità dei fronti di battaglia non può che cambiare: se è vero che la sinistra postmoderna e quella liberale sono un avversario politico, la destra neofascista e neoliberale sono il nemico.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

4 Risposte a “Ancora su destra e sinistra (riflessioni di un post-Comunista)”

  1. peccato, certe persone dovrebbero scrivere per tutti, invece lo fanno per pochi, comunque ostentare termini sconosciuti ai più, cioè a quelli che vorrebbero imparare qualcosa, e sapendo di farlo è degradante.

    1. Mah, esistono eccellenti e gratuiti dizionari online, dove con pochi secondi di sforzo uno può trovare quel che vuole. Se poi uno non vuole fare nessuna fatica e sentirsi confermato sempre in quello che sa già, basta accendere a caso la TV.

  2. Scritto inevitabilmente traboccante di pessimismo della ragione.
    Che condivido in pieno: quante volte in questi anni mi é tornato in mente ciò che i fondatori del materialismo storico scrivevano già “ab origine”, nel Manifesto del 1948 (ma da tutti inteso, allora e anche per molto tempo dopo; anche da me personalmente in gioventù, quasi come una sorta di precisazione pignola e un po’ pedante, come la consapevolezza che esistono anche “eccezioni che confermano la regola”), circa la possibilità che l’ esito di ogni fase della lotta di classe potesse essere, in alternativa all’ instaurazione rivoluzionaria di “superiori” rapporti di produzione, “la rovina comune delle classi in lotta”!
    Ma anche aperto all’ ottimismo della volontà (che altrimenti ci si potrebbe tranquillamente dare l’ eutanasia anziché aspettare una morte interminabile e sempre più dolorosa).
    Due cose non mi convincono, e su queste spero di leggere ulteriori riflessioni e considerazioni.

    La prima riguarda la ben diversa “figura” che, nonostante la stampa e la TV politicamente corrette stiano superando in proposito se stesse in quanto a disonesta, vergognosa mistificazione dei fatti, la Cina sta “facendo” di fronte alla pandemia; a proposito del comportamento del “mainstream (dis-) informativo” rilevo solo che non si si perita di parlare tranquillamente di “primo, “secondo” e “terzo” vaccino anti-covid riferendosi a quelli che “nella classifica generale provvisoria” sono per lo meno -se non peggio- il sesto (quello quasi completamente inutilizzabile necessitante di temperatura di -80° per la conservazione, e dunque non gestibile dalla totalità dei medici di base e delle farmacie, e da parte degli ospedali, oltre a costare “l’ ira di Dio” nei rarissimi casi in cui potrà forse essere utilizzato), il settimo e l’ ottavo.
    In proposito so bene che il rischio di cadere in un’ eccesso di ottimismo della volontà, tanto più in tempi cupi come questi, é sempre incombente e rischia di far prendere inservibili lucciole per incoraggianti e promettenti lanterne.
    Personalmente circa la Cina “postmaoista” o “da Deng in poi” ho sempre avuto molti più dubbi che certezze; ma ero e tuttora sono fortemente propenso a credere piuttosto ad una mera restaurazione del capitalismo (o per certi aspetti una sua “instaurazione ex novo con spettacolare sviluppo”) che ad una “NEP in grande stile”, senza remora ideologica alcuna circa profondità e durata delle concessioni tattiche da fare al nemico di classe in una fase difensiva della lotta o di ripiegamento ordinato onde evitare rotte catastrofiche”, secondo l’ originale accezione di Lenin.
    Ma in ogni caso, anche propendendo per il pessimismo della ragione, la presente straordinaria superiorità cinese rispetto all’ occidente ultraliberista dovrebbe pur sempre far riflettere su quanto per lo meno “se la cava molto meglio” nel garantire diffuso benessere (materiale e ideale) :
    a) Un capitalismo “di stato”, dirigista, più o meno keynesiano, che al socialismo é comunque relativamente più affine o meno “diametralmente opposto” di un capitalismo ultraliberale e “antistatalista” (queste ultime virgolette per via degli “indicibili” continui, massicci aiuti al capitale privato grazie al prelievo fiscale ai danni “soprattuttissimo” dei lavoratori dipendenti).
    b) Un capitalismo che, essendo stato restaurato in maniera relativamente “soft”, senza clamorose rotture istituzionali e spargimenti di sangue dopo un trentennio di per lo meno “tentato sviluppo socialista” (per quanto limitato e “primitivo”), ha pur dovuto fare non irrilevanti concessioni al socialismo in un processo tutto sommato inquadrabile piuttosto nel concetto gramsciano di “rivoluzione passiva” che non un quello di una pura e semplice restaurazione controrivoluzionaria senza compromessi”.
    E questi dovrebbero essere interessanti argomenti di riflessione nella ricerca di una strada che possa riproporre un autentico progresso morale e civile dopo decenni di reazione e decadenza.
    Tanto più se la fine dell’ URSS, che mi sembra indubbio di questa fase regressiva sia stata per lo meno fra le più potenti concause, non viene semplicisticamente intesa come un “crollo” (per intrinseci insuperabili catastrofici limiti e difetti del sistema, come da vulgata corrente; il che ovviamente non significa ignorare reali limiti e difetti, anche gravi, effettivamente presenti), ma principalmente e sostanzialmente come una sconfitta; giunta dopo settant’ anni di esistenza continuamente contrastata da un nemico superpotente, implacabile e senza scrupolo alcuno circa l’ uso dei mezzi anche più abbietti e disumani (non meno forsennatamente ostile ed aggressivo per il fatto di essere riuscito a spuntarla non attraverso i violentissimi attacchi bellici cui pure non si é peritato di ricorrere nonappena possibile ma attraverso una sorta di “corruzione strisciante dei gruppi dirigenti e del potere statale e di partito).

    Il secondo motivo di dissenso da parte mia riguarda la conclusione che “se è vero che la sinistra postmoderna e quella liberale sono un avversario politico, la destra neofascista e neoliberale sono il nemico”; che mi pare coerente con un altro suo recente intervento “filoeuropeista” (mi scuso per la grossolana semplificazione terminologica.
    Per parte mia sono invece convinto che nella sostanza, al di là di differenze più che altro di stile, la destra liberale “rispettabile filoLGBT e filoCharlie Hebdo” non sia meno reazionaria e pericolosa dell’ altra destra “sbracata e più o meno esplicitamente fascisteggiante” della lega e compari; per me Biden (ma anche Sanders, che lo ha pienamente sostenuto e lo sostiene nelle elezioni e nel “postelezioni” della più gloriosa brogliocrazia del mondo, e anche Corbyn, non sono meglio di Trump e Johnson. Nè in politica intena -tragicomica “riforma sanitaria dell “Obamacare”- né in politica estera: Israele, Iran, Iraq, Siria, Libia, Ucraina, Bielorussia, Cuba, Venezuela, Argentina, Bolivia e tanto altro che al momento non mi sovviene. Sembra di assistere a quel gioco da Settimana enigmistica che consiste nel “trovare le sette differenze” fra due vignette uguali al 99,9%).
    Fare di tutte le erbe un fascio (più o meno metaforico) é certamente sbagliato.
    Ma anche sostenere l’ illuminata, tollerante e “civilissima” opposizione laburista di sua maestà, che, come rilevava Lenin secondo me a ragione, era di fatto più reazionaria e nemica del progresso dell’ fondamentalista islamico, autoritario, illiberale emiro dell’ Afghanistan (senza offesa dei laburisti britannici di allora, certamente meno spregevoli dei Renzi, Zingaretti, figlio naturale di Breznev, ecc. di oggi).
    Mi scuso se sono stato troppo lungo e allo stesso tempo troppo sbrigativo e ringrazio per l’ attenzione.

  3. Buonasera professore,

    leggerla è (quasi) sempre un (faticoso) piacere, e lo premetto non per conquistare la sua benevolenza ma come attestato di un’onestà e di un’urgenza della ricerca che non ho sempre riscontrato (anzi, diciamo pure che è cosa rara).
    Quello che ha scritto mi ha suggerito molte riflessioni e alcune (diciamo pure molte) critiche ma, essendo questo un semplice commento, le faccio una domanda “secca”: ammesso e non concesso che le sue conclusioni “filino”, ovvero che il nostro principale problema sia la prospettiva di una deriva eversiva di “destra” di massa, (cosa) dovrei votare alle prossime elezioni politiche?

    Posto che immagino sia probabile abbia perso alcuni (tutti?) i passaggi del suo ragionamento, spero colga il (mio) senso della domanda. Non voglio appiattire la sua riflessione sul “mero” problema del voto, ciò detto la politica non è una disciplina teoretica quindi si misura (anche e) soprattutto sul “che fare”.

    La ringrazio in ogni caso per il contributo e le (mi) auguro buona ricerca.

    (Perdoni le parentesi, non sono (solo) un vezzo “ma anche” (cfr.: WV, 1991) un modo di sintetizzare un ragionamento)

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